In un misurato appartamento di Brooklyn due coppie provano a risolvere uno smisurato accidente. Zachary e Ethan, i loro figli adolescenti, si sono confrontati incivilmente nel parco. Due incisivi rotti dopo, i rispettivi genitori si incontrano per appianare i conflitti adolescenziali e riconciliarne gli animi. Ricevuti con le migliori intenzioni dai coniugi Longstreet, genitori della parte lesa, i Cowan, legale col vizio del BlackBerry lui, broker finanziario debole di stomaco lei, corrispondono proponimenti e gentilezza. Almeno fino a quando la nausea della signora Cowan non viene rigettata sui preziosi libri d’arte della signora Longstreet, scrittrice di un solo libro, attivista politica di troppe cause e consorte imbarazzata di un grossista di maniglie e sciacquoni. L’imprevisto ‘dare di stomaco’ sbriglia le rispettive nature, sospendendo maschere e buone maniere, innescando un’esilarante carneficina dialettica.
Sentimentalismi deamicisiani in versione sushi. Incontro tra un bambino abbandonato dalla madre e un yakuza, un mafioso giapponese, dal cuore d’oro. Hana-bi era un film notevole, molto migliore di quest’altra opera di Kitano.
Un film di Sam Peckinpah. Con Warren Oates, Gig Young, Robert Webber, Isela Vega. Titolo originale Bring me the Head of Alfredo Garcia. Drammatico, durata 112′ min. – USA 1974. MYMONETRO Voglio la testa di Garcia valutazione media: 3,69 su 12 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un ricco messicano offre un milione di pesos a chi gli porterà la testa dell’uomo che gli ha messo incinta la figlia. È il film più misconosciuto di Peckinpah, cineasta ossessionato dalla violenza che, però, anche qui è soltanto la reazione obbligata dell’eroe che appartiene a un mondo in via di sparizione. Diseguale e geniale discesa negli abissi di un mondo dove regnano la corruzione e la violenza.
Un mostro marino, la cui nascita è probabilmente imputabile allo smaltimento abusivo, avvenuto anni prima, di agenti inquinanti da parte di un’equipe di scienziati, emerge dal fiume Han, a Seul, attaccando e uccidendo i villeggianti intenti a godersi una bella giornata di sole: la creatura mutante, dopo aver mietuto numerose vittime, prende prigioniera una bambina, Hyun-seo. Nonostante l’intervento militare americano, che finirà per fare più danni che altro, sarà la disastrata famiglia della piccola a risolvere la situazione… L’impatto con The Host è al tempo stesso spiazzante ed esaltante. Sulla carta, la pellicola di Bong Joon-ho, sembra un classico “b-movie con mostro gigante e assassino”, ma mano a mano che passano i minuti, lo spettatore si rende conto di stare assistendo a uno spettacolo completamente diverso. Lo splendido script infatti, permette al film di cambiare registro narrativo con una velocità che lascia senza fiato: commedia, tragedia, azione, riflessione politico-sociale, tutti elementi mischiati assieme e atti a ottenere un genere nuovo e inclassificabile.
Bong Joon-Ho, oltre che abile sceneggiatore, si dimostra regista talentuoso, capace di regalare sequenze visionarie e memorabili (il primo attacco del mostro, l’arrivo sulla scena dell’arciera Bae Doo-na, l’inquietante finale), mentre l’eccellenza degli effetti speciali made in Weta, la peculiarità della colonna sonora e la perfetta interpretazione di tutto il cast fanno il resto. Sottesi, ma non troppo, molti temi scottanti e attuali: l’ambiente e la sua distruzione da parte dell’uomo, l’onnipresenza militare americana, il ruolo politico della Corea del Sud nello scenario globale, l’ottusità dei governi. Sopra ogni cosa, la speranza, incarnata da una famiglia di losers che lottando contro tutti e tutto, salva il mondo. Fino all’arrivo della prossima creatura…
Storia di un incubo in forma di interrogatorio al quale lo scrittore Onoff (Depardieu), apparentemente in preda all’amnesia, è sottoposto da parte di un commissario di polizia (Polanski). Fin dal titolo il 4° film di Tornatore è sotto il segno dell’ambiguità: oltre al suo significato di gergo burocratico-poliziesco, potrebbe essere letto come un esercizio di pura forma, ossia di stile, che mette in discussione lo statuto di credibilità delle immagini: qual è il confine tra fantasia e realtà? tra falso e vero? Allucinato dramma notturno di nordico onirismo, giocato sulla corda pazza dell’assurdo, è un film da prendere o lasciare, senza vie di mezzo. Chi prende ne gusterà la sagacia della costruzione, l’alta tenuta figurativa e sonora (fotografia di Blasco Giurato, musiche di Ennio Morricone), l’ammirevole concertazione degli attori: oltre a Depardieu e Polanski (doppiati da Corrado Pani e Leo Gullotta), c’è un incisivo S. Rubini come poliziotto che verbalizza.
Lui e lei fanno i giornalisti. Lei si occupa di cronaca mondana e di satira di costume, lui è corsivista sportivo. Nonostante le divergenze di carattere e d’interessi, finiscono per sposarsi. Ma il loro ménage matrimoniale è sulle prime disastroso. Disperando di poter trasformare la moglie in casalinga perfetta, l’uomo, dopo molte arrabbiature e titubanze, le consentirà di proseguire la carriera. Una commedia deliziosa. Segna lo storico incontro fra Spencer Tracy e Katharine Hepburn (avrebbero girato, in venticinque anni, nove film insieme): nessuna coppia fece sullo schermo più faville.
La storia vera di Dieter Dengler, pilota della U.S Air Force, americano di origini tedesche, abbattuto e catturato in Laos durante la guerra del Vietnam. Dengler riesce ad organizzare la sua fuga e quella di un gruppo di prigionieri. Diretto da Werner Herzog, si basa su un suo documentario del 1977, Flucht aos Laos (Little Dieter Needs to Fly).
Il capitano Colter Stevens, pilota di elicotteri e veterano della guerra in Afghanistan, si risveglia su un treno di pendolari senza avere la minima idea di dove si trovi. Di fronte a lui Christina, una bella ragazza che lo conosce ma che lui non riconosce affatto. In tasca (e nello specchio) l’identità di un giovane insegnante di nome Sean Fentress. Poi l’esplosione, che squarcia il convoglio. Ma Colter non è morto, da un monitor un ufficiale donna lo informa che dovrà tornare sul treno per identificare l’attentatore e prevenire un successivo, più micidiale attacco. Ogni volta che farà ritorno sul treno avrà solo 8 minuti a disposizione. Di più non gli è dato sapere, la missione è top-secret, il suo nome: “Source Code”.
Dal romanzo (1945) di Carlo Levi (1902-75): un intellettuale torinese, medico e scrittore antifascista a contatto con l’antica civiltà contadina della Lucania dov’è confinato intorno al 1935. F. Rosi mette la sordina alla dimensione antropologica e magica del bel libro di Levi e l’accento su quella sociale e politica. Un po’ raggelato nei paesaggi o lirici o didattici, ma ammirevole per l’intensità della sua delicatezza. Accanto a un G.M. Volonté introspettivo e sommesso e ad attori naturali ben guidati c’è un ottimo P. Bonacelli. La versione televisiva dura 270 minuti.
Un padre troppo occupato trascura la figlia e per farsi perdonare la porta a Busan dalla madre. Intanto un virus che trasforma in zombi si diffonde e mette in ginocchio il paese. Quel che è accaduto al paese accade in piccolo anche sul treno: una singola persona infetta scatena una reazione a catena in un ambiente ristretto e lanciato a tutta velocità verso la salvezza, e i caratteri dei personaggi emergono, le differenze sociali veicolano la lotta per sopravvivere, minacciata dall’egoismo di chi è abituato a esercitare il potere. Alcune soluzioni sono troppo facili per dare allo spettatore la possibilità di empatizzare con i buoni, sminuendo il climax emotivo. Trucco ed effetti speciali strabilianti premiati in svariati festival internazionali.
Per motivi poco chiari i morti insepolti tornano in vita con impulsi cannibaleschi. Ogni persona ammazzata si trasforma in uno di loro. Sette persone cercano di resistere, barricandosi in una casa abbandonata. È il cult movie di basso costo che segnò una svolta nel cinema dell’orrore, portato da Romero fuori dagli studios , dalle convenzioni, dal ghetto. È un film pessimista che visualizza la fine del mito americano: è un nero a gestire la resistenza degli assediati dagli zombi, protagonista impensabile nel 1968 in un sistema di cinema commerciale, cioè consensuale. Ebbe seguiti, remake e innumerevoli imitazioni. Costato poco più di 100 000 dollari, ne incassò più di 5 milioni. Esiste una versione colorizzata. Nel 1998 fu rieditato con 13 minuti in più, tutti tagliati dal regista nel 1968. Operazione di marketing, non restauro con il Director’s Cut .
Minacciato da uno sceneggiatore, rampante produttore esecutivo (Robbins) di Hollywood lo uccide accidentalmente. . Titolo italiano deviante per uno dei più intelligenti, perfidi e divertenti film hollywoodiani degli anni ’90. È un falso giallo e una vera commedia. Tratto da un romanzo (1988) di Michael Tolkin e da lui stesso sceneggiato, è una satira iconoclasta di Hollywood, e la sua celebrazione: il vecchio R. Altman vi condensa il suo impietoso ma sorridente giudizio sulla “fabbrica dei sogni”, diretta da persone che, incapaci di sognare, hanno soltanto incubi di carriera. È anche un film sugli anni ’80, anni sotto il segno dell’avidità di denaro e di successo, della stupidità arrogante o dell’incompetenza al potere, dell’edonismo più becero. Vi compaiono velocemente una settantina di attori più o meno famosi nella parte di sé stessi. Il grande giocatore (player) di questo film è lui, Robert Altman, classe 1925. Nemmeno un Oscar, ovviamente. 12 premi tra New York, Londra, Cannes.
Boris Yelnikoff, un tempo fisico di fama mondiale ed ora uomo anziano che ha già fallito un tentato suicidio (in seguito al quale la moglie lo ha lasciato), è in lotta con il mondo. Non c’è nulla che consideri positivo e anche le lezioni di scacchi che impartisce a giovani allievi divengono un’occasione di scontro. Finché, un giorno, non incappa in Melody, una giovane miss di provincia che è fuggita nella Grande Mela e dorme in strada. Il burbero Boris cede alle sue richieste e acconsente ad ospitarla per una notte che si trasformerà in mesi sino a divenire un matrimonio. Ma non tutto potrà proseguire pacificamente perché Marietta, la frustrata madre di Melody, riesce a rintracciare la figlia. E non è per nulla contenta di quelle nozze.
Un gruppo di lavoratori dello spettacolo, capitanatati da Sabina Guzzanti, decide di mettere in scena le vicende controverse relative alla cosiddetta “trattativa”, quella che sarebbe intercorsa tra Stato e mafia all’indomani della tragica stagione delle bombe (Roma, Milano, Firenze). In un teatro di posa, dunque, un gruppo di attori ricostruisce, nei modi di una “fiction giornalistica”, i passaggi fondamentali di una vicenda complessa e piena di omissis che inizia dall’uccisione di Falcone e Borsellino fino ad arrivare al processo che vede sul banco degli imputati, fianco a fianco, politici e mafiosi. Vent’anni di storia italiana: l’uccisione di Salvo Lima, il maxi processo, la strage di Capaci, l’uccisione di Borsellino, le bombe a Roma, Firenze, Milano, la fallita strage allo Stadio Olimpico… con i suoi discussi protagonisti: Riina, Provenzano, Ciancimino padre e figlio, Caselli, i capi del Ros Mori e Subrani, Napolitano, Mancino, Scalfaro, i pentiti, Gaspare Spatuzza, Mutolo, Dell’Utri, Mangano… e Berlusconi, ovviamente, quello vero e quello fatto dalla Guzzanti. La trattativa, presentato Fuori Concorso alla Mostra di Venezia 2014, è un progetto al quale Sabina Guzzanti ha lavorato per molto tempo e che le ha richiesto, immaginiamo, una grandissima mole di lavoro. Oltre alle ricerche e alla raccolta dei tantissimi materiali e fonti, la parte più complicata ha coinciso con la “forma” della messa in scena, ovvero quale dispositivo utilizzare per raccontare questa vicenda. Molte potevano essere le alternative, e ognuna portatrice di conseguenze. La Guzzanti sceglie di dichiarare il meccanismo, si auto-denuncia, dice sin da subito che quella che si sta per vedere è una rappresentazione realizzata da dei lavoratori dello spettacolo, quindi svela gli “autori” (non giornalisti, non documentaristi, non magistrati, non storici) e il linguaggio utilizzato. Quel che si vedrà, tra materiali di repertorio, interviste realizzate ad hoc, docu-fiction, pannelli grafici e quant’altro, è il frutto di una ricostruzione siffatta, accurata ma anche “inventata”, eppure assunta come vera. L’aspetto più problematico di un’operazione come questa riguarda proprio la forma della messa in scena, in riferimento alla materia trattata, perché lì risiede la sua ambiguità. È finzione (spettacolo?), eppure si dice come sono andate le cose. In questo mischiare repertori e ricostruzioni, intercettazioni e deposizioni, interviste e cabaret, è difficile sapere chi dice cosa, se un dialogo è inventato o il resoconto di un fatto realmente avvenuto, se un passaggio è frutto di una deduzione giornalistica o probatoria, se il tic di un personaggio è una caricatura oppure una imitazione. E questo “dubbio”, in alcuni casi facilmente risolvibile in altri meno, sposta il film verso lidi remoti, para-televisivi, da cabaret di denuncia, facendo saltare l’impianto documentale e documentario a favore dello spettacolo della dietrologia in un girotondo che fa girare la testa. Questa confusione richiede l’accettazione aprioristica della “bontà” degli autori, da una parte, e anche la comprensione profonda della parzialità della ricostruzione. Sembrerebbe ovvio, ma non è proprio così, per quel tanto di intenzione didattica e didascalica espressa sin dalle prime battute del film, subito dopo la boutade di Gaspare Mutolo alla prova d’esami di teologia, conversione carceraria e mai tardiva. All’inizio la Guzzanti con sguardo aperto e chiaro, rivolgendosi allo spettatore, ci dice in che cosa è consistita la trattativa. Non ha dubbi sul fatto che sia esistita o meno, altrimenti non avrebbe fatto il film, e porta una serie consistente di deduzioni, ma la verità è nelle sue mani e non si fa problemi a mischiare questo e quello, finzione e realtà, sudore e cerone, imitazione e ritratto, testimoni e attori, libretti rossi con libretti rossi… Alla fine, ci chiediamo, che cosa è questo film? È un film di denuncia? Un film a tesi? Una docu-fiction? Un articolo di Travaglio? Uno spettacolo teatrale? Una puntata estesa di Santoro? Una serata speciale di Fazio curata dalla Dandini? È cinema? È televisione? Oppure una web-serie a puntate? Troppe domande, poche risposte. Allora eccone alcune. È utile? Dipende. È bello? Non proprio. È appassionante? A tratti. Se ne esce arricchiti o frastornati? Più la seconda. Si ride? C’è poco da ridere. Vuol far ridere? Un po’ sì. È ammiccante? Certo. Parla al suo uditorio? Senza dubbio. Convincerà chi la pensa diversamente? Non tanto. Fa domande o dà risposte? È un prontuario di risposte. Avrà successo in sala? C’è da sperarlo. Perché? Perché è meglio parlare di queste cose che non. È ritmato? Si. Annoia? No. Indigna? Solo chi non s’è fatto un’idea prima. Tira colpi bassi? Domanda inutile. C’entra qualcosa con Belluscone – Una storia siciliana, il film di Maresco? Niente: quello di Maresco è cinema e parla degli italiani, questo della Guzzanti è una docu-tv-fiction e parla agli italiani. Quello di Maresco è un urlo di dolore, quello della Guzzanti è semmai un urlo di terrore, bloccato in un ghigno.
Spagna, una città del nord che deve fronteggiare i problemi della crisi industriale. Santa, Josè, Lino, Reina, Amador, Serguei: amici da sempre, che dopo aver perso il lavoro ai cantieri navali, consumano i giorni tra bevute al bar, discorsi filosofici, e improbabili ricerche di nuove occupazioni. Fra le malinconie di un futuro difficile e le gioie momentanee che scrosciano all’improvviso. Sempre pronti a non dimenticare l’unico bene prezioso che è rimasto loro: la dignità. Investito da un diluvio di Premi Goya (l’equivalente spagnolo dei nostri David), il film è una godibile commedia che si avvale di una scrittura sapiente e, soprattutto, di una recitazione magistrale di tutti gli attori, in special modo di Bardem, giunto ormai ad una fantastica maturità espressiva. Posizionandosi fra il Loach meno manicheo (quello di Piovono pietre e Riff raff, per intenderci) ed il Kaurismaki più solare, de Aranoa confeziona un piccolo capolavoro: commuove senza indisporre, fa riflettere senza essere saccente, e talora trova anche il tempo di farci divertire.
Una didascalia spiega che “topo” in spagnolo significa talpa, un animale che scava le sue gallerie nel buio e “quando arriva alla luce diventa cieco”. In questo caso l’uomo destinato a diventare cieco è una specie di eroe western che deve liberare un villaggio da quattro “maestri della pistola”.
Romain è un giovane fotografo di moda a cui viene diagnosticato un cancro all’ultimo stadio. Alla (chemio-)terapia preferisce il decorso ineluttabile della malattia. Lascia la professione, il proprio compagno e gli affetti familiari per ritirarsi in solitudine nel suo appartamento parigino. Il ripiegamento affettivo è interrotto soltanto dalla visita all’anziana nonna e dall’incontro casuale con una coppia sterile a cui fa dono di un figlio. Davanti al mare si congeda dal mondo. Con un meccanismo a ritroso già applicato da Ozon in Cinqueperdue, per riferire la fine di una storia d’amore, ne Il tempo che resta è la vita di un uomo a procedere all’indietro fino all’infanzia, fino al punto zero in cui vita e morte coincidono e si annullano. Questa volta è la fine di una vita a venire esibita con un sapiente equilibrio dal regista francese. Il suo cinema, coerente alla sua poetica mortifera, non cede a soluzioni ricattatorie da consunzione melò, né tantomeno degenera in una indifferente insensibilità. La morte prossima di Romain è un fatto privato che si traduce in gesti carichi di emotività, perché sono gli ultimi e perché guariscono l’anaffettività del personaggio: la carezza al padre, l’abbandono sul petto della nonna, le foto scattate di nascosto alla sorella. Il volto di Romain, interpretato da un impenetrabile e patito Melvil Poupaud, “il ragazzo delle tre ragazze” di Eric Rohmer, ribadisce la frontalità del cinema di Ozon. Un attacco diretto che in Le temps qui reste si fa addirittura letterale: i primi piani dominano sui totali fino all’ultima sequenza dove è sempre il mare a “rubare” la vita, quella di Romain come quella del marito di Charlotte Rampling in Sotto la sabbia. Su un campo lungo finale e sostenuto si spegne il sole, in primissimo piano la vita.
Santiago del Cile, 1973. Mario Corneo lavora come funzionario presso l’obitorio. Trascrive a macchina le autopsie. Si innamora di una ballerina di cabaret, Nancy, sua vicina di casa. Ma sono i giorni del colpo di stato, l’obitorio si riempie di cadaveri, della casa e della famiglia di Nancy non rimangono tracce. La ragazza si nasconde nel cortile della casa di Mario, che le porta il cibo e le sigarette. Intanto, all’obitorio, i morti riempiono le sale, i corridoi, le scalinate dell’ospedale. Il cileno Pablo Larrain dà nuovamente prova, dopo Tony Manero, di una capacità di racconto ammirabile, perché inedita ed efficace. Il protagonista è ancora Alfredo Castro, figura ambigua, tra obbedienza e umanità (rispetto alla tragedia in atto), sentimento e istinto (nel rapporto con Nancy, e fino all’epilogo), mondo dei vivi e terra dei morti. Un essere che appartiene da subito all’universo del Post Mortem che dà al film il titolo e diversi significati. La sua esistenza squallida, priva di qualsivoglia slancio vitale, si movimenta un giorno al contatto con la morte, scuotendo improvvisamente anche il film intero e ridisegnandone le coordinate.
Si comincia con un feroce assedio della Casa dei 1000 corpi , di cui il 2° film di R. Zombie, anche sceneggiatore, è il seguito solo in un certo senso. Catturata la tremenda matriarca, tre componenti della demente famiglia Firefly (lucciola, i nomi sono presi dai personaggi dei fratelli Marx) fuggono in auto dall’Alabama verso il Texas. Li insegue uno sceriffo che in materia di violenza li vale. Da anni l’horror hollywoodiano vive di rendita sul passato e di imitazione degli asiatici. Quello di Zombie, cinefilo di talento che sa copiare bene, è un film di terrore più che di orrore. Non è solo sadico, ma sadiano. Superiore al 1°, è un film d’autore anche a livello stilistico: montaggio originale, uso del fermo-immagine, scelta delle facce, vena ironico-grottesca, tocchi di macabro gotico fantastico, uso del materiale plastico e soprattutto la capacità, come il finale rivela, di dare una dimensione epica alla violenza. In inglese, “devil” contiene “evil”, il male. Anche nel toccare il fondo della malvagità umana, è un film laico.
I Goonies, scatenato gruppo di ragazzini abitanti nel quartiere di Goon Docks, devono dare l’addio alle case dove sono nati e cresciuti: i signorini del club del golf hanno dato lo sfratto alle loro famiglie per radere al suolo il quartiere e costruire nuovi, esclusivi, campi da gioco. Poco prima di andarsene, uno dei Goonies scopre in soffitta una vecchia mappa del tesoro, scritta da un pirata spagnolo del ‘600. Mettendo le mani sul bottino dell’antico corsaro, i ragazzini potrebbero salvare le loro case.
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