Un mercante d’armi s’è arricchito col commercio, spesso illecito, con i paesi africani. I soldi hanno permesso a lui e alla sua famiglia di vivere negli agi. Un giorno però i figli cominciano a criticare la sua attività e gli impongono di smettere. Lui accetta, però fa loro presente il ridimensionamento del tenore di vita. I ragazzi decidono di tornare sui propri passi.
Regia di Luigi Magni. Un film con Nino Manfredi, Serena Grandi, Alberto Sordi, Massimo Wertmüller, Luca Barbareschi, Elena Sofia Ricci.Cast completo Genere Storico – Italia, 1990, durata 110 minuti. – MYmonetro 3,73 su 15 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. Siamo nel 1849, nel momento in cui la Repubblica romana dovette arrendersi alle truppe dell’esercito francese capitanate dal generale Oudinot. La cronaca dell’avvenimento in questione e gli altri accadimenti a Roma e nel resto dell’Italia sono la materia del film di Luigi Magni. Molti sono i personaggi che sfilano: il prete barnabita Ugo Bassi, papa Pio IX, Luciano Manara, celebre esponente monarchico, i patrioti Daverio, Messina, Narducci, Dandolo, il poeta Belli e Goffredo Mameli, autore dell’inno italiano. Affresco condotto con mano sicura da Magni anche se le interpretazioni non sono mai folgoranti.
I marziani sbarcano nel Veneto. C’è chi li strumentalizza, chi li sfrutta e chi li uccide. I pochi ingenui che li prendono sul serio finiscono in manicomio. È il solo film in cui il multiforme Sordi (fa 4 parti) s’è arrischiato nella fantascienza, sia pure nelle cadenze di un’operetta satirica e morale con messaggio incorporato.
Ispirato a un racconto di Julio Cortázar. Un ingorgo sull’autostrada blocca per 36 ore centinaia di automobili. S’intrecciano incontri, amicizie, conflitti, litigi, tradimenti. Relegati sullo sfondo, e tra le pieghe, i risvolti di fantasociologia e le ipotesi di catastrofe ecologica, il racconto si frantuma in una aneddotica di taglio realistico nel quadro della commedia di costume, ma c’è una nascosta sapienza di progressione narrativa e di impaginazione per cui l’addizione finale è superiore alla somma dei suoi addendi. “Gli toccarono, come a tutti gli uomini, tempi brutti in cui vivere” (J.L. Borges). Il film dice la stessa cosa di Comencini e di noi, suoi spettatori. Ridistribuito col titolo Black out sull’autostrada.
1916: Oreste Jacovacci, romano, e Giovanni Busacca, milanese, sono due scansafatiche furbastri e vigliacchetti. Dopo aver cercato invano di imboscarsi si trovano arruolati e al fronte. Da quel momento vivono tutte le disgrazie di una guerra: il cibo pessimo, le marce forzate, il freddo, la paura, qualche piccola distrazione militare, persino un’avventura con una prostituta (la vive il “milanese” Gassman). In una cosa i due sono sempre in prima fila: nell’evitare le grane, piccole o grandi che siano. Riescono a farla franca tutte le volte, ma una notte si trovano per caso in una cascina che viene presa dai nemici. Cercano di scappare travestendosi da austriaci, vengono catturati e proprio in virtù del travestimento potrebbero essere fucilati. Il colonnello nemico promette che li salverà se riveleranno l’ubicazione di un certo ponte di barche sul Piave. I due conoscono l’informazione delicatissima e decidono, per salvarsi, di parlare. Ma il colonnello dice la frase sbagliata e provoca nei due un incredibile rigurgito di orgoglio. È Gassman il primo a reagire, con la famosa battuta, al colonnello: “… visto che parli così, mì a tì te disi propri un bel nient, faccia di merda…”. E muoiono da eroi, fucilati. Film importante ed esclusivo, irresistibile per quasi tutti gli aspetti: l’interpretazione di tutti gli attori, la ricerca iconografica, la verità degli episodi e l’attendibilità storica. La sceneggiatura di Age, Scarpelli e dello stesso Monicelli presenta spesso toni comici – Gassman assomiglia molto a quello dei Soliti ignoti – e privilegia la bravura di tutti i caratteristi, anche non attori, come il pugile Tiberio Mitri e il cantante Nicola Arigliano. L’artificio, certamente commerciale, di contrapporre a una situazione divertente una drammatica, si è tradotto, alla resa dei conti, in un arricchimento, anche rispetto ai toni dei grandi film italiani della stagione del neorealismo, capolavori sì, ma spesso cupi e monocordi. Gli anni de La Grande guerra erano davvero quelli d’oro. Il nostro cinema non sarebbe mai più stato a quell’altezza.
Un giovane avvocato approfitta dell’assenza della moglie per darsi alle avventure galanti. Gli capita per caso una bella bionda inseguita da un marito geloso, ma il velleitario leguleio non riesce ad approfittare dell’occasione. È duro però persuadere della sua (forzata) innocenza la moglie (tornata in anticipo) e il furente marito della sconosciuta.
Un industriale italiano esportatore illegale di capitali in Svizzera, bloccato da un guasto all’auto, segue una bella motociclista e arriva in un castello dove è ospitato. Durante la notte, quattro magistrati gli fanno un processo e lo condannano a morte. All’inizio è sconvolto, poi scopre che il processo fa parte dell’ospitalità per turisti e se lo trova da pagare nel conto. Riparte e precipita con l’auto in un burrone.
Uno spocchioso editore romano, accompagnato da un suo mite ragioniere, parte per l’Africa portoghese, allora sconvolta dalla guerriglia, per ritrovare il cognato scomparso nel corso di un viaggio. Dopo numerose avventure che mettono a dura prova l’alto concetto che l’editore ha di sé, i due scoprono l’amico diventato stregone di un villaggio indigeno. Riescono a riportarlo sulla nave in partenza per l’Italia, ma il cognato si butta in mare per raggiungere gli amatissimi indigeni.
Film diviso in tre episodi intitolati rispettivamente: Il vittimista, Sadik e L’autostrada del sole. Nel primo Manfredi interpreta un insegnante di latino che va dallo psicanalista perché convinto che la moglie voglia ucciderlo; il luminare gli consiglia d’abbandonare l’amante ma sarà lei ad eliminarlo. Nel secondo, Chiari è costretto dalla moglie a fingersi un eroe dei fumetti neri. Nel terzo, Sordi è un automobilista con l’auto in panne, costretto a trascorrere la notte in una locanda gestita da violenti maniaci.
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Durante il passaggio della frontiera italiana per trascorrere le vacanze al paese natale, un emigrato viene fermato e imprigionato senza che gli venga fornita alcuna spiegazione. Di disavventura in disavventura, finisce in un manicomio criminale dal quale uscirà finalmente discolpato, ma purtroppo traumatizzato.
Uno straccivendolo romano e la moglie si battono ogni anno a scopone con una vecchia e dispotica miliardaria americana in coppia con il suo segretario. In un primo tempo la posta in palio è fittizia, ma poi si fa sul serio: si giocano tutti i risparmi della borgata. Scritta da Rodolfo Sonego, è una vetta della commedia italiana, basata sulla dialettica denaro-potere. E la morale è amara: a giocare con i ricchi (con chi tiene il banco) si perde sempre. Non c’è divisione tra buoni (poveri) e cattivi (ricchi): la linea di separazione è segnata dalla classe sociale e dall’obbligata scelta di campo. Film appassionante, interpretabile a vari livelli e recitato da attori infallibili.
Alcuni episodi comici, più o meno divertenti, sono cuciti insieme da un debole pretesto: assistiamo a quello che avviene in un giorno qualsiasi in pretura. Il film sarebbe caduto nel dimenticatoio se non fosse stato completamente riscattato dall’esilarante intervento di Alberto Sordi in altri due film.
Alberto Menichetti ha paura di tutto. Vive con due zie anziane, è impiegato in un cappellificio e annota qualsiasi cosa gli accada nel corso della giornata perché qualora gli venisse richiesto un alibi deve esser trovato pronto. Accetta di indossare una lobbia vecchio stile solo per compiacere il padrone così come, pur di non partecipare a uno sciopero, si finge malato ritrovandosi così ospedalizzato.
Roma primi anni Sessanta. Giovanni Alberti cerca di fare l’imprenditore edile senza avere capitali, e si trova in grandi difficoltà. I suoi amici sono tutti costruttori e hanno un tenore di vita che Giovanni non può sostenere. Quando chiede prestiti gli altri fanno orecchie da mercante. Giovanni deve ridimensionarsi e la moglie, abituata all’agiatezza, non capisce, in sostanza lo lascia. Giovanni incontra la moglie, non giovane, di un grande costruttore. Questa, ammiccante, gli dà un appuntamento. Ma la ragione non è quella che Giovanni immaginava: la donna gli chiede se sarebbe disposto a vendere un occhio al marito, che lo aveva perso in un incidente. Giovanni dapprima è furioso, ma poi capisce di non aver altra scelta. Con l’anticipo dei duecento milioni pattuiti dà una grande festa, per l’invidia di tutti, e sana i suoi debiti. La moglie torna a casa e tutto va a posto. Adesso però c’è da vendere l’occhio. In clinica Giovanni è terrorizzato, cerca di scappare ma viene ripreso. Non potrà proprio sottrarsi. Il film ebbe allora critiche pessime. Bastava che una storia dispensasse qualche sorriso perché venisse ritenuta di serie B. Era il dramma del povero Totò. Il Boom è del 1963, che fu proprio l’anno fondamentale del miracolo economico italiano (del “boom” appunto), e De Sica fece un ritratto che risulta geniale soprattutto a posteriori, quando sappiamo che quella stagione era soprattutto una speranza se non un abbaglio. La vicenda individuale di Alberto Sordi era come sempre la storia della speranza di un italiano. Del resto è proprio con ruoli come questo che l’attore è diventato l'”Albertone nazionale”, l'”Italiano medio”, il “più italiano degli italiani”. Noi riteniamo che nessun film come questo rappresenti quei sentimenti e quella confusione. Tutto questo con in più l’effetto De Sica, maestro assoluto, conoscitore della gente come nessuno e con l’effetto Sordi, nel momento migliore della sua carriera.
Dopo l’8 settembre 1943 un sottotenente ligio ai superiori (Sordi), in mancanza di ordini non riesce a tenere unito il suo reparto che, spinto dal desiderio di tornare a casa, se la svigna. Restano con lui il sergente Fornaciari (Balsam) che vuole raggiungere la sua casa poco distante e il soldato semplice Ceccarelli (Reggiani) che non se la sente di fuggire da solo dovendo raggiungere Napoli. La traversata da nord a sud dell’Italia, flagellata dalla guerra e in preda all’anarchia, lo fa maturare. Fusione ben temperata di comico, grottesco, drammatico e patetico: una storia corale con Sordi meno mattatore del solito. “Sotto le mentite spoglie di una commedia, il film è sostanzialmente un racconto a tesi … quello della scelta che ciascuno è chiamato a fare almeno una volta nella sua vita” (G. Gosetti). È forse il miglior film di L. Comencini, una delle rare mediazioni felici tra neorealismo e commedia italiana, grazie all’apporto di Age & Scarpelli (più Marcello Fondato) in sceneggiatura. Il ministro Giulio Andreotti rifiutò di mettere a disposizione 2 carri armati (furono costruiti in compensato). Prodotto da Dino De Laurentiis. Grande successo: più di 1 miliardo di incasso del 1960.
Fortunella è l’amante di un rigattiere trafficone per il quale finisce anche in galera. Quando ne esce lo scopre con un’altra e lo lascia. Il caso la fa incontrare con un nobile del quale è convinta di essere la figlia. Svanita l’illusione, si unisce ad una compagnia di guitti dove interpreterà quel personaggio, la principessa, che credeva di poter essere nella vita.
Il figlio di un impiegato ministeriale romano è ucciso per caso durante una rapina. Il brav’uomo prepara ed esegue una lenta, bieca, allucinata vendetta. Dal romanzo (1976) di Vincenzo Cerami, storia di vittime che sono anche mostri, un film omogeneo, sapiente nella mescolanza di toni (commedia, grottesco) e nella progressione drammatica, con un Sordi all’apice della sua carriera inserito in un contesto sociale efficacemente descritto. Efebo d’oro 1979.
Zona del lago di Como, inverno 1944. Silvio Magnozzi, partigiano romano, sul punto di essere ucciso da un tedesco, viene salvato da Elena, figlia della proprietaria di un albergo. Silvio si nasconde per qualche tempo in un mulino abbandonato, Elena gli porta da mangiare, nasce una relazione. Una notte l’uomo sparisce e lo ritroviamo a Roma dopo la Liberazione. Lavora in un giornale comunista e un giorno viene incaricato di fare un servizio sull’oro di Dongo, che è molto vicino al paese di Elena. Silvio telefona, Elena lo insulta, ma poi si presenta all’appuntamento e i due vanno a Roma insieme. Da quel momento l'”idealista” Magnozzi vivrà tutte le vicende chiave dell’Italia di quegli anni: il referendum che vede la vittoria della Repubblica, le elezioni del 18 aprile ’48 (quelle della paura comunista), le lotte di classe che lo porteranno in prigione, l’integramento nella ditta del suo vecchio, ricco nemico. Nel frattempo il matrimonio con Elena, donna pratica, ha avuto i suoi problemi. Titolo chiave di un’epoca del nostro cinema. La guerra e il dopo immediato visti quindici anni più tardi. Altri grandi film sulla guerra, come Tutti a casa e Il generale della Rovere, sono di quel periodo. Non ci sarebbe mai più stato un Risi come quello (ricordiamo Il sorpasso e I mostri). Alcuni episodi della Vita sono nel grande libro del cinema italiano: la cena in casa dei principi proprio al momento dell’annuncio che il re ha perso il referendum; Sordi che cerca di dare, disastrosamente, un esame di ingegneria, oppure ubriaco, a Viareggio, che sputa alle macchine che gli passano vicino; e ancora la scena finale del solenne schiaffo dato al commendatore che finisce in piscina. Magnifica stagione, corale, del cinema italiano (dei Monicelli, Risi, Comencini). Certo, più tardi ci sarebbero state le grandi individualità degli autori e dei “poeti” come Antonioni, Fellini e Pasolini, ma Silvio Magnozzi è il magnifico rappresentante delle cose che noi italiani abbiamo fatto, non solo sognato.
Dal romanzo di Ernest Hemingway. Durante la prima guerra mondiale, sul fronte italo-austriaco, un volontario americano s’innamora di un’infermiera inglese. Arriva Caporetto. Lui diserta e scappa con lei. Si rifugiano in Svizzera. Rifacimento del film di Frank Borzage (1932) con Gary Cooper (che in Italia non venne mai perché, sulla scorta del libro di Hemingway, osava fare dei rilievi sul comportamento delle truppe italiane a Caporetto). Questo invece fu fatto con il concorso dell’esercito nostrano (unica contropartita: un pistolotto iniziale sulle virtù guerriere italiche). Però è venuto peggio, un polpettone asmatico privo di bravura con una primattrice troppo anziana e leziosa, e poche emozioni anche per gli spettatori di bocca buona. Davide Selznick, che voleva farne il Via col vento degli anni Cinquanta, ne uscì stremato (appena recuperate le spese si ritirò a vita privata). Tra le ragioni dello stremo, le furiose litigate con il primo regista designato, John Huston, che non legava con la moglie-diva di Selznick, Jennifer Jones, e fu esonerato dopo poche settimane.
Giornata molto laboriosa per un attempato commissiario napoletano: due sposini che litigano, un giovane sfruttatore, una compagnia di riviste derubata dall’impresario, ecc.
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