Nel 1994 una coppia di giovani gemelle viene brutalmente assassinata in un cottage estivo. Le indagini portano a sospettare degli studenti di un vicino college fino a quando un uomo si dichiara colpevole e viene condannato. Venti anni dopo, il caso finisce sulla scrivania del detective Carl Mørck, che si rende subito conto che qualcosa non quadra. Insieme al collega ed amico Assad, Carl inizia ad indagare nuovamente sulla vicenda e, trovando una vecchia chiamata d’emergenza di una ragazza disperata, si rende conto che questa sembri sapere cosa sia accaduto allora. Carl e Assad si mettono così sulle tracce della giovane, scomparsa dai tempi dell’omicidio, ma a tentare di rintracciarla è anche un gruppo di uomini influenti, che faranno di tutto per farla restare in silenzio.
Auschwitz 1944: la giornata di ordinario orrore di Saul, membro di un Sonderkommando – ebrei con il compito di condurre i connazionali nelle camere a gas e poi di cremare i “pezzi” (così le SS chiamavano i cadaveri) – che rischia la vita per trovare un rabbino che reciti il Kaddish (la preghiera funebre) sul cadavere di un bambino in cui ha creduto di riconoscere un figlio. Esordio lancinante, come regista e cosceneggiatore (con Clara Royer), dell’ungherese Nemes, allievo di Béla Tarr, campione di cinema estremo. Formato ristretto (4:3), camera a spalla, ininterrotti primi piani e soggettive del protagonista, colori desaturati, sfondi sfocati, assenza totale di musica (sostituita dal robotico ossessivo sottofondo sonoro degli ordini e delle imprecazioni delle SS); Nemes è riuscito nell’impossibile impresa di girare un film originale sulla Shoah, capace di immergere lo spettatore in un campo di sterminio nazista e di fargliene toccare con mano l’orrore, ma con un tocco di grazia, senza mai scadere nel trucido. Merito della poesia che scaturisce dall’antitesi tra la violenza e l’odio, che accomunano SS e Sonderkommando, e l’amore e la pietà di Saul, simbolo della vita che risorge proprio nel regno della morte. Gran Premio della Giuria a Cannes 2015, Golden Globe 2015 come miglior film, Oscar 2016 per il film straniero.
Clive ed Elsa sono due scienziati che lavorano in un laboratorio di genetica. I due sono anche sentimentalmente uniti e stanno tentando di creare un gene animale ibrido da cui estrarre proteine. La coppia vorrebbe spingersi oltre nella ricerca ma il committente intende invece entrare subito sul mercato. Elsa però non si arrende e procede con l’innesto di DNA umano. Ne ‘nasce’ un essere (battezzato Dren) che ha in parte le caratteristiche di un corpo umano e in parte quelle di un volatile.
I due ventenni Dave e Andrew sono coinquilini e non se la passano troppo bene. Dave viene licenziato dalla società in cui lavora e Andrew viene accusato di stupro. Inoltre le autorità dichiarano la loro casa inagibile, decidendo di demolirla. Con i poliziotti intorno all’edificio e le ruspe a motori accesi, Dave e Andrew esprimono un desiderio: che il mondo sparisca in quell’istante. Ed è proprio ciò che accade. Improvvisamente i nostri antieroi sono trasportati in un bianco nulla dove niente esiste tranne loro stessi e la loro casa
Morgan, stanco del tran-tran quotidiano, si fa assumere dalla Digicorp in veste di spia. Sotto falsa identità, viene inviato alle convention di ditte concorrenti, che registra di nascosto. In una missione conosce Rita, che gli rivela che in realtà egli è solo la pedina di un gioco più grande. Morgan accetta di sottoporsi ad un intervento per recuperare la memoria, accetta la proposta della concorrente Sunways e comincia un pericoloso doppio gioco.Film costato ‘solo’ 10 milioni dollari (cifra assolutamente bassa per gli standard americani) il film segna l’uscita di Natali dal ‘Cubo’ e l’apertura a nuove atmosfere e a spazi diversificati. Il confine tra realtà e sogno è quantomai sottile e il regista sa come gestirne le ambiguità.
Dal romanzo di Rona Jaffe. Tre giovani provinciali carine trovano lavoro e perdono le penne della loro virtù negli sterilizzati uffici di una casa editrice di New York. Sottoprodotto del fortunatissimo I peccatori di Peyton , non tralascia alcun effetto per raggiungere i suoi scopi melodrammatici. H. Lange è la migliore della compagnia. La Crawford sopra le righe.
L’impianto è quello de La Finestra sul cortile di Hitchcock. Washington sostituisce Stewart, guardone alla finestra, e la Jolie è nel ruolo (più o meno) di Grace Kelly. C’è il solito serial killer di New York. Registicamente c’è un altro riferimento, nelle atmosfere inquietanti e violente: sarebbe l’ormai irrinunciabile Seven. Appunto, sono più citazioni che sostanza.
Momoko fila su un motorino per le campagne giapponesi quando è travolta e sbalzata a un incrocio. Rivive così a flashback tutta la sua vita. L’incontro con Ichigo, una coetanea motociclista dai modi rozzi, segna in modo significativo la sua esistenza. Le 2 ragazze, diametralmente opposte per carattere e stili di vita, si ritrovano coinvolte a piccoli passi in un’amicizia che rivela la loro forza o fragilità interiore a dispetto delle apparenze: delle vere e proprie kamikaze dei sentimenti, come suggerito dal titolo internazionale. La semplicità della trama si contrappone a uno stile pop colorato e ricco di riferimenti al background iconico giapponese. Inserti manga e scritte da videoclip non sminuiscono l’attenzione di Tetsuya per i sentimenti.
Al suo ultimo giorno di scuola, Yuko, insegnante di una scuola media, offre ai suoi allievi del latte e inizia la sua confessione: 2 dei ragazzini sono secondo lei responsabili della morte della sua adorata figlioletta di 4 anni e lei sta mettendo in atto la sua vendetta, ha infatti iniettato nel loro latte il sangue del suo compagno, padre della bimba, morto di Aids. Questo avvio – che dura sui 30′ – è la premessa, lineare e agghiacciante, di un film che poi s’ingarbuglia nei flashback e nelle spiegazioni che ricostruiscono i fatti. Dal romanzo omonimo di Kanae Minato, un’analisi feroce del mondo degli adolescenti, un atto d’accusa nudo e crudo contro i genitori incapaci di fare i genitori e una desolante e tremenda affermazione dell’impossibilità di comunicazione tra le due generazioni. Buona colonna sonora, interpreti adeguati. Uscito in Italia con 3 anni di ritardo. VM 14.
Gli anni ’80 nella vita di un gruppo di gay benestanti di New York, amici o amanti, tra cui l’Aids semina la morte. Rimangono in due, Willy (C. Scott) e il suo compagno. Otto anni per scoprire che l’Aids non era un’invenzione della CIA e dei giornali. Scritto con ammirevole ritegno da Craig Lucas che, come il regista, viene dal teatro, non era facile da fare. “Non è facile l’asciuttezza della progressione drammatica su cui si fonda… non è ovvia la castità dei sentimenti a cui si attiene” (Gualtiero De Marinis). Un po’ didattico, ma senza tracce di sentimentalismo. Attori funzionali. Unica pecca: la sequenza finale sulla spiaggia.
Scritto dalla regista con Michele Pellegrini dal romanzo omonimo di Walter Veltroni. Dopo il premiato esordio di Cosmonauta (2009), la Nicchiarelli fa un altro film sui rapporti tra passato e presente, fra il 1981 e il 2012, circa 30 anni. Tema centrale: gli effetti del terrorismo, cioè la misteriosa scomparsa del padre, probabilmente sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse. (È del 1981 La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci). Troppi itinerari, e soltanto alcuni arrivano a destinazione. Per fortuna c’è la Buy che rende il doppio della protagonista con inquietante efficacia, non trascurando la dimensione della nostalgia nella rievocazione della Roma negli anni ’80. Fotografia di Gherardo Gossi. Prodotto con Rai Cinema da Fandango che distribuisce.
Gli ultimi anni di vita di Christa Päffgen, in arte Nico. Musa di Warhol, cantante dei Velvet Underground e donna la cui bellezza era indiscussa, Nico vive una seconda vita quando inizia la sua carriera da solista. Qui seguiamo gli ultimi tour di Nico e della band che l’accompagnava in giro per l’Europa negli anni ’80: anni in cui la “sacerdotessa delle tenebre”, così veniva chiamata, si è liberata del peso della sua bellezza e inizia a ricostruire un rapporto con il figlio. Non era un’impresa facile trasferire sullo schermo le fasi finali della vita di una personalità complessa come quella di Nico.
La dolce vita di due universitari americani dopo la fine della 2ª guerra mondiale: divertimento, sesso, baldorie, scambi di confidenze e di compagne di letto. Arrivano ai quarant’anni svuotati e con l’amaro in bocca. Passato il clamore del piccolo scandalo per la spregiudicatezza, visiva e verbale, nel trattare il tema del sesso, che cosa rimane? Un film pretenzioso, artificioso e verboso, efficacemente recitato da una squadra di attori ben diretti dove – più che i 2 protagonisti J. Nicholson e C. Bergen, ormai nell’anticamera del divismo – sono apprezzabili Ann-Margret, A. Garfunkel e, in una particina, l’esordiente Carol Kane. Il copione è di Jules Feiffer che l’aveva scritto per il teatro; fu messo in scena soltanto nel 1990. Fotografia dell’italiano Giuseppe Rotunno, per la prima volta a Hollywood.
Mentre la Terra si desertifica, Murph, la figlia adolescente dell’agricoltore ex pilota Cooper, scopre nella sua stanza misteriosi segni di sabbia. Decodificandoli, Cooper arriva alla centrale sotterranea di una NASA segreta, i cui scienziati hanno progettato 2 piani per salvare la specie umana dall’estinzione. Sfruttando un wormhole , cioè una scorciatoia nello spaziotempo, messo a disposizione da misteriosi esseri impercettibili, Cooper dovrà cercare il pianeta più adatto su cui far sopravvivere l’umanità. Lo troverà proprio ai bordi di Gargantua, un enorme buco nero, tuffandosi nel quale alla fine riuscirà a chiudere il cerchio spaziotemporale. Ossessionato dal problema del tempo fin da Memento (2000), Nolan, con il fratello Jonathan, vi impernia la scrittura di un SF action thriller che non fa mistero di voler essere un compendio del genere – da 2001: Odissea nello spazio (1968) a Gravity (2013) passando per Star Trek (1979-2009) e Guerre stellari (1997-2008), Signs (2002) e Inception (2010) – ma anche di ambire a esserne il nuovo apice. Ci riesce – su tutti la visionaria rappresentazione dell’irrealtà del tempo, ispirata a Escher, a Borges e alle fughe di Bach per le musiche (Hans Zimmer) – ma pecca di zelo accumulatorio e di affettazione declaratoria. Grazie alla consulenza del fisico Kip Thorne (anche produttore esecutivo), e a 165 milioni di dollari, ha il merito di contribuire alla divulgazione scientifica, ma anche in parte di confonderla, perché scivola sempre più nel fantastico.
Un miliardario adotta una ragazza francese orfana e la fa studiare in un elegante collegio rimanendo nell’ombra. Ma la ragazza scopre il suo benefattore e se ne innamora. Da un romanzo di Jean Webster. Buone le coreografie, ma manca il feeling nei duetti Astaire-Caron.
Psicoanalista psicolabile, Caruso si dispera e si dà all’alcol quando la moglie Giulia, da lungo tempo amata, lo lascia e frequenta un suo paziente dalla latente omosessualità. Per riconquistarla accetta a sue spese di guarire il presunto rivale. La coppia si ricompone. Nasce un figlio. Futuro incerto. Staccato dalla protettiva regia di M. Ponzi, F. Nuti impernia i suoi film sulla precarietà della coppia e sul mistero della donna, pianeta da esplorare. Punta sulla gag visiva, mescola i toni con la furia di un nevrotico narcisismo attoriale. Ma ha il fiato corto. Scritto da Nuti con G. Veronesi e D. Greco.
Un gruppo di uomini e donne si ritrova intrappolato in un enorme cubo formato da stanze (anch’esse di forma cubica) ognuna delle quali ha sei possibili aperture che conducono ad altre stanze. Ognuna di esse può costituire un passo in avanti verso la salvezza (cioè verso la superficie esterna) oppure un pericolo mortale. Chi si trova all’interno non sa come ci sia finito e se si tratti o meno di una punizione. Il film canadese costato solo 350.000 dollari, messi a disposizione nella quasi totalità da Norman Jewison, ha ottenuto buoni risultati al box office grazie a una dimensione narrativa di impronta kafkiana che non rinuncia a qualche momento da grand guignol e a qualche caratterizzazione un po’ sopra le righe.
A seguito di un banale incidente nel suo villaggio, la piccola Shula, di 8 anni, viene accusata di stregoneria. Dopo un breve processo e la successiva condanna, la bambina verrà presa in custodia ed esiliata in un campo di streghe nel mezzo di un deserto. Giunta all’accampamento prenderà parte ad una cerimonia di iniziazione dove le viene mostrato il regolamento che scandirà la sua nuova vita da strega. Come le altre residenti, Shula è costretta a vivere legata ad un grande albero dal quale è impossibile staccarsi. La pena per chi disobbedisce sarà una maledizione orribile, che trasformerà chiunque tagli la corda in una capra.
La vita derelitta di Driss, tra carcere, ricerca di sussidi statali e un rapporto non facile con la famiglia, subisce un’impennata quando, a sorpresa, il miliardario paraplegico Philippe lo sceglie come proprio aiutante personale. Incaricato di stargli sempre accanto per spostarlo, lavarlo, aiutarlo nella fisioterapia e via dicendo Driss non tiene a freno la sua personalità poco austera e contenuta. Diventa così l’elemento perturbatore in un ordine alto borghese fatto di regole e paletti, un portatore sano di vitalità e scurrilità che stringe un legame di sincera amicizia con il suo superiore, cambiandogli in meglio la vita.