Segretaria tuttofare e ambiziosa in una società edile, Carla ha problemi di udito e di inibizioni sessuali. Trova nel suo assistente Paul, ladro in libertà vigilata, il modo di formare una strana coppia, legata da rapporti sentimentali ma non erotici. Grazie alla sua capacità di leggere le labbra altrui, si fa coinvolgere in un rischioso colpo grosso ai danni di una banda criminale. Scritto da Tonino Benacquista col regista, è un film originale per impianto narrativo, atmosfera, disegno dei personaggi. Attraverso una duplice metamorfosi, comincia come un dramma psicologico dai risvolti sociali e diventa un noir violento. Fa aspettare, coinvolge e spiazza, sostenuto da una scrittura inquieta, ellittica (anche troppo qua e là), jazzisticamente ritmata. Successo in Francia e 3 premi César all’insolita E. Devos, alla sceneggiatura e al sonoro di Antoine Beident.
Dheepan deve fuggire dalla guerra civile dello Sri Lanka e per farlo si associa con una donna e una bambina. I tre si fingono una famiglia e riescono così a scappare e rifugiarsi nella periferia di Parigi. Anche se non parlano francese nè hanno contatti. Trovati due lavori molto semplici (guardiano tuttofare e badante) i due scopriranno la vita da periferia, le bande e le regole criminali che vigono nel posto che abitano. Quando arriverà inevitabile lo scoppio della violenza e degli spari occorrerà prendere una decisione, se rimanere insieme o separarsi. Qualsiasi storia nel cinema di Audiard per raggiungere il paradiso del sentimentalismo, quella punta emotiva che suscita nello spettatore l’irrazionale sensazione di partecipazione alle vicende dei personaggi, deve passare per l’inferno della violenza. Come se le due forze fossero inscindibili nei suoi film si attraggono a vicenda: gli atti violenti o criminali chiamano amore e ogni amore per concretizzarsi prima o poi richiede di essere legittimato dalla violenza, altrimenti sembra non poter essere davvero tale. Destinato a mettere a confronto e a sovrapporre questi due estremi, questa volta Audiard decide di eliminare ancora più del suo solito il primo livello di comunicazione. I protagonisti di Dheepan fanno molta fatica a parlarsi, non solo spesso non si capiscono per problemi di lingua ma anche quando parlano lo stesso idioma è come se non riuscissero ad essere chiari gli uni con gli altri. In un cinema in cui l’unica legge che conta è quella dei corpi, strusciati o impattati, non sarà mai con le parole che si potrà risolvere qualcosa, in storie in cui l’unica verità è quella espressa dagli istinti non è con il ragionamento che si può cambiare la propria vita. I protagonisti di Dheepan hanno solo i fatti e le azioni per spiegarsi ma per Audiard bastano e avanzano. Il regista non teme di scrivere una scena di dialogo, forse la più bella ed intensa del film, tra due persone che parlano ognuno una lingua che l’altro non conosce, eppure sembrano stranamente sulla stessa lunghezza d’onda. Si tratta forse dell’unico momento nel film in cui si intravede un lampo della capacità quasi ottocentesca che quest’autore ha di raccontare gli uomini attraverso lo stordimento. Questa volta la riluttanza con cui il protagonista cerca di non farsi trascinare in un mare di efferatezza e di scegliere di costruire il suo opposto con una donna sembra però meno potente del solito. Coadiuvato da due interpreti decisamente meno abili e virtuosi di quelli cui Audiard ci ha abituato e caratterizzati con molta meno umanità del solito, il suo ultimo film appare come il più lieve, quello che con più difficoltà riesce ad accendere un fuoco sfregando i legnetti del suo arsenale. Dall’altra parte però Dheepan involontariamente conferma cosa sia ad attirarci verso questa storia e questo stile di racconto, anche quando meno riuscito. Si tratta della continua esistenza di un rumore di fondo tetro, la netta sensazione che in ogni momento emotivo esista una sottile paura della morte, la consapevolezza che tutta la passione mostrata possa prendere la strada del sangue come quella dell’amplesso e forse non esiste differenza. Del resto nell’inferno del palazzone grigio e indifferente in cui si svolge il film si consumano sparatorie e guerre fra bande nelle quali striscia la possibilità di tramutare una famiglia finta in famiglia vera. L’ultima possibile eredità del cuore pulsante del noir (inseguire un amore nei luoghi e nelle situazioni che rendono più difficile rimanere vivi) è forse davvero questa.
A 28 anni Thomas si occupa di compravendite immobiliari, il mestiere del padre, e lo fa senza scrupoli, ora provocando sfratti in modi dolosi, ora eseguendoli con la violenza ai danni di immigrati e altra povera gente. Un’occasione fortuita lo spinge a sperare di diventare un professionista del pianoforte che sua madre, pianista di talento, gli aveva insegnato. Assume un’insegnante cinese che, però, non parla francese. 4° film, e il più ambizioso, di Audiard che l’ha scritto con Tonino Benacquista, ispirandosi a Rapsodia per un killer ( Fingers , 1978), con Harvey Keitel. Il solito dramma psicologico alla francese? Qualcosa di più e di diverso. È il ritratto di un giovane uomo diviso in due da una serie di conflitti: padre/madre, due mondi, due scelte di vita, due Parigi. La stessa violenza – le stesse dita – con cui svolge lo sporco lavoro al soldo degli speculatori edilizi la impiega nel cercare di redimersi con il pianoforte, con l’arte. La cinepresa di Audiard bracca lui e gli altri personaggi (memorabile il padre di Arestrup), sottolineandone i gesti, i particolari, le sfumature.