Un classico di Kurosawa, una metafora che parte da un caso individuale e suggerisce il malessere del Giappone del dopoguerra. Un anziano impiegato scopre che ha un cancro e solo un anno da vivere. Cerca di dare un significato ai giorni che gli rimangono e, non trovando un conforto in famiglia, s’affeziona a un gruppo di madri che cercano un’area per far giocare i loro bambini. Termina la vita dell’uomo, ma con la gioia di vedere cominciare quella degli altri.
Kyoto, periodo Heian. Un boscaiolo, un monaco e un vagabondo si interrogano su una vicenda, l’assassinio di un samurai e lo stupro di sua moglie per mano del bandito Tajômaru, che li ha coinvolti come testimoni. Mentre si susseguono le dichiarazioni dei protagonisti davanti a un tribunale sulla loro versione dei fatti, la verità anziché emergere sembra vieppiù allontanarsi.
Tratto dal romanzo di Robert Musil (1880-1942), Il film effettua una minuziosa registrazione dei rituali sadici che scandiscono la convivenza fra studenti, dei meccanismi di sopraffazione e del disprezzo per la libertà dell’individuo, che automaticamente dividono il mondo adolescenziale in carnefici e vittime, legati tra loro da morbose e torbide passioni.. Attraverso il paradigma del collegio, il regista tedesco vuol guardare al baratro nel quale erano sprofondati i popoli di lingua tedesca sotto il nazismo.
Totale … è l’adesione di Sjöström al mondo di Körkarlen. Il determinismo etico della Lagerlöf trova risonanze profonde nello spirito del cantore di Terje Vigen. L’armamentario del racconto è noto: la cornice cimiteriale, l’alcoolismo e l’Esercito della Salvezza, la leggenda macabro-istruttiva del Carrettiere della morte, le virtù redentrici dell’amore. In tutto questo, Sjöström individua lucidamente i lineamenti di una superiore retorica e, insieme, le ragioni contingenti di una “nordicità” sostanziale. Dopo gli approcci visionari di Holger-Madsen, è il primo appuntamento del cinema scandinavo col grande tema libertà-peccato. Tema, la cui inanità non ha bisogno di dimostrazione.
Lena Nyman, la protagonista, intervista personalità quali Gustavo di Svezia o Martin Luther King e gente della strada per cogliere i diversi aspetti della società presente e futura e ironizzare sulle contraddizioni della socialdemocrazia, sulla presunta libertà di cui godiamo, sul Terzo Mondo, sui costumi sessuali del suo paese. Tra una considerazione e l’altra, Lena, che si prepara a girare un film, proprio in base a queste interviste, si innamora di un uomo che ha già una compagna e una figlia, lo abbandona e lo riprende.
Spagna 1944. L’esercito franchista sta piegando le ultime frange di resistenza alla “normalizzazione” del paese, ormai quasi totalmente sotto il controllo di Franco. Carmen, una giovane vedova, ha sposato Vidal, un capitano dell’esercito, e lo raggiunge assieme alla figlia dodicenne Ofelia. La bambina soffre per la presenza dell’arrogante patrigno e cerca di aiutare la madre che sta affrontando una gravidanza difficile. Il suo rifugio è costituito dal mondo delle fiabe che si materializza con la presenza di un fauno che le rivela la sua vera identità. Lei è la principessa di un regno sotterraneo. Per raggiungerlo dovrà superare tre prove pericolose. Guillermo Del Toro lavora ormai stabilmente su due fronti. Su quello hollywoodiano (vedi Blade 2) prova a ‘inserire caviale negli hamburger’, come ama dire. Si permette di rinunciare alla chiamata per Harry Potter e il prigioniero di Azkaban per completare il progetto di Hellboy e poi torna ai suoi amati racconti che rileggono la realtà storica in chiave fantasy-horror. Il franchismo in modo particolare lo appassiona in quanto messicano cresciuto sotto il tallone di una nonna ultraconservatrice in materia religiosa. Senza i mezzi delle megaproduzioni statunitensi ma con un’ accuratezza e sensibilità che spesso a quelle dimensioni produttive finiscono con lo sfuggire, Del Toro ci parla di soprusi e di innocenza, di ricerca di un mondo ‘altro’ in cui trovare la pace senza però rinunciare alla propria integrità di essere umano in formazione. Un film per giovani-adulti e per adulti-giovani il suo, meno facile da ‘vendere’ a un pubblico ben definito ma, anche per questo, più interessante.
Un ignoto maniaco, che violenta e uccide bambine, semina la paura a Düsseldorf. La polizia ordina retate nell’ambiente della malavita i cui capi, danneggiati negli affari, decidono di reagire organizzando una caccia all’uomo con i mendicanti della città. Catturato, il maniaco viene processato. Lo salva dall’esecuzione la polizia che intanto l’aveva identificato. 1° film sonoro di Lang che ne scrisse la sceneggiatura con la moglie Thea von Harbou ispirandosi a un fatto di cronaca. Esordio di Lorre (vero nome: Laszlo Löwenstein, di origine ungherese), probabilmente nel primo personaggio di deviante sessuale nella storia del cinema. Su una tematica che gli è cara (opposizione tra giustizia ufficiale e giustizia privata, senso della colpevolezza universale), Lang fa un film di taglio realistico che nell’uso della luce (fotografia di F.A. Wagner) non trascura le esperienze espressionistiche, calibrando suspense, cadenze del poliziesco, dramma sociale. Il “tema dell’assassino” (fischiettato dallo stesso Lang) è tratto dal Peer Gynt di E. Grieg; l’idea del tribunale dei criminali deve qualcosa al Brecht di L’opera da tre soldi . Un classico. Rifatto nel 1951 da J. Losey.
Double Suicide (心中天網島, Shinjū Ten no Amijima ) è un film del 1969 diretto da Masahiro Shinoda . È basato sull’opera teatrale del 1721 The Love Suicides at Amijima di Monzaemon Chikamatsu . [1] [2] [3] Questo gioco è spesso eseguito con marionette . Nel film, la storia è rappresentata con attori dal vivo ma fa uso di tradizioni teatrali giapponesi come il kuroko(macchinisti vestiti interamente di nero) che interagiscono invisibilmente con gli attori, e la scenografia non è realistica. Il kuroko si prepara per una presentazione moderna di uno spettacolo di marionette mentre una voce fuori campo, presumibilmente il regista, chiama al telefono per trovare un luogo per la penultima scena del suicidio degli innamorati. Ben presto, attori umani sostituiscono i burattini e l’azione procede in modo naturalistico, finché di tanto in tanto intervengono i kuroko per compiere cambi di scena o aumentare l’intensità drammatica della determinazione dei due amanti di essere uniti nella morte.
Le scenografie stilizzate, i costumi d’epoca e gli oggetti di scena trasmettono contemporaneamente una teatralità classica e una modernità contemporanea. L’interesse amoroso fatale di Jihei, Koharu la prostituta, e la moglie trascurata, Osan, sono entrambi interpretati dall’attrice Shima Iwashita . [4]
Nell’autunno del 1945 un giovane americano, di nascita tedesca e di buona volontà, ritorna nella patria in rovina, trova un posto come conduttore di vagoni-letto e, grazie a un coinvolgimento amoroso, si fa incastrare da un gruppo terroristico di Lupi Mannari, irriducibili nazisti non rassegnati alla sconfitta. Cocktail di thriller e melodramma con una componente umoristica. Più che la storia, artificiosa e quasi banale, e più che i personaggi, conta l’apparato tecnico-formalistico: colore contrapposto al bianconero, sovrimpressioni, obiettivi deformanti, cinepresa dinamica, scenografie di taglio espressionistico. Antitedesco nella sostanza, è profondamente tedesco nella forma.
Mamma Roma, prostituta, decide di diventare una rispettabile piccolo borghese. Con il figlio Ettore va ad abitare in un appartamento della periferia romana. Saputa la verità su di lei, il ragazzo delinque, è arrestato e muore in carcere per i maltrattamenti subiti, invocando Guidonia, il paese dov’è cresciuto, ma anche metafora della Madre e del grembo materno. 2° film di Pasolini dopo Accattone, fondato sulle figure retoriche dell’ossimoro e della sineciosi (in cui s’affermano, di uno stesso oggetto, due contrari); che all’uomo dà una vera grandezza. Bianconero: Tonino Delli Colli (con echi di Caravaggio). Musica: Concerto in Do Maggiore di A. Vivaldi.
Con un passato familiare (sette sorelle!) che non passa, il goffo Barry coabita nella San Fernando Valley (California) con una pacata nevrosi che ogni tanto scarica in solitarie esplosioni di violenza. Nell’amore per l’inglesina Lena trova la forza di uscire dalla sua autistica apatia per affrontare dei ricattatori. E la vita. Dopo l’ambizioso, magnificato e sopravvalutato Magnolia P.T. Anderson abbassa la mira sul registro leggero con una commedia “sbilanciata, asimmetrica, deliberatamente obliqua rispetto ai canoni del genere” (P. Cherchi Usai). L’asimmetria non sta nel plot lineare e prevedibile come sono le favole d’amore, ma nel grottesco stralunato della prima mezz’ora e negli incidenti di percorso. Il sospetto di un esercizio di bravura fine a sé stesso è fondato, ma si deve ammirarne il brio intelligente, anche nella direzione della recitazione: riuscire a rendere buffo e godibile Sandler, divo TV espressivo come un paracarro, non è impresa da poco.
Morta la moglie, il pastore protestante di uno sperduto villaggio della Dalecalia, all’estremo Nord della Svezia, ha perso la fede. Respinge le profferte d’amore di una donna atea, non sa consolare un parrocchiano nevrotico che s’ucciderà, né sua moglie. Un altro rigoroso, impietoso dramma da camera, chiuso tra una chiesa e poche case di un villaggio, quasi privo, tolta la scena del passaggio a livello, di momenti “fortissimi”, ma sotto la sua semplicità c’è una complessità non facile da cogliere. La critica ne fa una trilogia con Come in uno specchio (1960) e Il silenzio (1962): è il migliore dei 3. “Dà soddisfazione rivederlo dopo un quarto di secolo. Constato che nulla si è corrotto o si è rotto” (I. Bergman). Il titolo originale significa “i comunicandi”.
Dopo la morte della loro figliolina, John Baxter e sua moglie Laura soggiornano a Venezia dove lui deve restaurare una chiesa. Lei incontra due sorelle di mezz’età (molto hitchcockiane…). Una delle due, veggente cieca, le dice che la loro figlia è felice dov’è, ma avvisa il marito su un grave pericolo incombente. Da una racconto della prolifica Daphne Du Maurier, sceneggiato da Allan Scott e Chris Bryant, Roeg ha tratto un dramma d’atmosfera (fotografia: Anthony Richmond) e di suspense stilisticamente (anche troppo) raffinato, con andirivieni tra passato, presente e futuro, poco rispettoso della logica narrativa, ma coinvolgente, soprattutto in due scene: l’erotico amplesso tra i due coniugi e l’onirico finale notturno in cui Sutherland rincorre lungo i canali una figuretta di rosso vestita che potrebbe essere il fantasma della sua bambina. Esordio di Pino Donaggio come cinecompositore.
Harry Powell, pastore protestante, uccide alcune vedove per denaro. Uccide anche Willa Harper, ma i suoi due figlioletti gli danno filo da torcere. Riescono a fuggire da lui allontanandosi sul fiume con una barca. In loro soccorso giunge una cara vecchietta, Rachel, che dà rifugio ai bambini abbandonati. Grande fiaba orrorifica, più per atmosfera che per scene violente, resa convincente da una regia secca e originale. Harry come orco, Rachel come fata e i due fratelli come Hansel e Gretel. La fotografia in bianco e nero di Stanley Cortez è una festa per gli occhi. Le inquadrature grazie alle luci maniacalmente posizionate sono una rilettura dell’espressionismo. Stupenda la sequenza in cui il vecchio scopre il cadavere di Willa, interpretata volutamente sopra le righe da Shelley Winters. La donna è legata alla guida dell’auto sul fondo del fiume e i suoi capelli lunghi si confondono con le alghe. Prima e unica regia dell’attore Charles Laughton che, con grande misoginia, mostra quasi tutte le figure femminili come ingenue e stupide. Si salva solo Rachel, interpretata da una grande Lillian Gish. Atto d’accusa contro il fanatismo nella religione cristiana e i falsi profeti, con riferimento al sud degli Stati Uniti. Forse la più grande e sfaccettata interpretazione di Mitchum, che sette anni dopo, ne Il promontorio della paura, si calerà in un personaggio molto simile. Tratto dal romanzo di Davis Grubb e girato in poco più di un mese. Laughton, a causa dell’insuccesso commerciale, non poté realizzare la sua trasposizione de Il nudo e il morto di Mailer. Oggetto di culto di molti cinefili è citato apertamente da Neil Jordan nel suo In compagnia dei lupi
Dal romanzo (1890) di É. Zola. Il macchinista delle ferrovie Lantier, vittima di una pesante ereditarietà etilica, diventa l’amante di Sévérine che vorrebbe indurlo a uccidere il marito, autore impunito di un omicidio per gelosia, ma, in un accesso della malattia, Lantier la strangola e si dà la morte gettandosi dal treno. La dolorosa consapevolezza del proprio destino segna l’interpretazione che dell’onesto Lantier dà Gabin, qui esplicitamente legata all’inevitabilità fisiologica del delitto e della morte. Il determinismo positivista di Zola è la riprova del profondo romanticismo che contraddistingue il romanzo e il film che pure Renoir fa sfociare in un sobrio lirismo tragico. Celeberrima la sequenza ferroviaria d’apertura, capolavoro di montaggio, ma sono diverse le scene memorabili, messe in risalto dall’affascinante bianconero di Curt Courant. Dallo stesso romanzo fu tratto La bestia umana di Fritz Lang.
La famiglia Lisbon, composta dai genitori e da cinque ragazze fra i 13 e i 17 anni, vive in una cittadina dell’Oregon. Le cinque sorelle sono tutte molte belle e affascinanti ed esercitano sui ragazzi del vicinato un fascino irresistibile. Tutto cambia quando la più giovane, Cecilia, si suicida buttandosi dalla finestra.
Regista alla ricerca di un personaggio femminile e di una storia ha due rapporti successivi con due giovani donne, l’aristocratica Mavi e la borghese Ida. Ne esce due volte sconfitto. Più che crisi esistenziale, si hanno qui conflitti di sentimenti che hanno radici concrete: differenze di età, di classe, di educazione. È il più concreto film di Antonioni, quello in cui c’è maggiore spazio alle emozioni, al comportamento, alla fisicità. Il più parlato anche (Gérard Brach in sceneggiatura con l’apporto di Tonino Guerra), il più ironico e il più sereno anche se di una contristata serenità, puntato sui personaggi più che sul loro rapporto con l’ambiente e il paesaggio.
Da un romanzo di Christianne Brand. Durante la seconda guerra mondiale, nel pronto soccorso britannico di una zona rurale, un assassino colpisce più volte. Entra in azione un saggio e implacabile ispettore di Scotland Yard. Un intrigo di tipo classico con una cornice insolita. Alcune belle sequenze impressioniste, condimento di intelligente umorismo.
Incoronato zar nel 1547, Ivan (1530-84) promette di unire tutta la Russia, entra in conflitto con i boiardi di cui vuole limitare il potere e con la zia che avvelena la zarina. Ivan si ritira in convento. Presentato alla fine del 1944, è la prima parte di Ivan Groznyi la cui seconda parte, nota col titolo La congiura dei boiardi, fu terminata nel febbraio 1946 e condannata nello stesso anno dal Comitato centrale del Partito Comunista dell’URSS e distribuita in pubblico solo nel settembre 1958. Tornato a Mosca, Ivan entra in conflitto con l’amico Fëdor Kolitchev, diventato pope metropolita col nome di Filippo e schierato con i boiardi. Euphrosinia, zia di Ivan e madre dell’inetto Vladimir, che i boiardi vorrebbero come zar, prepara un attentato, ma Ivan sostituisce a sé stesso il giovane che così viene ucciso da un sicario inviato da sua madre. Nella 2ª parte, inseparabile dalla 1ª, Ejzenštejn inserì una lunga sequenza a colori (in Agfacolor, bottino di guerra). La 3ª parte non fu mai girata: doveva raccontare la vittoria finale di Ivan, ormai diventato il Terribile. Nella cineteca di Mosca erano conservate 2 sequenze inedite (20 minuti circa), una delle quali (L’infanzia di Ivan) doveva servire di prologo alla 1ª parte. Può essere letto a diversi livelli: storico, politico, psicologico, estetico, allegorico. Ivan è Ivan. È Stalin. È un re di Shakespeare. È un eroe di opera wagneriana. È la rievocazione _ spesso in bilico sul ridicolo perché la sua natura è sublime _ di una situazione storica che rimanda a quella del presente, elevata ad archetipo eterno. Integralmente e genialmente staliniano, terribilmente reazionario e, insieme, autenticamente rivoluzionario. Fotografia di Edvard Tissé (esterni) e Andrej Moskvin (interni). Musica di Sergej Prokof’ev.
Un reporter scopre che un rappresentante del movimento pacifista inglese non è morto assassinato come qualcuno tenta di far credere, ma è prigioniero di una nazione che vuole carpigli preziosi segreti. Il capo dei rapitori è un importante personaggio britannico, della cui figlia il nostro eroe è innamorato. Allo scoppio della guerra, il traditore muore durante un incendio aereo che coinvolge anche la figlia e il giornalista. I due giovani, però, si salvano.