Nel 1994 una coppia di giovani gemelle viene brutalmente assassinata in un cottage estivo. Le indagini portano a sospettare degli studenti di un vicino college fino a quando un uomo si dichiara colpevole e viene condannato. Venti anni dopo, il caso finisce sulla scrivania del detective Carl Mørck, che si rende subito conto che qualcosa non quadra. Insieme al collega ed amico Assad, Carl inizia ad indagare nuovamente sulla vicenda e, trovando una vecchia chiamata d’emergenza di una ragazza disperata, si rende conto che questa sembri sapere cosa sia accaduto allora. Carl e Assad si mettono così sulle tracce della giovane, scomparsa dai tempi dell’omicidio, ma a tentare di rintracciarla è anche un gruppo di uomini influenti, che faranno di tutto per farla restare in silenzio.
Film in un prologo, 8 capitoli e un epilogo. Bess ha deciso di sposare Jan, tecnico su una piattaforma petrolifera, nonostante il parere contrario degli anziani della comunità che non apprezzano l’ingresso di un ‘estraneo’. Bess, che ha un dialogo interiore con Dio, ama Jan con tutta se stessa, corpo e anima. Un giorno lui rimane vittima di un incidente sul lavoro che lo immobilizza per sempre su un letto. Chiede allora a Bess di rifarsi una vita perché la comunità non le consentirà mai di divorziare: deve fare l’amore con un uomo e poi descrivere a Jan quanto accaduto. A lui sembrerà di rivivere sensazioni che non può più provare. Bess inizialmente oppone resistenza ma poi decide di cedere. Per amore. I titoli italiani in più di un’occasione hanno tradito l’originale. Questa volta più che mai. Il destino non c’entra nulla con il titolo (Breaking the Waves= Infrangere le onde) e tantomeno con il film. Le onde che Lars Von Trier ha fatto diventare cinema in questa prima opera della sua trilogia al femminile sono (in positivo) quelle prodotte dalle vibrazioni del cuore e del cervello e in negativo quelle di chi è incapace di comprendere cosa sia la bontà e in cosa consista l’amore. Vedendo questo film in cui la macchina da presa diventa essa stessa oggetto di vibrazioni, di sussulti, di trasalimenti, di piacere e di dolore, lo spettatore che sappia staccarsi dalla rassicurante ripetitività di tanto cinema potrà comprendere perché la Giuria di Cannes ’95 gli abbia assegnato il Gran Premio.
Marian è un’infermiera quarantenne che assiste i malati in punto di morte. Se ne prende cura con una delicatezza che sfiora il morboso, regala loro gli ultimi momenti di tenerezza. Spesso ne abbrevia le sofferenze sotto un lenzuolo bianco. La sua vita privata non è così ordinata e perfetta come vorrebbe far credere. Un giorno, per caso, assiste a una scena di sesso nel cortile del suo palazzo, condividendo l’esperienza voyeristica con un dirimpettaio. Quando rivede l’uomo per strada, lo segue fin dentro un noleggio di dvd dove affitta Il dottor Zhivago con la sua versione porno. I suoi sentimenti si ridestano, intanto fa amicizia con un’anziana vicina sola e sul lavoro colleziona oggetti personali di coloro che spirano. È inevitabile l’incontro con l’uomo, che avrà un esito inaspettato.
Dancer in the Dark era una canzone cantata, e ballata, da Fred Astaire in Spettacolo di varietà. Ed è la metafora della vita di Selma, operaia arrivata in America dalla Cecoslovacchia, minata da una cecità progressiva che diventerà totale, e che fantastica, appunto, sui musical. Lavora in tutti i turni in fabbrica, si porta a casa altri lavori, non ha svaghi, non ha amori, non ha niente, tranne un figlio che ha la sua stessa malattia, ma che potrà essere operato. Selma risparmia il denaro per l’operazione centesimo dopo centesimo. Quando un poliziotto (Morse) che le sembrava amico le ruba i soldi, tutto precipita, il film diventa un altro film. Anarchico, provocatorio, alla ricerca esasperata del non convenzionale (a cominciare dalla macchina a spalla che però abbandona quando serve) è anche il più spietato degli autori contemporanei (Altman è una specie di Capra edulcorato al confronto). Tutte le vicende partono dalla speranza e dalla dolcezza e finiscono nella più profonda e un po’ compiaciuta, tragedia. L’estremizzazione è una pratica legittima ma l’artificio della musica e delle canzoni servono a von Trier come alibi per un approdo troppo disperato e agghiacciante. Vincitore della Palma d’oro a Cannes (naturalmente). Davvero straordinaria la cantante Bjork, a sua volta premiata come migliore attrice. Rivisto il “fantasma grasso” di Catherine Deneuve che il non convenzionale Lars fa diventare un’operaia alla catena di montaggio.
Ormai seppellito il Dogma 95, di cui fu con von Trier uno dei promotori, il danese Vinterberg riprende a raccontare legami e conflitti familiari, ma in chiave di commedia comico-ironica. Al centro c’è il giovane, bello e balbuziente Sebastian, cresciuto con mamma e zia. Fa l’aiutocuoco nel migliore hotel di una cittadina danese dove si celebra il 75° anniversario della fondazione. Il giovanotto sta per sposare la borghese Claudia, ma si fa prendere da Maria, vecchio amore e cameriera nell’hotel dove è ospitato il concittadino Schmidt, famoso cantante d’opera, che la seduce. Cacciato di casa, Sebastian scopre di essere figlio di Schmidt che trova nella paternità un motivo per uscire dalla depressione. Pur meno riuscito di Festen , il film vanta una certa grazia, è sorretto da un’efficace direzione degli attori e, soprattutto nei momenti lirici, dalla fotografia di Anthony Dod Mantle (premio Oscar per The Millionaire di Boyle). Distribuito da Teodora.
Nick e suo fratello minore fin da piccoli hanno dovuto occuparsi di se stessi a causa di una madre alcolizzata. A loro carico era anche il fratellino neonato che un giorno era morto all’improvviso. Ora Nick è un uomo sui trent’anni che conduce un’esistenza solitaria interrotta ogni tanto da prestazioni orali di una vicina di casa divorziata e con un figlio che vorrebbe le venisse affidato. Nick è stato in carcere ed è stato lasciato dalla sorella di Ivan, un suo coetaneo con problemi psichici nella sfera sessuale. Suo fratello intanto ha concepito con una tossicodipendente come lui un figlio, Martin. L’uomo lo ama profondamente anche se non riesce a liberarsi dall’eroina. C’era una volta Thomas Vintenbeg, primo adepto certificato del Dogma vontrieriano, che ci aveva regalato un’analisi acuta e grottesca della borghesia danese nel più che riuscito Festen. Dopo divagazioni hollywoodiane totalmente fuori dalle sue corde, una surreale indagine sulla dipendenza dalle armi (Dear Wendy) e una divertente rivisitazione del mondo di Festen in Riunione di famiglia lo ritroviamo con un film le cui retoriche superano ogni limite di accettabilità. Ci sono i due bambini che vengono caricati di un senso di colpa esistenziale, non mancano le descrizioni delle loro esistenze alla deriva con annesso finale in bilico tra speranza e buio in fondo al tunnel. Il tutto sottoposto al criptico titolo Submarino che fa riferimento (ma solo per i malvagi addetti ai lavori temiamo) alla denominazione della forma di tortura che spinge la vittima ai limiti dell’annegamento.
Copenaghen, 1975. Anna, nota giornalista TV, convince il marito Erik, docente di architettura, a dar vita a una Comune nella grande casa da lui ereditata. L’arrivo di Emma, una studentessa di cui Erik si è innamorato, fa cadere in depressione Anna. Scritto a 4 mani con Tobias Lindholm, è un dramma sentimentale di coppia ma anche esistenziale di una donna alla soglia dell’anzianità. Poco a che vedere con Together – Insieme (2000), benché l’anno (1975) della storia sia lo stesso e il luogo (Stoccolma) vicino e culturalmente omogeneo. Il titolo si riferisce a un’esperienza di convivenza collettiva alternativa, che in realtà funge solo da sfondo, ma di “comune” c’è solo la vicenda borghese del marito di mezza età che lascia la moglie per una 20enne. Più che a Lukas Moodysson, Vinterberg sembra ispirarsi a Ingmar Bergman, ma non ne ha lo spessore e la poesia. Vale soprattutto per l’inquietante interpretazione di T. Dyrholm, Orso d’argento come migliore attrice alla Berlinale 2016.
Lucas ha un divorzio alle spalle e una nuova vita davanti che vorrebbe condividere con il figlio Marcus, il cane Funny e una nuova compagna. Mite e riservato, Lucas lavora in un asilo, dove è stimato dai colleghi e adorato dai bambini, soprattutto da Klara, figlia del suo migliore amico. Klara, bimba dalla fervida immaginazione, è affascinata da Lucas a cui regala un bacio e un cuore di chiodini. Rifiutato con dolcezza e determinazione, Lucas invita la bambina a farne dono a un compagno. Klara non gradisce e racconta alla preside di aver subito le attenzioni sessuali dell’insegnante. La bugia di Klara scatenerà la ‘caccia’ al mostro, investendo rovinosamente la vita e gli affetti di Lucas. Disperato ma deciso a reagire, Lucas affronterà a testa alta la comunità nell’attesa di provare la sua innocenza. La legge è chiara, un uomo non può essere considerato colpevole fino a quando sussiste solo l’ipotesi di reato. Diversamente, ai tribunali del popolo piace condannare, processare e cuocere sulla griglia mediatica il presunto colpevole.
Nella cittadina di Estherslope (USA) l’adolescente Dick (Bell, Billy Elliot ) fonda, con alcuni coetanei scialbi e annoiati come lui, il club dei Dandies che praticano il “pacifismo armato”. Tutti possiedono un’arma da fuoco che battezzano con dolci nomi (Wendy è la pistola di Dick), risoluti a non usarle mai contro il prossimo e a farle “cantare” soltanto in un tiro a segno. Il loro possesso dà fiducia e coraggio. Finiscono per usarle contro la polizia per riparare un’ingiustizia. Scritto da Lars von Trier – che fu con Vinterberg uno dei fondatori del movimento Dogma – e in parte ispirato ai testi delle canzoni degli Zombies, è un apologo edificante sulla non-violenza in una società violenta all’insegna di un minimalismo astratto con angolazione nordamericana. Convincente e provocatorio a metà.
Dal romanzo Anne Pedersdotter di Hans Wiers-Jenssen e dal dramma (1918) di Karl Gustav Vollmoeller: nella Danimarca del 1623 l’amore tra il figlio di un pastore protestante e la sua giovane matrigna che, accusata di stregoneria dopo la morte del marito, dinanzi all’atteggiamento dell’amante, anch’egli convinto della sua colpevolezza, preferisce morire attribuendosi un delitto non commesso. Di altissima tenuta stilistica nella sua maestosità (Dreyer: “Non il montaggio è lento, ma il movimento dell’azione. La tensione si crea nella calma.”), di grande ricchezza psicologica e sapiente rievocazione storica, è una vetta nell’itinerario di Dreyer e nella storia delcinema. Per il regista danese _ al di là delle interpretazioni che se ne possono dare _ la più terrificante sequenza musicale della liturgia cristiana diventa un inno alla vita e alla libertà contro il fanatismo, l’intolleranza, la cecità spirituale degli uomini.
Nell’autunno del 1945 un giovane americano, di nascita tedesca e di buona volontà, ritorna nella patria in rovina, trova un posto come conduttore di vagoni-letto e, grazie a un coinvolgimento amoroso, si fa incastrare da un gruppo terroristico di Lupi Mannari, irriducibili nazisti non rassegnati alla sconfitta. Cocktail di thriller e melodramma con una componente umoristica. Più che la storia, artificiosa e quasi banale, e più che i personaggi, conta l’apparato tecnico-formalistico: colore contrapposto al bianconero, sovrimpressioni, obiettivi deformanti, cinepresa dinamica, scenografie di taglio espressionistico. Antitedesco nella sostanza, è profondamente tedesco nella forma.
Il Cairo, Egitto, gennaio 2011. Nouredin è un ufficiale della polizia corrotto come tutti i suoi colleghi. Chiede denaro per proteggere i commercianti da attacchi delle stesse forze dell’ordine di cui fa parte. Per le strade intanto iniziano ad avvertirsi i primi segnali di quella rivolta che avrà il proprio fulcro in piazza Tahrir. Nouredin si trova però impegnato nel caso dell’omicidio, in un hotel di lusso, di una cantante che gode di una certa notorietà. Una cameriera ha visto tutto e per questo rischia la vita.
I fratelli del titolo originale sono Michael e Jannik che, pur assai diversi, si amano. L’uno è un uomo d’ordine: carriera militare di successo, una bella moglie, due bambine; l’altro è uno scapestrato trasgressivo con pendenza penale alle spalle. Partito per l’Afghanistan con il contingente danese dell’ONU, il maggiore Michael è abbattuto su un elicottero e dato per morto. A sorpresa di tutti, Jannik si occupa con affettuosa responsabilità della moglie del fratello e delle nipotine. Tra lui e la cognata nasce un’attrazione reciproca, tenuta a freno. Mesi dopo Michael ritorna, traumatizzato dalla prigionia in un campo di guerriglieri e da qualcosa di terribile di cui non riesce a parlare. Scritto da Anders Thomas Jensen, il 7° film della Bier ha due caratteristiche: la metamorfosi dei due fratelli, in negativo e in positivo, causata da un tragico evento bellico; due modi di narrare che si alternano. Nei momenti dell’azione la Bier lavora sul togliere, nel disegno dei personaggi punta – e indugia – sull’analisi dei sentimenti e delle emozioni. Premiati gli attori (Nielsen, Thomsen) a San Sebastián 2004 e premio del pubblico al Sundance 2005. Titolo italiano stupidamente deviante.
Jacob vive da molti anni in India, dove ha iniziato e abbandonato diversi progetti di volontariato, è stato lasciato dalla donna che amava e ha disperatamente tentato di sfuggire alla sua condizione di alcolizzato e dimenticarsi della sua anima perduta. Costretto a tornare in patria per ottenere una cospicua donazione che gli permetta di continuare a occuparsi dell’orfanotrofio dove si è ritagliato il ruolo di buon samaritano, Jacob ritroverà un pezzo del suo passato che inevitabilmente gli cambierà la vita.
Nel ghetto di Varsavia, prima di essere rastrellato e deportato con gli altri ebrei, un padre ordina al figlioletto Alex (Kiziuk) di nascondersi tra le rovine di una vecchia fabbrica, promettendogli che tornerà a riprenderlo. In compagnia di un bianco topino e di una copia sgualcita del Robinson Crusoe di D. Defoe, Alex comincia la dura lotta per la sopravvivenza, allietata soltanto dall’idillio con la piccola Stasja (Liquorich). Film di molti meriti (da un romanzo di Uri Orlev): l’interpretazione del piccolo Kiziuk; il modo con cui il regista danese si muove nel microcosmo cadente della fabbrica e dei suoi cunicoli per il quale lo scenografo Norbert Schere si è ispirato alle acqueforti delle Carceri di Piranesi; le musiche di Zbigniew Preisner, il compositore preferito di Kieslowski; l’esplicita denuncia delle connivenze tra tedeschi nazisti e cattolici polacchi.
La drammatica storia di una ragazza che ha un unico e grande sogno : diventare attrice. Anna, questo il suo nome, senza dire nulla alla sua famiglia, si trasferisce a Copenhagen in cerca di fortuna. Presto però Anna resta incinta e partorisce una bambina. La ragazza farà il possibile per dare alla figlia tutto ciò di cui ha bisogno, ma non riuscirà a conciliare la sua vita di madre con il suo grande sogno di gioventù. Questa situazione di rinunce e responsabilità porterà ad un atto disperato, con tragiche conseguenze per Anna e sua figlia.
Thomas ha quarant’anni e troppi conti irrisolti: decide così di darsi 24 ore per incontrare — uno a uno — tutte le persone che hanno significato qualcosa per lui nella vita, dal figlioletto alla ex moglie, dal migliore amico (che se la intende con la donna) all’attuale amante, dalla sorella all’anziana madre. A tutti Thomas racconta che sta per partire per New York
Un’astronave che trasporta dei coloni su Marte viene buttata fuori rotta, costringendo i passeggeri ossessionati dal consumo a prendere in considerazione il loro posto nell’universo.
In un centro commerciale di Gothenburg, cinque ragazzini di colore approcciano tre coetanei bianchi con la scusa di voler sapere l’ora ma con l’intento di rubare loro il cellulare. Senza violenza, ricorrendo alla minaccia che la loro semplice apparenza è in grado di suscitare per ragioni di diffuso pregiudizio, i cinque imbarcano gli altri tre in un viaggio lungo un giorno fino ai margini della città, sfruttando l’incredibile incapacità degli adulti di comprenderli e di essere d’aiuto.