In viaggio da Amsterdam a Flessinga, nell’Olanda meridionale, tra incubi premonitori e fantasticherie aggressive a occhi aperti, uno scrittore gay, cattolico e alcolista incontra una rapace estetista che se lo porta a letto (ha già fatto morire tre amanti, lui potrebbe essere il quarto) e un muscoloso idraulico di cui s’invaghisce. Miscela di sesso e religione, affollato catalogo di citazioni funerarie e surrealistiche, truculenti slanci erotici, invenzioni oniriche, il film – tratto da un romanzo di Gerard Reve – è diretto da un regista che, pur con esiti assai diseguali, è coerente nel suo aggressivo pessimismo sulla natura umana e sulla sua animalesca e ineliminabile bassezza, nella sua concezione del corpo come ammasso di rifiuti e di secrezioni. Scritto da Gerard Speteman. La sgargiante fotografia è di Jan de Bont, futuro regista di Speed . Premiato in vari festival (Avoriaz, Oxford, Sorrento). Edizione italiana tagliata per 6 minuti.
La prima volta che Borgman si presenta alla porta di Richard e Marina, ha l’aspetto di un barbone sporco e malandato, appena fuggito dal suo rifugio sotterraneo nel bosco. Chiede di fare un bagno, sostenendo di conoscere la donna, e il marito, geloso, lo prende a calci e pugni. La seconda volta, Borgman fa un ingresso diverso: Marina, pentita, l’ha curato di nascosto ed è finita sotto la sua influenza. Al posto del giardiniere, che ha prontamente eliminato, Borgman e i suoi sodali entrano dalla porta principale nella vita dei due coniugi olandesi, dei loro tre figli e della ragazzina danese au pair. / Il regista di The last days of Emma Blank torna sul luogo del delitto, quell’apparente oasi di rispettabilità rappresentata dalla famiglia benestante e dai suoi possedimenti, per ambientarvi un’altra commedia sui generis, questa volta meno surreale e più nera.
In un futuro mondo concentrazionario, dove è d’obbligo vivere in coppia, David è internato in un albergo-carcere con riti da villaggio turistico, dove ha 45 giorni per trovare una partner ed evitare così di essere trasformato in animale. Fugge nel bosco e si unisce ai Solitari, ribelli al regime dell’accoppiamento coatto, tra i quali però è proibito l’amore. Al suo 4° film, Lanthimos conferma il suo cinema dell’assurdo, basato su casi-limite tra il grottesco e il surreale, con una science fiction in chiave di commedia drammatica, che si aggira dalle parti di 1984 di Orwell e di Fahrenheit 451 (1966) di Truffaut. Dopo un avvio brillante, che è anche una gustosa satira della subcultura di massa contemporanea, il ritmo cala un po’ per poi recuperare con un finale shocking. Morale: per amarsi bisogna essere uguali e quindi amputare le proprie diversità. Cosceneggiato dal regista con Efthymis Filippou. Premio della giuria a Cannes 2015.
Verhoeven ha sempre cercato, un po’ come David Lean, di abbinare arte e commercio, cinema di impegno e grande spettacolo. Dopo tanti successi a Hollywood è rimpatriato per un film, a lungo covato, che rievoca i tragici ultimi mesi dell’occupazione nazista in Olanda, mettendoli a confronto con lo sterminio degli ebrei e la resistenza antitedesca e raccontandoli anche nelle loro ombre. Nel seguire le peripezie di una bella soubrette ebrea che si infiltra come spia tra gli occupanti, il regista e il suo sceneggiatore Gerard Soeteman hanno scelto di costruire la loro storia all’insegna del travestimento, della menzogna e dell’ambiguità senza riguardi per nessuno, nemmeno per i loro personaggi olandesi, ebrei, nazisti: nessuno è del tutto innocente né del tutto colpevole. Rifacendosi al libro Grijis Verleden ( Passato grigio , 2001) di Chris van der Heyden, c’è tutto in questo thriller d’azione: bombardamenti aerei, rastrellamenti, esecuzioni a morte, torture, agguati, scambi d’identità, amori tra le due parti, gerarchi delle SS arruolati dagli Alleati in nome della futura guerra antibolscevica. Il collaborazionismo delle popolazioni con gli occupanti tedeschi è un fatto storico da studiare, non un problema da risolvere. A guerra finita, fu nascosto, rimosso, dimenticato. Non è il caso, dunque, di deprecare i contenuti, ma i modi espressivi.
Nel 1941, per evitare la deportazione, gli abitanti di uno shtetl (villaggio ebraico dell’Europa centrale) rumeno allestiscono un finto convoglio ferroviario sul quale alcuni di loro sono travestiti da soldati tedeschi e partono nel folle tentativo di raggiungere il confine con l’URSS e di lì proseguire per la Palestina, Eretz/Israel, la terra promessa. Ci riescono, dopo tragicomiche peripezie. 2° film del rumeno Mihaileanu, attivo in Francia, è una tragicommedia di viaggio sotto la triplice insegna dell’umorismo yiddish (condito di una grottesca ironia critica verso gli stessi ebrei, i tedeschi, i comunisti), di una sana energia narrativa e di un ritmo di trascinante allegria cui molto contribuisce Goran Bregovic, il compositore preferito di Kusturica, che attinge alla musica klezmer ebraica dell’Europa orientale. Fotografia del greco Yorgos Arvanitis, l’operatore di Anghelopulos e di Laurent Daillant. Colorita galleria cosmopolita di interpreti, dialoghi italiani di Moni Ovadia. Non manca una dimensione poetica, incarnata in Schlomo (Abelanski), lo scemo del viaggio che funge da narratore. L’inquadratura finale può essere la chiave di lettura a ritroso. Premio Fipresci a Venezia 1998, premio del pubblico al Sundance Festival, David di Donatello per il film straniero.
Ryuhei Sasaki è un tranquillo padre di famiglia finché non perde il posto di lavoro; la scelta di non rivelare nulla a moglie e figli lo porterà a conoscere un sottobosco crescente di disoccupati insospettabili, ma non lo aiuterà a tenere insieme i pezzi di una famiglia che si va sfaldando. La Crisi, così paventata, presagita, snobbata è qui tra noi. Dove “noi” non significa solo l’Occidente, ma pure il diametralmente opposto Giappone, ugualmente colpito al cuore. E non sarà un caso se sono saliti al governo i socialisti per la prima volta nella storia. Kurosawa Kiyoshi, con la sensibilità che lo contraddistingue – e che difficilmente pertiene a un regista puramente horror, come ancora qualcuno lo etichetta – parte dalla Crisi per mescolarla alle molteplici crisi che accompagnano l’uomo nel suo difficile cammino. Nel senso stretto ma pure in quello etimologico del termine, perché il mutamento radicale e sofferto, spesso spinto sino all’autolesionismo, è parte integrante di questo processo evolutivo. Che qui si abbatte sul nucleo famigliare con una violenza degna del Takashi Miike di Visitor Q, senza quel gusto pop di portare tutto all’estremo, ma senza tirarsi indietro di fronte agli esiti di una sostanziale discesa agli inferi. Ad essere messi in discussione sono i pilastri stessi della società: l’autorità – l’insegnante sbeffeggiato in classe, il pater familias a disagio per mantenere un ruolo di leadership sistematicamente messo in discussione – il vincolo nuziale, tenuto insieme solo da abitudine e necessità, ma pure la supremazia del lavoro serio rispetto all’insicurezza di professioni apparentemente più frivole, che vivono la propria rivincita grazie al talento del piccolo sognatore Kenji. Kurosawa osserva la famiglia con amore, forse, con comprensione, magari, ma con ben poca compassione, privilegiando la camera fissa per denudarne le fragilità: a volte il tavolo da pranzo, unica occasione di (finta) riconciliazione, è addirittura inquadrato dall’esterno, mediato da un vetro e da riflessi che dicono più di mille parole su quel che avverrà di lì a breve. Straordinaria la prova attoriale di Teruyuki Kagawa, calato perfettamente nel ruolo fantozziano del protagonista, incapace di liberarsi persino nel momento di massima ira, quando, seppur armato di bastone e con intento distruttivo, non rinuncia a sistemarsi goffamente il borsello, residuo di una divisa che per lungo tempo ha significato “classe media” e un determinato inquadramento sociale. Prima che lo tsunami della crisi rimettesse tutto in discussione, giocando con i destini di piccoli uomini indifesi come lui.
La vicenda si svolge nel presente in un piccolo centro olandese che ha conservato un’atmosfera tradizionale da anni ’50. Fred ha 54 anni e conduce un’esistenza grigia e abitudinaria. Un tipo solitario e rassegnato, dopo la morte della moglie, vittima di un incidente automobilistico, e la separazione dal figlio, trasferitosi altrove. Si attiene a consueti riti giornalieri: brevi gite in bus nella cittadina vicina per approvvigionamenti al supermarket, pulizia della casa, cene spartane, ogni sera alle 18 in punto, e presenza devota alla messa domenicale nella chiesa protestante. Un giorno si imbatte nel quarantenne Leo che gironzola tra le case del villaggio, comportandosi come un adolescente mansueto e ritardato. In effetti mormora poche parole e non si sa chi sia. Mosso da un sentimento di compassione, Fred lo accoglie in casa, ma lo obbliga a condividere la sua routine, educandolo come un padre esigente. Tra i due, poco a poco, nasce una sincera simpatia. Poi un giorno Leo, che adora le caprette e le pecore, si esibisce nella loro imitazione belante di fronte ad alcuni bambini. In breve la coppia viene ingaggiata come attrazione per feste di compleanno di ragazzini, ottiene successo ed è molto richiesta. Fred si diverte nel trascorrere il tempo con Teo, il cui comportamento imprevedibile e caotico gli ha ridato vitalità e buonumore. Quindi sfida la disapprovazione dei vicini e del pastore della chiesa che giudicano immorale la sua convivenza con Leo. Finché un giorno scopre che in realtà è sposato. Incontra la moglie dell’amico che gli racconta che Leo è regredito mentalmente all’infanzia in seguito ad un grave trauma accidentale e da allora le istituzioni a cui è stato affidato hanno fallito. Diederik Ebbinge ha scritto e realizzato un sorprendente film di esordio. In qualche modo ricalca lo humour raffinato di Bent Hamer, quantunque la sua rappresentazione di un individuo solitario intrappolato nella routine delle abitudini, ma pronto al contatto umano e a nuove esperienze, sia meno impassibile e più briosa rispetto ai toni del geniale regista norvegese contemporaneo. E ancora, il suo stile, che descrive situazioni assurde, ricorda quello del connazionale Alex van Warmerdam, ma senza la predominante componente dark di quest’ultimo. Da un lato dimostra notevoli qualità narrative, con un sapiente inquadramento minimalista dei suoi due “eroi” poco convenzionali (che sembrano personaggi di Jaques Tati o di Aki Kaurismäki) e della morale calvinista degli abitanti del villaggio. Dall’altro costruisce un intreccio con perfetti timing comici e toccanti svolte drammatiche e sviluppa efficacemente l’itinerario di liberazione e di superamento di complessi, paure e traumi del passato da parte di Fred. Ha dichiarato di aver concepito il film per sfruttare le doti interpretative della coppia di carismatici attori protagonisti, René van t’Hoff e Ton Kas, ben noti in Olanda per le loro performances teatrali. Da segnalare anche la brillante ambientazione del film e la scenografia, ricca di particolari retro esilaranti, curata da Elza Kroonenberg.
Inghilterra, oggi. Durante un blitz un gruppo di animalisti irrompe in un laboratorio dove alcuni scimpanzè vengono sottoposti alla visione forzata di immagini violente. Il ricercatore che studia le cavie avverte gli attivisti che gli animali sono affetti da un virus sconosciuto e pericoloso. Malgrado ciò, i membri del commando decidono di liberare gli animali, da cui vengono immediatamente attaccati. 28 giorni dopo, Jim si risveglia in una Londra deserta e spettrale. La città sembra deserta e Jim vaga alla ricerca di esseri umani. E’ solo l’inizio di un’avventura dai risvolti terrificanti, dove l’uomo civilizzato si conferma come la belva peggiore… Dopo un paio di film sbagliati, Danny “Trainspotting” Boyle torna a far centro, con un horror a basso costo e girato in digitale che dà punti a molte produzioni miliardarie. Tutto già visto, intendiamoci, con profluvi di citazioni (da Romero alla serie Tv “i Sopravvissuti”) a volte decisamente perdenti rispetto agli originali. Ma almeno c’è un bel senso del ritmo, interpreti funzionali alla narrazione, qualche azzeccata soluzione di montaggio e una notevole colonna sonora. E qualche brivido è assicurato. Piacevole.
Una commedia estremamente strana che ruota attorno alla vita di un trentunenne di nome Abel, che non ha mai lasciato la sua casa (letteralmente). Dopo aver fallito con medici e psichiatri, il padre di Abel, Victor porta a casa Christine, un’amica, nel tentativo di insegnare le competenze sociali di base ad Abel. Ma Duif moglie di Victor lo accusa di avere una relazione con Christine, e immediatamente Abel viene buttato fuori di casa. Ma un aiuto è a portata di mano quando si imbatte in Zus una spogliarellista.
Nel diciannovesimo secolo, in un villaggio estone popolato di creature soprannaturali, una giovane contadina si innamora di un ragazzo, che però sogna la figlia di un nobile. Entrambi cercano di usare poteri mitici per conquistare l’oggetto del loro amore.
Dopo aver perso la vista, Ingrid si rinchiude tra le mura della sua casa dove si sente al sicuro e protetta dal marito. Ma presto i fantasmi nascosti della donna verranno fuori in modi che non avrebbe mai pensato.
Marian è un’infermiera quarantenne che assiste i malati in punto di morte. Se ne prende cura con una delicatezza che sfiora il morboso, regala loro gli ultimi momenti di tenerezza. Spesso ne abbrevia le sofferenze sotto un lenzuolo bianco. La sua vita privata non è così ordinata e perfetta come vorrebbe far credere. Un giorno, per caso, assiste a una scena di sesso nel cortile del suo palazzo, condividendo l’esperienza voyeristica con un dirimpettaio. Quando rivede l’uomo per strada, lo segue fin dentro un noleggio di dvd dove affitta Il dottor Zhivago con la sua versione porno. I suoi sentimenti si ridestano, intanto fa amicizia con un’anziana vicina sola e sul lavoro colleziona oggetti personali di coloro che spirano. È inevitabile l’incontro con l’uomo, che avrà un esito inaspettato.
Jerry Falk è un giovane aspirante scrittore di New York. Incontra Amanda, una ragazza libera e spregiudicata, e se ne innamora pazzamente. Amore e passione, però, non bastano a tenere in piedi la relazione e Jerry chiede aiuto al suo mentore. Questo film rappresenta una svolta nel cinema di Woody Allen per più motivi. Quello più esteriore è la sua presenza (per la prima volta dopo anni e anni di programmazione dei suoi film e anche dopo l’assegnazione del Leone d’oro alla carriera che fece ritirare da Carlo Di Palma) alla Mostra del Cinema di Venezia. Quelli invece più sostanziali stanno, come è giusto che sia, sul piano dello stile e del contenuto del film.Sul piano stilistico colpisce il frequentissimo uso che Woody fa dello sguardo in macchina. Jerry non perde occasione per rivolgersi allo spettatore, coinvolgendolo quindi direttamente nelle sue vicende. Woody poi utilizza per la seconda volta un alter ego cinematografico in compresenza sullo schermo. Lo aveva già fatto con il personaggio di Michael Caine in Hannah e le sue sorelle ma il rapporto tra i due non era comunque così diretto. Qui invece la relazione dei due è da maestro ad allievo nella difficile scuola della vita. Il primo insegna al secondo come comportarsi e nessuno dei due è in ottime relazioni con se stesso e il mondo. Ne nasce un interessante duetto con variazioni sui temi cari al regista. Ma dove la sorpresa si fa veramente grande è quando Woody reagisce ai soprusi con la violenza. Il suo personaggio non subisce più in totale passività. Che sia cambiato qualcosa dopo l’11 settembre? Certo è che il suo cinema costituisce sempre un invito a riflettere sull’uomo e sulla sua condizione perché Woody è perfettamente consapevole, come afferma il suo personaggio, che “Se uno va alla Carnegie Hall e vomita sul palco troverà qualcun altro disposto ad affermare che si è trattato di un’opera d’arte”. Allen non ama questo tipo di esibizioni e di estimatori.
Un sogno ricorrente, una vecchia casa votata al silenzio di lui e di lei, coppia senza più voce ma con una miriade di ricordi. Un confine che separa la morte dai suoi fantasmi, l’età dal suo inesorabile commiato. Se basta questo a fare di un film un ottimo film, Stefano Odoardi – regista abruzzese da anni “emigrato” in Olanda – c’è riuscito in maniera strabiliante.
Gerda Zangger, Sandra Utzinger, Brigitta Weber, Katalin Liptak, Sarah Bühlmann
Un uomo, una donna e le loro 5 figlie vivono in una baita in un villaggio su una montagna bloccata dalla neve. Una forte fede cattolica e una grande superstizione pervadono la loro vita quotidiana. Alla morte del padre in un incidente, la donna e le figlie ormai adulte sono abbandonate al loro lutto. In un’atmosfera da sogno, compaiono degli uomini-cervo, figure che determinano la durata del lutto.
Quando l’amore della sua vita Boris, un camionista di 44 anni dalla personalità forte e accattivante viene ucciso in un incidente, Luna scopre che lui ha condotto una doppia vita da sempre.
Ossessionato dal ricordo della donna amata, uccisa da un’overdose di eroina, il regista Mauge (Kacem) cerca finanziamenti per girare un film contro la droga e il mondo criminale che le sta dietro. Finirà per entrare in operazioni mafiose senza accorgersi del tragico destino a cui va incontro la sua nuova compagna Lucie (Faure). Una riflessione sulla corruzione del cinema e sull’ambiguità del rapporto arte-vita condotta lungo i sentieri tracciati dalla Nouvelle Vague da un degno erede di quel movimento. Garrel mischia Truffaut, Godard e Rivette in un film freddo e rigoroso girato in un bianconero contrastato e che esprime la contraddittorietà degli elementi in gioco. Il senso di mancanza provato dal protagonista è compensato dal crescente desiderio di droga della sua compagna Lucie, vittima del faustiano e accecante patto stipulato da Mauge. E sembra non esserci spazio per alcuna forma di innocenza. Tra gli altri rimandi c’è Il disprezzo di Godard, con cui il film condivide il direttore della fotografia Raoul Coutard. Distribuito in edizione originale con sottotitoli.
In un ristorante francese di Londra si consuma, con la complicità dello chef, l’adulterio tra la moglie di un volgare e ricco mafioso e un bibliotecario. Scoperta la tresca, il marito uccide l’amante. La moglie si vendica, costringendolo a mangiarne il cadavere, e poi l’abbatte. Esaltato dalla fotografia del vecchio Sacha Vierny (1919) e dalla musica genialmente semplice di Michael Nyman, fondato sul trinomio cibo-sesso-violenza, è il film più sarcastico, feroce e divertente di P. Greenaway. Anche il più politico. La ripetitività del racconto, scandito in dieci giornate (e pranzi) può indurre a sazietà, ma l’assiste l’angelo custode di un umorismo nero.
Kyoto, anni ’70 e ’80. Figlia di uno scrittore calligrafo (Ogata), Nagiko (Wu), continua il piacere paterno della scrittura sul corpo. A diciotto anni è indotta a sposare il nipote (Mitsubishi) dell’editore (Oida) che pubblica gli scritti del padre in cambio di prestazioni sessuali. Ossessionata da I racconti del cuscino , scritti dalla cortigiana Sei Shonagon nel XI secolo, Nagiko lascia il marito e va a Hong Kong in cerca di amanti disposti a scrivere sul suo corpo. S’innamora, ricambiata, di un traduttore inglese (McGregor) che diventa a sua volta amante dell’editore del padre. Dopo il suo suicidio scopre di esserne incinta e innesca una spirale di mortale vendetta. “Greenaway continua imperterrito a utilizzare il corpo umano come strumento di metafora. Testo e sesso sono visti come analoghi dispensatori di piacere. Il corpo è visto come un libro e la letteratura come atto sessuale” (F. Liberti). Attraverso la cultura giapponese dove l’ideogramma è parola e arte visiva ritorna a Ejzenštejn che scoprì per primo il cinema come ideogramma con un film sperimentale, continuando il suo processo di distruzione delle regole narrative: schermo frantumato in immagini multiple, inquadrature che cambiano formato (fotografia di Sacha Vierny), colonna sonora che mescola canti tradizionali giapponesi con musica leggera occidentale. Intriga, affascina, ipnotizza, turba, respinge.
In una cittadina olandese tre giovanotti – due dei quali si allenano per vincere una gara di motocross – sono attratti da una bionda inserviente di un fast food mobile. Uno dei due motociclisti finisce paralizzato, un altro scopre di essere gay e il terzo si accomoda nella normalità borghese. Scritto da Gerard Soeteman, è un inventivo dramma corale, straripante di sesso e di violenza con una vena non tanto sotterranea di misoginia e abitato da una colorita galleria di personaggi tra cui spicca R. Hauer nella parte di un campione di motocross.
Le richieste di reupload di film deve essere fatto SOLO E ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.
Visto il poco spazio su Mega (2 terabyte) NON caricherò più serie tv e fumetti.
Se interessati a serie o fumetti contattatemi via email che vi spiego un metodo alternativo