Nel sistema feudale che domina l’universo nel futuro il potere è nelle mani di un imperatore sotto il quale lottano tra di loro delle importanti casate. Sul desertico pianeta Arrakis si trova la Spezia, sostanza preziosa per una varietà di motivi. Alla casata Atreides e al suo capo, il Duca Leto viene affidato il controllo del pianeta ma in realtà si sta approntando una congiura per eliminarlo. Leto ha però un figlio, Paul, il quale è dotato di particolari poteri che sta sviluppando con l’aiuto di sua madre Lady Jessica. Anche lui finisce quindi con il diventare un ostacolo da abbattere.
Cresciuto nel desiderio di vendicare la morte del padre, ingiustamente accusato di complicità nel furto di denaro perpetrato dal socio Stockwell, il giovane americano Raymond Gorman (Buster Crabbe) giunge in uno sperduto villaggio africano nei pressi del quale sa che, molti anni prima, il malvivente ha concluso la sua disperata fuga dalla giustizia precipitando con un piccolo aereo privato. Una superstizione locale che favoleggia di una “strega bianca nata da un uccello caduto dal cielo” potrebbe essere l’indizio giusto per rintracciare la carcassa del velivolo e recuperare il bottino e Raymond al termine di una difficile spedizione – resa più rischiosa dalle trame di una coppia di avventurieri che vogliono impadronirsi dei soldi -, scopre di aver fatto bene a credere alla leggenda. Ma la sorpresa maggiore è la rivelazione che la “strega bianca” è la graziosa Doreen (Julie London), la figlia che Stockwell aveva portato con sè, diventata ragazza nella giungla e protetta fin dall’infanzia da un gigantesco gorilla che, adesso, non ha nessuna intenzione di restituirla alla civiltà…. Tipica produzione della “Poverty Row” – gli studios specializzati in pellicole a basso costo, spesso piacevoli e piene di ritmo – che rielabora la favola della bella e la bestia calandola nel contesto delle avventure esotiche alla Tarzan, con qualche elemento fanta-orrorifico. Il film segna il debutto sullo schermo di una attrice diciottenne, Julie London, destinata in seguito ad una brillante carriera artistica. Buster Crabbe replica il prevedibile ritratto dell’esploratore bianco senza macchia e senza paura; e Ray Corrigan aggiunge al suo repertorio l’ennesimo gorilla, Nabonga, un gigante buono ma pronto a scatenarsi come una furia, sbiadito discendente dell’illustre King Kong. Nabonga è conosciuto anche con i titoli Die Rache des Gorilla in Germania e The Jungle Woman in Gran Bretagna.
Billy e Wyatt, con i serbatoi delle moto imbottiti di droga, attraversano il sud dell’America in cerca di fortuna. Arrestati per aver sfilato insieme a una banda senza l’apposito permesso, vengono aiutati da un avvocato che decide di unirsi alla loro avventura. Road movie sceneggiato dai due interpreti principali, Peter Fonda e Dennis Hopper, e diretto da quest’ultimo, Easy Rider è un racconto sulla libertà, un viaggio che ha per meta il Carnevale di New Orleans, la festa della città sul grande Delta. E stavolta è necessario un racconto amarissimo e crudele, che alla fine indigna senza parole, per denunciare lo squallore e la paura della provincia bianca e borghese del sud nel 1969. Una paura che si manifesta rozzamente nei confronti di qualsiasi minima e pericolosa traccia di diversità. Se a questo aggiungiamo l’evidenza di un grande cinema, in cui i paesaggi che cambiano, gli interpreti e la musica sembrano danzare all’unisono una ballata disperata senza scampo, allora, forse, diventa facile per lo spettatore riconoscere la presenza di una visione unica e irrepetibile nell’immaginario cinematografico. E nella quale la mano dell’autore, (con quegli scatti di montaggio che anticipano spesso le inquadrature successive) si rivela in tutta al sua destabilizzante natura. E quando il desiderio di libertà si cristallizza in fuga e assume sembianze allucinatorie e lesionanti, come nella sequenza dell’acido, le voci e le immagini si fondono, delirano, e trascinano chi guarda lentamente alla deriva
Africa all’inizio della prima guerra mondiale. In una piccola missione metodista condotta dal pastore Samuel Sayer e da sua sorella Rose la notizia dello scoppio delle ostilità viene portata da Charlie, un canadese semialcolizzato che trasporta merci su un’imbarcazione denominata African Queen. Di lì a poco i tedeschi, che presidiano la zona, incendieranno il villaggio e feriranno a morte il pastore. Charlie propone a Rose di allontanarsi con lui ma la donna ha un progetto ben più ambizioso. Venuta a conoscenza della presenza della “Luisa” (una nave della Marina tedesca) in un lago raggiungibile percorrendo il fiume su cui la Regina d’Africa sta navigando, vuole farla affondare utilizzando l’esplosivo che Charlie trasporta. La missione non sarà facile ma cementerà l’inizialmente difficile rapporto tra i due trasformandolo in amore. “Una storia in cui due persone vanno su e giù su un fiume africano… A chi può interessare? Farete fallimento”. (Il produttore inglese Alexander Korda a Sam Spiegel nel momento in cui quest’ultimo decide di produrre La Regina d’Africa). Non sono pochi i film entrati nella leggenda del cinema per il loro valore e per le vicende produttive che li accompagnarono ma questa opera di John Huston è sicuramente uno dei più esemplari. Perché sin dall’inizio si trattava di un progetto a rischio a causa del soggetto (finì invece per costare 1,3 milioni di dollari incassandone subito 4,3 e offrendo ad Humphrey Bogart l’Oscar quale migliore attore). Il rischio ulteriore era poi costituito dalle riprese in esterno realizzate nel continente africano (tra Uganda e Zaire) con un protagonista (Bogart) troppo abituato agli studios per apprezzare la stravaganza. Che invece interessava molto a Huston, all’epoca maniaco della caccia grossa all’elefante. Peter Viertel (chiamato a sostituire nella stesura della sceneggiatura Patrick Agee che la stava completando direttamente in loco) documenta questa passione nel romanzo che diventerà nel 1990 un film con lo stesso titolo Cacciatore bianco, cuore nero, diretto e interpretato da Clint Eastwood. Se a questo si aggiunge il piacere leggermente sadico che il regista provava nel mettere in difficoltà gli attori il quadro è completo. Basti citare la scena in cui Charlie/Bogart è assalito dalle sanguisughe per capire come “il Mostro” (come lo chiamavano sul set) si divertisse. In studio fece portare un secchio pieno di veri anellidi salvo poi usarne di finti. Solo per mettere in tensione fino all’ultimo l’attore. Sul piano linguistico affascina ancora oggi la sfida colta da Huston nel realizzare un film che va oltre i generi consolidati. Infatti commedia, romanticismo, avventura e dramma si alternano e si fondono in un’opera sostanzialmente teatrale. Perché, sequenze iniziali e finali a parte, La Regina d’Africa è una pièce teatrale a due il cui palcoscenico è costituito dalle assi della scatarrante imbarcazione. La morte incombe e segna il percorso nonostante l’imposizione produttiva di modificare il finale del romanzo di C.S. Forester che si concludeva con il fallimento dell’impresa e la scomparsa di Rose nei flutti. Huston, nonostante l’happy end, scava nei corpi dei suoi protagonisti spingendoli allo stremo per compiere un’impresa non ‘eroica’ (non ne hanno le caratteristiche) ma ‘necessaria’. In questo va tenuto conto del fatto che il romanzo era stato pubblicato nel 1935, che c’erano stati due tentativi abortiti di tradurlo per lo schermo con le coppie Laughton/Lanchester e Davis/Niven ma che ora sulla pelle di molte famiglia americane bruciavano ancora i segni di una guerra vinta contro i tedeschi che era però costata le vite di molti soldati Ryan.
Hollywood, che ne aveva costruito il personaggio con molta attenzione, nel 1940 attribuì a Gary Cooper (su precisa disposizione di Washington) un ruolo decisamente importante, quello del leggendario sergente Alvyn York, che era stato il massimo eroe americano della prima guerra mondiale. Il fatto non era solo cinematografico, l’America era sul punto di entrare in guerra, ma una gran parte del governo premeva per il non intervento, la stessa opinione pubblica era confusa. La storia di York era straordinariamente esemplare: era un contadino del Tennessee che non voleva combattere per motivi religiosi. Lo fece soltanto quando capì che combattere avrebbe contribuito a salvare altre vite, e la libertà. Diretto da Hawks, un grande autore, oltre che narratore, Cooper fu magnifico. Le sequenze, col suo lungo fucile, in cui cattura un’intera compagnia, il suo dolore consapevole, il ritorno a casa, il matrimonio con la fidanzata che l’ha aspettato paziente contribuirono a convincere gli americani più di tutti i proclami e le propagande. La missione era dunque compiuta. Certo, il film aveva grandi qualità, con un’attenzione quasi europea al realismo e al rigore e diede modo a Cooper di vincere il suo primo Oscar. Un attore, dunque, può contribuire a vincere la guerra. Se è Gary Cooper.
Il Titanic impiegò 2 ore e 40 minuti per colare a picco dopo la collisione con un iceberg nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912. Il canadese Cameron ha rievocato la tragedia in 3 ore e 14 minuti di cui poco più di un’ora riguarda l’affondamento. Il resto racconta il prima e il poi, con un prologo nel regno dei morti, a 4000 metri di profondità oceanica nel 1996 e un epilogo zuccheroso in paradiso, entrambi di carattere onirico, ma in modo diverso. È una storia d’amore tra il proletario Jack e l’aristocratica Rose sotto il segno della morte, un fiammeggiante melodramma romantico che si spegne nelle acque gelide dell’Atlantico. Cineasta dai codici filmici forti, Cameron vi fonde il melodramma, il catastrofico e l’epico nel contesto della rigorosa cronaca di una tragedia colposa, indicando gli errori tecnici, le responsabilità umane, le smanie da prima pagina, le viltà, la divisione in classi. Si presta così a molti percorsi interpretativi: il politico, il sociale, lo storico, il simbolico, il filmico, il metacinematografico, il tecnologico. Come e più che nei film precedenti del regista, gli effetti speciali sono al servizio della storia e dei personaggi: un mezzo e non un fine. È il film dei primati: per i 200 milioni di dollari di costo (ma meno di Cleopatra , 1963); per il sovraccosto (60-70 milioni più del preventivo); per gli incassi (i più alti in senso assoluto, ma al 22° posto in termini relativi, cioè in numero di spettatori); per gli 11 Oscar (eguagliando Ben Hur): film, regia, fotografia (Russell Carpenter), scene (Peter Lamont, Michael Ford), costumi (Deborah Lynn Scott), montaggio, musiche (James Horner), suono, effetti sonori, effetti speciali visivi, canzone (“My Heart Will Go on”, cantata da Céline Dion). K. Winslet doppiata da Chiara Colizzi, L. DiCaprio da Francesco Pezzulli. Al film lavorarono più persone di quante ne furono imbarcate nel 1912 sulla nave.
Henry Walton Jones Jr., meglio noto come Indiana Jones, è un personaggio cinematografico ideato da George Lucas, un archeologo protagonista di una serie di quattro film d’avventura scritti da Lucas e diretti da Steven Spielberg e di una serie televisiva. Il suo ruolo è stato interpretato sul grande schermo dall’attore Harrison Ford.
Film
I predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark, 1981). Nel 2000 il film è stato reintitolato Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta.
Riccardo Cuor di Leone torna dalla terza crociata e viene fatto prigioniero da Leopoldo d’Austria. Giovanni, il fratello di Riccardo, che ha usurpato il suo trono, rifiuta di pagare il riscatto. Ivanhoe si fa in quattro per salvarlo. Duelli, tornei e un bel attacco al castello. I protagonisti di questo triangolo medievale, basato sul romanzo (1820) di Walter Scott, sono dignitosi, un po’ legnosi e vacui, non molto più che nel romanzo.
Nella Scozia del XIII secolo, vessata dagli inglesi, William Wallace (1267-1305), al quale hanno ucciso la moglie, si mette a capo di un gruppo di disperati ribelli, li trasforma in esercito, batte gli inglesi a Stirling (1297), conquista la stima della regina Isabella, prosegue la guerriglia, è sconfitto a Falkirk (1304), abbandonato dai nobili passati al re Edoardo I finché è preso e giustiziato. Idealmente diviso in 3 parti (adolescenza, prime prove di coraggio e dolori di Wallace; le battaglie; i conti con la Storia), è un filmone epico che punta sullo spettacolo, su grandi temi popolari (la lotta per la libertà e la giustizia), sui luoghi canonici del genere. Vale soprattutto per le battaglie che coniugano i quadri di Paolo Uccello con la tecnologia del cinema moderno. Successo internazionale e 5 Oscar: film, regia, fotografia (John Tull), effetti speciali sonori e trucco. 1700 comparse e interminabili titoli di coda.
Un film di David Lean. Con Robert Newton, Alec Guinness Titolo originale Oliver Twist. Avventura, Ratings: Kids+13, b/n durata 116 (105) min. – Gran Bretagna 1948. MYMONETRO Le avventure di Oliver Twist valutazione media: 4,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Dal romanzo (1838) di Charles Dickens: le dolorose disavventure di un orfanello di 8 anni nella Londra del primo Ottocento. Qualcosa di più di un film britannico di qualità e di origine letteraria: Lean porta la maniera allo stile con uno straordinario bianconero (fotografia: Guy Green) di forte suggestione e una squadra affiatata di attori.Famosa l’interpretazione di Guinness come l’ebreo Fagin dal lungo naso, ma ancor più inquietante R. Newton come Bill Sikes. La storia dickensiana ebbe altre 5 versioni cinematografiche (1922, 1933, 1968, 1982, 2005).
Nei primi anni Settanta, nove soldati della guardia nazionale della Louisiana partono per un’esercitazione all’interno di una sterminata palude. Giunti presso un corso d’acqua difficile da superare decidono di appropriarsi di alcune canoe. Gesto che scatena una violenta e improvvisa reazione da parte dei Cajuns, abitanti nascosti di quei luoghi. Dispersi e con poche munizioni, si ritrovano a combattere contro un nemico silenzioso e micidiale. La pellicola di Walter Hill, per le sue atmosfere tese e per la struttura della storia (un incidente scatena la caccia a un manipolo di uomini costretti alla fuga) ricorda molto da vicino I guerrieri della notte, altro importante film del regista californiano. In una messa in scena impeccabile fin dai titoli di testa, alle splendide immagini di un paesaggio labirintico e opprimente, si sovrappongono le calde sonorità blues della chitarra di Ry Cooder, che accompagna il cammino dei soldati dipinti come reazionari psicotici e violenti.
I film del Marvel Cinematic Universe sono una serie di film di supereroi basati sui personaggi dei fumetti Marvel Comics e prodotti dai Marvel Studios. Come accade nell’Universo Marvel dei fumetti, le pellicole di questo franchise condividono l’ambientazione, alcuni personaggi e alcuni elementi della trama che fanno da filo conduttore tra di essi. Con un incasso di oltre 29,6 miliardi di dollari in tutto il mondo, è il franchise più redditizio nella storia del cinema.
Nel 2070 il mondo è diviso in due blocchi, quello Occidentale guidato dagli americani che rifiutano le AI, e quello asiatico che invece le accoglie. Joshua è sposato a Maya, ma in realtà la sua è una operazione di infiltrazione nel territorio delle Repubbliche asiatiche, dove cerca di individuare quello che le AI considerano “il Creatore”. Gli americani però attaccano con la loro piattaforma orbitante prima che lui ottenga l’informazione, uccidendo nel bombardamento sua moglie Maya. Cinque anni dopo l’esercito gli dice che Maya è invece sopravvissuta: Joshua ha una nuova possibilità di salvarla, a patto che distrugga l’arma che le AI hanno costruito. Ma l’arma in questione si rivela essere una bambina robot…
La Guerra dei sette anni è sbarcata oltre oceano. È il 1757. Le colonie americane sono terreno fertile per sangue e morti. Inglesi e francesi si contendono le terre, mentre le tribù autoctone decidono da quale parte schierarsi e a chi giurare una presunta fedeltà. Tra loro anche Nathan, nato inglese e adottato dai Mohicani, corre tra foreste e fiumi in cerca di una pacifica convivenza tra coloni e invasori. Gli equilibri verranno presto spezzati dalla crescente tensione tra le forze europee e dai labili patti che legano gli indigeni ai due schieramenti. Tratto dal romanzo omonimo di J.F. Cooper e remake de I re dei pellerossa (1936), L’ultimo dei Mohicani è un kolossal in grande stile, epico racconto in cui l’interesse per la narrazione cede il passo all’azione. Micheal Mann procede di corsa, parte in medias res e avanza senza soste in un continuo susseguirsi di fughe e assedi. Tanto affanno e poche parentesi per il pensiero in un film dove lo spazio per l’animo dei personaggi è minimo e le azioni parlano per loro. Questo registro espressivo pragmatico e poco dedito all’approfondimento psicologico dei caratteri è però funzionale a quel mondo selvaggio, dominato dalle armi, in cui la diplomazia si scopre arte faticosa e sterile, mentre la violenza divide facilmente il mondo in morti e vivi, vincitori e vinti. Con l’amore a fungere da unico antidoto. L’interesse principale ricade sullo scontro tra culture in cui solo l’habitat si distingue per purezza. I colonizzatori sono ingordi e non c’è più ingenuità nel popolo ospitante perché la contaminazione è già parte del Nuovo Mondo. Eppure la divisione è ancora netta, con gli invasori dediti al rispetto dei propri doveri e gli indigeni impegnati nella salvaguardia dei propri diritti. L’opera di Mann si apprezza e si distingue soprattutto per l’affresco estetico di una Natura che funge da silenziosa testimone, sulle note di una travolgente colonna sonora capace di far respirare a pieni polmoni lo spettatore e di evocare in lui il recupero di una pace per lo spirito. Il carisma spigoloso di Daniel Day Lewis fornisce corpo e vigore ad uno dei tanti cuori impavidi del cinema epico-storico. Un eroe più coraggioso di un film che parla di sensi di appartenenza (alla terra, ai certi valori innati e alla persona amata) senza andare oltre gli argini del genere a cui appartiene.
Dopo la vittoria sugli invasori umani, i Na’vi hanno vissuto in pace. Con loro sono rimasti alcuni scienziati terrestri insieme ai propri avatar e un ragazzino troppo giovane per essere rispedito sulla Terra. Di nome Spider e figlio del defunto colonnello Quaritch, è cresciuto insieme alla famiglia di Jake Sully, che ha tre figli naturali: il maggiore Neteyam, il ribelle Lo’ak e la piccola Tuk. Inoltre Jake e Neytiri hanno adottato Kiri, figlia dell’avatar di Augustine Grace e di padre ignoto, dotata di una sovrannaturale connessione con Eywa, la grande madre di Pandora. La Terra versa in condizioni sempre peggiori e Pandora può essere una nuova casa per gli umani, che tornano sul pianeta più bellicosi che mai, questa volta anche con soldati avatar – tra i quali un “nuovo” Colonnello Quaritch, ossia un corpo Na’vi abitato da un backup della sua coscienza. Inevitabilmente cercherà vendetta contro Jake, che nel frattempo è diventato il capo dei ribelli Na’vi, e lo obbligherà a lasciare la foresta per cercare rifugio con la famiglia presso i Metkayina, pacifici abitanti di un grande arcipelago.
Un film di Akira Kurosawa. Con Toshiro Mifune, Misa Uehara Titolo originale Kakushi Toride no San-Akunin. Avventura, b/n durata 139′ min. – Giappone 1958. MYMONETRO La fortezza nascosta valutazione media: 3,75 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Due astuti contadini sono assunti da un generale che vuole far passare una principessa e un carico d’oro attraverso il territorio nemico. Peripezie e pericoli a catena. Divertimento di alta classe sotto il segno di una libera e leggera fantasia ariostesca. È l’avventura allo stato puro con episodi di straordinario fascino.
XII secolo: la guerra tra i clan Minamoto e Heike impazza e il principe Yoshitsune, reduce da una vittoriosa battaglia navale, rientra alla capitale. Calunniato presso il fratello, lo shogun Yoritomo, Yoshitsune si trova costretto a fuggire, seguito da sei fedelissimi samurai. Per salvarsi dovranno attraversare il territorio nemico, senza rivelare la propria identità. Nel 1945 squassato dalla guerra appena conclusa, Kurosawa Akira riesce a confezionare tra mille difficoltà il suo primo jidai geki, un piccolo capolavoro che anticipa i temi del successivo La fortezza nascosta. Per far fronte alla scarsità di mezzi, un parco pubblico di Tokyo diviene una foresta e i cavalli spariscono dal copione in quanto irreperibili, senza contare le battaglie che il regista deve combattere con il doppio organo preposto alla censura, nipponico e statunitense. Gli uomini che camminavano sulla coda della tigre riprende un classico del teatro Kabuki, e ancora prima del teatro N, sulla cosiddetta “beffa di Ataka” e ne fa una parabola sul potere e sul valore dell’uomo, che prevale su gerarchie e tradizioni costituite. L’uso dei primi piani e l’espressionismo della recitazione è figlio di un cinema ancora legato all’era del muto, ma l’efficacia delle performance attoriali non ne risulta affatto diminuita. Basta infatti un cenno del principe Togashi (interpretato da Susumu Fujita) per far capire che, nonostante la verità sui finti monaci sia trapelata, a vincere è la comprensione umana per il sacrificio di un samurai disposto a violare formalmente il codice pur di rispettarlo nella sostanza, arrivando a umiliare il proprio signore pur di metterlo in salvo. Onore e valore dell’individuo hanno così la meglio su dogmi insensati, secondo un tema che tornerà in molte opere del maestro giapponese. L’elemento peculiare de Gli uomini che camminavano sulla coda della tigre, aggiunto da Kurosawa, riguarda il personaggio del facchino-giullare – interpretato dal comico Enoken – che funge da coro critico, con incursioni da protagonista nella vicenda: un idiot savant clownesco – altro topos dell’autore, basti pensare a Ran – contrapposto agli ieratici samurai-monaci, che intuisce prima di altri la natura delle cose e la asseconda con il suo buon cuore. Con un finale aperto e inatteso, che ne suggerisce un nuovo ruolo nell’intera vicenda.
Nel Giappone del XVI secolo in cui orde di soldati sbandati e dediti al brigantaggio saccheggiano le campagne, la popolazione di un povero villaggio decide di ricorrere ai samurai, nobile casta di soldati di ventura, nella speranza di trovare qualcuno disposto a impegnarsi in un’impresa così umile e così poco remunerata. Li trovano. Selezionati dal saggio e disincantato Kambei (T. Shimura), cinque rispondono all’appello. Il settimo è il contadino Kikuchiyo (T. Mifune), miles gloriosusche vuole conquistarsi sul campo l’onore di essere promosso samurai.
Da due libri di viaggio (1923) di Vladimir K. Arseniev: nel 1902 in una zona selvaggia lungo il fiume Ussuri ai confini con la Manciuria, Dersu Uzala, solitario cacciatore mongolo senza età né fissa dimora, incontra la piccola spedizione cartografica del capitano russo Arseniev con cui si lega di profonda amicizia e al quale salva la vita. 1° premio al Festival di Mosca e Oscar 1976 per il miglior film straniero, è un’opera che ricorda Flaherty e Dovženko per l’intensa, lirica,panteistica rappresentazione del rapporto tra uomo e natura. Dersu Uzala _ impersonato con eccezionale mimetismo da un attore non professionista mongolo che nella vita fa il musicologo _ vive in armoniosa e religiosa simbiosi con la natura, parla col fuoco e gli animali, ma ha poco da spartire con il mito del “buon selvaggio”.
Tutti i link Easybytez sono andati persi, con calma cercherò di ricaricare più materiale possibile.
Le richieste di reupload di film deve essere fatto SOLO E ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.
Visto il poco spazio su Mega (2 terabyte) NON caricherò più serie tv e fumetti.
Se interessati a serie o fumetti contattatemi via email che vi spiego un metodo alternativo