Un film di Mario Camerini. Con Anna Magnani, Massimo Girotti, Checco Rissone, Enrico Glori, Peppino Spadaro.Commedia, Ratings: Kids+13, b/n durata 90 min. – Italia 1948. MYMONETROMolti sogni per le strade valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Un disoccupato ruba, per disperazione, la macchina di un industriale. Poi si pente e la riporta in garage. Ma intanto la moglie l’ha denunciato alla polizia. Quando viene a sapere del ravvedimento del consorte, la donna ritira la denuncia. Faranno pace.
Lord, convinto di essere Gesù, esce dal manicomio dopo la morte del padre per prendere il suo posto nella società londinese. Uccide moglie e zia, facendo accusare un innocente per conservare il potere. Graffiante commedia satirica di origine teatrale (adattata dallo stesso autore Peter Barnes) sulla classe dirigente britannica sotto il segno dell’irriverenza, della bizzarria e di un umorismo nero. Prolissa e qua e là irritante, ma vale la pena di farsi irritare.
Tre donne di generazioni diverse – nonna, madre, figlia – eliminano per insofferenza o per noia i propri mariti. Tutti decessi dolci, acquatici. Con la complicità di un pretore, loro amico e corteggiatore, fanno passare quelle morti per accidentali. Nel raccontare moralmente questa storia amorale il regista più dandy e perverso del cinema britannico ha fatto una commedia nera che si trasforma in dolente tragicommedia, impregnata di umorismo, ironia ed efferata dolcezza, giocando con i numeri, gli insetti, il sesso, i cadaveri, la solidarietà femminile. Nella colonna sonora un Mozart sublime.
In un ristorante francese di Londra si consuma, con la complicità dello chef, l’adulterio tra la moglie di un volgare e ricco mafioso e un bibliotecario. Scoperta la tresca, il marito uccide l’amante. La moglie si vendica, costringendolo a mangiarne il cadavere, e poi l’abbatte. Esaltato dalla fotografia del vecchio Sacha Vierny (1919) e dalla musica genialmente semplice di Michael Nyman, fondato sul trinomio cibo-sesso-violenza, è il film più sarcastico, feroce e divertente di P. Greenaway. Anche il più politico. La ripetitività del racconto, scandito in dieci giornate (e pranzi) può indurre a sazietà, ma l’assiste l’angelo custode di un umorismo nero.
Nel 1940 il capo di una compagnia teatrale di polacchi, in una Varsavia occupata dai tedeschi, riesce, con una serie di travestimenti (anche da Hitler), a far fuggire un gruppo di patrioti e di ebrei verso la libera Inghilterra. Rifacimento dell’omonimo capolavoro (1942) di Lubitsch – il cui titolo italiano è Vogliamo vivere! – è un triplice omaggio: alla Polonia, zerbino d’Europa; al regista berlinese; al teatro. Brooks, produttore e interprete, ne ha fatto un film ancor più slavo ed ebraico (ma meno rigoroso) del precedente. In una compagnia di bravissimi attori spicca la Bancroft, doppiata da Livia Giampalmo. Trascinante come una pochade di un Feydeau impegnato.
Una meticolosa e geniale rapina viene commessa ai danni di una banca svizzera per opera di un gruppo di abilissimi malviventi. Riusciti a trafugare un forte quantitativo di lingotti e a portarlo a Napoli, l’organizzazione vedrà sfumare sotto i propri occhi, per un banale incidente, il faticato frutto dell’impresa.
Izzy, escort romantica aspirante attrice, per caso irrompe nei provini di una commedia in preparazione a Broadway e rimescola le carte delle relazioni sentimentali di regista, autore, attrice e attore principali. Alla fine saluta tutti, diventa una diva e si mette con Quentin Tarantino. Ideato all’inizio del 2000, ma bloccato dalla morte (2003) di John Ritter, che avrebbe dovuto esserne il protagonista, sceneggiato da Bogdanovich con Louise Stratton, è un omaggio alla screwball comedy del suo maestro Lubitsch – il tormentone degli “scoiattoli alle noci” è una citazione di Fra le tue braccia (1946) – con l’aggiunta di un po’ di vaudeville à la Feydeau e un pizzico di Woody Allen. Ma è anche il testamento artistico del 76enne regista, che traspone in Izzy la sua poetica della frivolezza e la sua filosofia di vita all’insegna della levità. Ritmo, brio, sapidità, satira, virtuosismo della cinepresa, attori strepitosi sincronizzati come ingranaggi perfetti di un orologio.
A San Francisco un goffo musicologo è turbato dalle attenzioni di una vivace svitata che lo coinvolge in disavventure a mozzafiato con guardie e ladri. Bogdanovich resuscita con brio la commedia pazza degli anni ’30, ispirandosi in particolare a Susanna (1938) di H. Hawks. La vecchia ricetta funziona perché il copione è ingegnoso, gli attori adatti, molte gag fulminanti.
Cile, Vina del Mar. Sara, tredici anni, vive con la sorella minore Catalina, con sua madre Paula e con Lia, la compagna della madre. La loro è una quotidianità serena e spensierata, fino a quando l’adolescenza di Sara non solleva in lei dei problemi. Il confronto con i compagni, l’ansia di farsi accettare dai ragazzi, la paura di venir giudicata, alimentano in Sara un’inquietudine crescente. Le cose si complicano quando il padre tenta, allora, di ottenere la custodia delle figlie. L’inquietudine della protagonista è il motore del film, come racconta il primo lungo piano sequenza all’interno della scuola, ma viene pian piano messo in prospettiva dalla battaglia legale tra il padre e la madre: qualcosa di molto più grande della ragazzina, che la supera e la esclude, ma nasce sul terreno fertile del suo smarrimento.
Nel deserto tra Disneyland e Las Vegas c’è una stazione di rifornimento con bar e motel. Arriva a piedi una imponente turista 40enne di Monaco di Baviera e vi si installa. Come la Sägebrecht (Vedi Sugar Baby ) porti ordine e allegria nel sordido Bagdad Café è l’itinerario di un film accattivante, caloroso e astuto che, dopo Herzog e Wenders, propone un altro sguardo tedesco sull’America.
Becky (Paredes), diva della canzone, torna a Madrid, dopo anni di successo in Messico, e rivede la figlia Rebecca (Abril) annunciatrice di un telegiornale. Quando suo marito, ex amante di Becky, è assassinato, un giudice (Bosé) dalla doppia vita indaga, senza credere alla confessione che Rebecca fa in diretta TV. In questo falso melodramma dai personaggi eccentrici Almodóvar combina sapientemente la leggerezza ironica del tocco e la gravità dolorosa dei tempi tenendo lo spettatore sulla corda. Musiche del giapponese Ryuichi Sakamoto.
Pepi coltiva pianticelle di marijuana sul balcone. Un poliziotto la scopre e accetta di non denunciarla in cambio della sua verginità. Per vendicarsi, Pepi chiede aiuto all’amica Bom che seduce la moglie masochista del poliziotto e lo fa bastonare dagli amici, che sbagliano e pestano il suo gemello. Opera prima del trasgressivo regista spagnolo, ex impiegato della SIP, omosessuale e rockettaro, girata in 16 mm nel 1978, è un divertente, caotico, ironico quadro di un microcosmo che riesce a far ridere, a scandalizzare o imbarazzare con canagliesca grazia amorale.
Una serie di intricate vicende di un gruppo di persone tutte ossessionate dal sesso: da Reza Niro, un diverso, a Sexilia, ninfomane. Recuperato nel 1990 sulla scia del successo di Almodóvar (che qui appare nelle vesti del regista di fotoromanzi), è un filmaccio sgangherato, senza centro, piuttosto mal recitato. Il peggior torto che gli si può fare è quello di prenderlo sul serio.
C’è una truccatrice che deve fare i conti con le sindromi del suo partner il cui padre ha ucciso la madre. C’è un pornodivo che stupra fanciulle. C’è una reporter TV in cerca di storie trucide da inserire nel suo show. E le storie si intrecciano. 10° film di Almodóvar, uscito in Italia con un ritardo di 2 anni: una feroce, grottesca, violenta satira sui mass media all’insegna del Kitsch premeditato. La mano del più interessante autore del cinema spagnolo si sente, ma anche la maniera. L’operazione è solo parzialmente riuscita.
Nella Mosca di Gorbaciov nasce una strana amicizia tra Liocha (Mamonov), sassofonista ebreo alcolizzato che vive solo per la musica, e Schlikov (Zaitchenko), tassista rozzo, violento e antisemita. Nella sua collera disperata, straripante di urla e di furore, ma anche di tenerezza, sapiente nella descrizione della metropoli comunista, sostenuto da una colonna sonora in presa diretta (gli assolo del sax tenore sono di Harold Singer), è un film profondamente russo con una struttura narrativa forte da cinema americano. Si appoggia a due personaggi più veri e più grandi della vita che nell’edizione italiana hanno la voce di Mino Caprio (il sassofonista) e Massimo Dapporto (il tassista). Premio per la regia a Cannes.
Leocadia Marcia detta Leo che, con lo pseudonimo di Amanda Oris, scrive romanzi rosa di successo, sprofonda in una duplice crisi: sta per essere abbandonata dal marito amatissimo e non ne può più di scrivere romanzetti. Tenta il suicidio, elabora il lutto, riscopre le proprie radici, raggiungendo la madre nel villaggio natio della Mancha (patria del regista e di Don Chisciotte). Un Almodóvar più limpido del solito, come riconciliato, in una commedia spruzzata, invece che intinta, di grottesco che vive della sua dolorante eroina e dei suoi rapporti con gli altri personaggi, specialmente femminili, raccontati con affetto, tenera ironia, leggerezza.
Cinque personaggi e una città, Madrid, che è il 6° personaggio. Nel 1990, vent’anni dopo essere avventurosamente nato su un autobus nella capitale deserta per il Natale, Victor (Rabal) s’innamora della ricca, viziata e tossica Elena (Neri) e ingiustamente finisce in prigione per aver ridotto a paraplegico con una revolverata il poliziotto David (Bardem), in realtà ferito dal suo collega Sancho (J. Sancho). Scarcerato dopo 4 anni, Victor diventa prima l’amante di Clara (Molina), moglie di Sancho, e poi di Elena, rinsavita e moglie di David. Sancho uccide Clara e si suicida. David emigra. A Natale Elena, incinta di Victor, ha le doglie. Opus n° 12 di P. Almodóvar, è un film maturo e complesso, attraversato da uno humour nero alla Buñuel (esplicitamente citato con immagini di Estasi di un delitto ). Cinemascope molto fisico e palpitante (che è la corretta traduzione del “trémula” originale) nella messinscena del piacere sessuale condiviso, è un melodramma geometrico che svaria dalla commedia alla tragedia, dal grottesco al noir, cromaticamente dominato dal rosso, ricco d’invenzioni e recitato benissimo, con una dimensione politica inedita nel regista. Liberamente ispirato al romanzo Live Flesh di Ruth Rendell.
Con un passato familiare (sette sorelle!) che non passa, il goffo Barry coabita nella San Fernando Valley (California) con una pacata nevrosi che ogni tanto scarica in solitarie esplosioni di violenza. Nell’amore per l’inglesina Lena trova la forza di uscire dalla sua autistica apatia per affrontare dei ricattatori. E la vita. Dopo l’ambizioso, magnificato e sopravvalutato Magnolia P.T. Anderson abbassa la mira sul registro leggero con una commedia “sbilanciata, asimmetrica, deliberatamente obliqua rispetto ai canoni del genere” (P. Cherchi Usai). L’asimmetria non sta nel plot lineare e prevedibile come sono le favole d’amore, ma nel grottesco stralunato della prima mezz’ora e negli incidenti di percorso. Il sospetto di un esercizio di bravura fine a sé stesso è fondato, ma si deve ammirarne il brio intelligente, anche nella direzione della recitazione: riuscire a rendere buffo e godibile Sandler, divo TV espressivo come un paracarro, non è impresa da poco.
Passare da American Pie a questi sogni irrisi dalla fine gergale “z” è per Weitz un innegabile progresso. Film di struttura binaria con i 2 protagonisti che si incontrano verso la fine: l’uomo della Casa Bianca, ricalcato su Bush Jr. e Martin Tweed, conduttore di un reality show di enorme successo, modellato su Simon Cowell, del programma TV American Idol . Il primo è un idiota di buon cuore che comincia a dubitare della sua funzione e dei suoi consiglieri. Il secondo è intelligente e cinico nello sfruttare lo spettacolo della spazzatura con cui seduce una grande massa di vidioti, ma non privo di un malinconico odio per sé stesso. Due facce del potere sulle quali Weitz scherza; non sono però due personaggi caricaturali. È comprensibile che questa commedia noir non abbia avuto successo. Più che far ridere, spaventa. Attori bravissimi compreso Dafoe, burattinaio dell’uomo più potente del mondo, anch’egli ispirato a un personaggio reale: Dick Cheney.