Durante i lavori di ristrutturazione del Louvre il sarcofago di un’antica mummia viene ritrovato intatto. Si manifestano subito strani fenomeni. Un’egittologa inglese, Glenda Spencer, riceve l’incarico di studiare la mummia. Che si risveglia e prende a muoversi all’interno del museo. Non contenta possiede il corpo di Lisa, una giovane donna. Alla polizia torna in mente il caso analogo degli anni Sessanta e l’ispettore Verlac segue il caso. Ci vorrà del tempo per ricondurre tutto alla normalità.
Azzurra e Manfredi, cresciuti senza genitori, sono legati da un torbido rapporto. Fumettone decadente e barocco. Più che di amore e morte, è meglio parlare di erotismo e sadismo da fotoromanzo porno.
Jean-Dominique Bauby si risveglia dopo un lungo coma in un letto d’ospedale. È il caporedattore di ‘Elle’ e ha accusato un malore mentre era in auto con uno dei figli. Jean-Do scopre ora un’atroce verità: il suo cervello non ha più alcun collegamento con il sistema nervoso centrale. Il giornalista è totalmente paralizzato e ha perso l’uso della parola oltre a quello dell’occhio destro. Gli resta solo il sinistro per poter lentamente riprendere contatto con il mondo. Dinanzi a domande precise (ivi compresa la scelta delle lettere dell’alfabeto ordinate secondo un’apposita sequenza) potrà dire “sì” battendo una volta le ciglia oppure “no” battendole due volte. Con questo metodo riuscirà a dettare un libro che uscirà in Francia nel 1997 con il titolo che ora ha il film. Julian Schnabel ha assunto sulle sue spalle un incarico gravoso perché è vero che i film che portano sullo schermo le vicende di portatori di gravi handicap (soprattutto se ispirate a storie realmente accadute) commuovono facilmente la grande platea. È però anche vero che, con una tematica in parte vicina a questa abbiamo avuto nel 2004 Mare dentro di Alejandro Amenábar con l’interpretazione da premio di Javier Bardem e la fatica di Mathieu Amalric poteva risultare improba. Sia l’attore che il regista conseguono il grande risultato di offrirci una prova di grande umanità nel contesto di un film di elevato livello artistico. L’occhio del protagonista diventa la soglia che permette al pesante e inerte scafandro del suo corpo di liberare (anche se faticosamente) la farfalla del pensiero. La voce interiore imprigionata di Jean-Do ci rivela al contempo l’orrore della condizione e l’indomabile spinta all’espressione di sé. Il giornalista pensa, desidera, soffre, grida dentro di sé. È un grido in cerca di una bocca che possa tradurlo in suoni e parole. Il battito delle ciglia (che ricorda non a caso il battito d’ali di una farfalla) si traduce in lettere e le lettere in parole. Schnabel e Amalric riescono a non fare retorica e al contempo a commuovere profondamente liberandosi dal falso pietismo che spesso accompagna queste storie ‘vere’. Raggiungono il risultato grazie a un attento lavoro di flasback che si integra alla perfezione con la descrizione di un corpo che da apertura al mondo si è trasformato in sepolcro. Tutto ciò senza lanciare proclami né a difesa strenua della vita né a favore dell’eutanasia. Il che, di questi tempi, è già un merito di per sé.
Andrea, ufficiale della Nato, parte per una vacanza di riposo in montagna consigliatagli dallo psicanalista, che gli ha rimproverato l’eccessiva frenesia amorosa. Ma anche in vacanza Andrea non perde il vizio di correre dietro alle donne.
Nella Roma papalina due carbonari compiono un attentato e subito sono catturati dai gendarmi. Un gruppo di popolani romani cerca di salvarli, ma inutilmente. Rimane libero però il Cornacchia, che continua a fare l’oppositore scrivendo versi irriverenti sulla statua di Marco Aurelio.
Na-young e Hang-seo sono fidanzatini alle scuole medie, ma i genitori di Na Young devono trasferirsi da Seoul a New York. Da questa dolorosa separazione trascorrono dodici anni, dopo i quali Na-young, che ora si chiama Nora, e Hang-seo riescono a ritrovarsi e a comunicare via Skype. Di fronte all’impossibilità di incontrarsi nello stesso luogo, Nora sceglie di interrompere la relazione a distanza e concentrarsi sulla propria carriera di scrittrice a New York. Dopo altri dodici anni, Hang-seo vola a New York per vedere Nora.
Abruzzo, 1944. Fascistello diventa gerarca proprio quando il fascismo sta per cadere e fa un viaggio in sidecar con professore antifascista, da lui arrestato, che cerca di educarlo alla libertà. Per la prima volta dopo 43 film, Tognazzi lascia le macchiette per un personaggio a tutto tondo. Film di ottimo brio satirico, scritto da Castellano & Pipolo in vena e diretto con garbo da Salce.
Un film di Narciso Ibañez Serrador. Con Lewis Flander, Prunella Ramsone, Antonio Iranzo Titolo originale ¿Quién puede matar a un niño?. Drammatico, durata 92 min. – Spagna 1976. MYMONETRO Ma come si può uccidere un bambino? valutazione media: 3,17 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Thomas arriva insieme a sua moglie in un’isola spagnola per trascorrere una vacanza. I due si accorgono che l’isola è popolata solo da bambini. In realtà, gli adulti sono stati uccisi dagli stessi bambini; per salvarsi occorre dunque uccidere i piccoli. È una cosa ripugnante, ma Thomas deve farsi forza.
Una commedia al vetriolo sulla finzione e la realtà americana medio-provinciale. Due storie. La prima, intitolata Finzione vede una ragazza di fronte alla scrittura letteraria di un corso universitario. Dopo l’insuccesso del suo primo racconto scriverà del violento rapporto sessuale avuto con l’insegnante di colore. La seconda, Non-Finzione, narra di una famiglia sconvolta da un dilettante e ambizioso videomaker che pretende di fare un documentario sui giovani alle prese con l’università. Uno dei figli del capofamiglia, quest’ultimo interpretato da John Goodman, diventa il protagonista del documentario ma rimarrà solo dopo la vendetta della cameriera ingiustamente licenziata.
La dodicenne Aviva Victor vuole essere madre. Fa tutto quello che può perché ciò accada e arriva molto vicina a raggiungere lo scopo, ma è fermata dai suoi preoccupati genitori. Così scappa, ancora determinata a restare incinta, ma invece si trova persa in un mondo alternativo, meno sensato forse, ma pregno esso stesso di ogni sorta di strane possibilità. Questo è un viaggio circolare come molti e alla fine è difficile dire se Aviva potrà essere come prima, o se non potrà mai essere niente altro che esattamente la stessa di prima. Todd Solondz ovvero del cinismo. Un cinismo che sembra avere pietà dei suoi personaggi ed invece li espone al dileggio dello spettatore. Con grande abilità di costruzione narrativa e con quel tanto di ‘stravaganza’ (tenere fermo il personaggio mutando gli attori che lo interpretano) che fa tanto ‘autore’. Peccato però che si sia molto distanti dalla tenuta complessiva di quell'”Happiness” che resta il punto di riferimento della sua filmografia. La satira sul perbenismo Usa è dura ma finisce con il perdere mordente man mano che i minuti scorrono. Anche la vocazione al grottesco ha bisogno di misura
Il seguito di Fuga dalla scuola media di Todd Solondz, un film indipendente corale. Una delle storie sarà incentrata su Dawn Wiener, soprannominata senza pietà “Weiner Dog”. Attorno a lei ci sono altre persone, la cui vita è stata ispirata o modificata da un particolare bassotto in grado di diffondere conforto e gioia.
Rio de Janeiro. Un fotografo americano è molto colpito da una prostituta e la ritrae in alcuni scatti. Quando lei viene uccisa l’uomo decide di vendicarla.
Un giovane fugge da un manicomio e sequestra in un casolare due donne parigine, madre e figlia. Figlio di Georges Simenon (l’autore di Maigret), Marc ha dipinto con acume, in questo “giallo sociologico”, la realtà provinciale e gretta di una cittadina francese.
Scritto dal regista con Doriana Leondeff e Francesco Piccolo. Agata fa la libraia a Genova, legge molto, è sorella maggiore di Gustavo, rinomato architetto, ha una figlia già grande che studia all’estero, è ricca di energia e s’innamora del più giovane Nico, scopre che è ammogliato e che le sue scariche emotive fulminano lampadine e semafori. La tempesta scompiglia la vita di Gustavo. È la 2ª commedia e il film più giocato, colorato e musicato di S. Soldini, il più surreale e libero nella sua coralità. La vita è un romanzo per Agata, ma lo è anche in tutto un film dove la caratterizzazione dei personaggi è così incisiva da compensare la struttura dell’intreccio, non altrettanto armoniosa e risolta. Il romanzesco è complementare di un altro tema, insolito sullo schermo: quello dei libri e della lettura, come rivela la scena in cui Romeo legge Goethe e sua moglie Daria Madame Bovary . Al risultato contribuiscono gli abituali collaboratori del regista: Paola Bizzarri (scene), Silvia Nebiolo (costumi), Giovanni Venosta (musica), oltre alla fotografia di Arnaldo Catinari che sostituisce L. Bigazzi.
Shun Li confeziona quaranta camicie al giorno per pagare il debito e i documenti che le permetteranno di riabbracciare suo figlio. Impiegata presso un laboratorio tessile, viene trasferita dalla periferia di Roma a Chioggia, città lagunare sospesa tra Venezia e Ferrara. Barista dell’osteria ‘Paradiso’, Shun Li impara l’italiano e gli italiani. Malinconica e piena di grazia trova amicizia e solidarietà in Bepi, un pescatore slavo da trent’anni a bagno nella Laguna. Poeta e gentiluomo, Bepi èprofondamente commosso dalla sensibilità della donna di cui avverte lo struggimento per quel figlio e quella sua terra lontana. La loro intesa non sfugge agli sguardi limitati della provincia e delle rispettive comunità, mettendo bruscamente fine alla sentimentale corrispondenza. Separati loro malgrado, troveranno diversi destini ma parleranno per sempre la stessa lingua. Quella dell’amore. Per quelli che ‘fanno il cinema a Roma’ e per cui un veneziano vale un triestino, il Veneto è un set popolato da improbabili abitanti che si limita a fare da sfondo a storie italiane altrettanto improbabili. Serviva evidentemente un po’ di sangue di quella terra per raccontarne la sorprendente bellezza e per far crescere un film preciso nell’ambientazione e credibile nelle emozioni lambite ‘ogni sei ore’ dalla Laguna. Partendo da un luogo esistente, ‘provocato’, smontato e ricomposto attraverso l’osservazione soggettiva di un’immigrata, Andrea Segre lo mostra nelle concrete trasformazioni stagionali e nelle più sottili conversioni sociali. Contro gli stranieri impersonali e posticci di Patierno e le sue ‘cose dell’altro mondo’, il documentarista veneto ribadisce quelle di questo mondo e di questa Italia in rapporto dialettico, ostile o conciliato, con l’altro da sé. Un altro che è persona e mai personaggio. Io sono Li è un’architettura delle posizioni relative tra le figure in campo, al cui centro si colloca la protagonista di Zhao Tao, centrata in ogni dove e concentrata su un proponimento che ha il volto di un bambino di otto anni. Come satelliti le gravitano intorno pescatori cauti e imprenditori (cinesi) rapaci che non la spostano da ‘Li’, che è insieme identità, punto, momento e baricentro. Dopo i documentari (Magari le cose cambiano, Il sangue verde, La Mal’ombra, Come un uomo sulla terra) e congiuntamente alla ricerca sociale, Segre debutta nel cinema a soggetto, sposando sentimenti affettivi e sociali con una limpidezza di esposizione che non riesce sempre a scongiurare l’inciampo didascalico. Di fatto, pur romanzando con sensibilità la realtà, il film non è in grado di rimettere in gioco la finzione con la verità, incorrendo troppe volte in formule da dibattito. Meglio sarebbe stato lasciarsi cullare dalle perifrasi dei sentimenti, così magnificamente comprese nell’interpretazione implosa di Zhao Tao e in quella lirica di Rade Šerbedžija. Portatore sano della condizione umana di straniero lui, portatrice pudica lei del cinema poetico e reale di Zhangke, del cambiamento epocale della Cina e dell’incanto a cui rinuncia per cambiare anima.
Un bancario e la moglie, trovandosi in difficoltà finanziarie, decidono di dividere la loro casa coi rispettivi amanti, ma arrivano anche il marito e la moglie di questi che a loro volta si portano dietro i nuovi partner.
Un bel mattino, mentre si prepara a fare colazione con tutta la famiglia, Sun-i, una signora d’origine coreana che vive da anni negli Stati Uniti, riceve un’inaspettata chiamata dalla Corea. Parte quindi con la giovane nipote alla volta di una vecchia magione di campagna dove trascorse un periodo della sua adolescenza negli anni Sessanta. A quell’epoca, la malaticcia Sun-i s’era trasferita in campagna con la madre e la sorella e lì aveva fatto il più sorprendente degli incontri, quello con un misterioso ragazzo selvaggio che viveva nei boschi. Da una premessa che avrebbe potuto essere quella di un semplice horror o thriller fantastico, il giovane regista Jo Sung-hee (qui al suo primo film mainstream dopo aver firmato un corto premiato a Cannes, Don’t Step Out of the House, e un lungo promettente, ma un po’ irrisolto, End of Animal) realizza invece con Werewolf Boy un’opera al crocevia dei generi, imprevedibile e talora sconcertante, che rivitalizza, fortunatamente!, una felice tendenza creativa del cinema coreano che pareva essersi spenta.
Dopo aver lavorato per 45 anni come operaio ospite (“Gastarbeiter”) Hüseyin Yilmaz, annuncia alla sua vasta famiglia di aver deciso di acquistare una casetta da ristrutturare in Turchia. Vuole che tutti partano con lui per aiutarlo a sistemarla. Le reazioni però non sono delle più entusiaste. La nipote Canan poi è incinta, anche se non lo ha ancora detto a nessuno, e ha altri problemi per la testa. Sarà però lei a raccontare al più piccolo della famiglia, Cenk, come il nonno e la nonna si conobbero e poi decisero di emigrare in Germania dall’Anatolia.
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