Provincia di Piacenza, anni Sessanta. Aldo Braibanti è un intellettuale con un gran seguito tra i giovani, che frequentano la sua “factory” dove si recita, si creano installazioni artistiche, si scrivono poesie. Fra i suoi adepti c’è Riccardo, che sogna di essere apprezzato dal suo maestro ma che da lui riceve solo critiche. Un giorno Riccardo porta con sé il fratello Ettore, che ha scovato una di quelle formiche che Braibanti, anche mirmecologo, colleziona in una teca. E l’intellettuale dimostra subito gratitudine e stima verso quel ragazzo intelligente e gentile. Ma anche un’attrazione, presto reciprocata dal ragazzo, che gli costerà lalibertà e la carriera: perché Braibanti è anche un omosessuale dichiarato.
11° film per il cinema di Amelio: è troppo originale per poter avere un grande successo di pubblico. Lo hanno paragonato a una nuvola: mentre lo guardi, cambia forma, una commedia che diverte e commuove. Difficile stabilire fino a che punto le responsabilità o i meriti siano di chi l’ha scritto (Amelio con Davide Lantieri) e dove cominci l’apporto di Albanese che fa di Antonio Pane, intrepido nella sua bontà, un personaggio indimenticabile. L’azione si svolge nella Milano del primo 2000 (fotografata benissimo da Luca Bigazzi). Pane, di mestiere, fa il rimpiazzo: sostituisce quasi ogni giorno qualcuno che deve assentarsi dal lavoro per ragioni più o meno serie. Non lo fa per gioco, si limita a prendere qualche soldo, spesso pochi. Amelio fa film che non si raccontano, ama il sentimento di speranza, il rispetto per l’essere umano, la difesa appassionata della sua dignità.
Un film non indispensabile. Un giovane va in Albania con un losco affarista che vuole aprire una fabbrica di calzature. Hanno bisogno di un prestanome e trovano un vecchio albanese. Ma questi fugge e il giovane lo insegue. Viaggiano insieme, ma nascono molti problemi. Oltre a essere dimenticato dal “socio”, scopre che il vecchio è in realtà un italiano. Intorno a loro un paese allo sbando che campa di stenti e guarda la televisione italiana. Prenderanno una nave che li riporta in Italia. Per certi versi migliore di Ladro di bambini ma più dispersivo. Il film, pur avendo un suo valore, soffre di alcune forzature. Vuol fare sia denuncia che poesia, non riuscendo a fonderli fino in fondo. La scena finale della nave carica di albanesi (vista e stravista in tv) rischia di essere inutile e ridondante. Placido è bravo ma scompare presto. Lo Verso non è abbastanza duttile, mentre la vera sorpresa è Piro Milkani, il vecchio. In concorso alla Mostra di Venezia.
Da quando la moglie è morta e i figli, ormai grandi, se ne sono andati, Lorenzo, avvocato scorbutico in pensione, vive da solo in una bella casa nel centro storico di Napoli. La sua vita quotidiana, scandita dai riti ripetuti, è messa in discussione dall’arrivo nel palazzo di una giovane coppia, Michela e Fabio, e dei loro figli Bianca e Davide, con i quali instaura un rapporto di tenera affettività che lo porterà, non senza drammi, a rivedere alcune durezze del suo carattere, nonché a un profondo ripensamento esistenziale. Riuscito pamphlet sulle dinamiche dei rapporti umani, su solitudine, senso di colpa, incapacità di comunicare. Carpentieri, dimesso e teatrale, conferisce una grande profondità psicologica al personaggio di Lorenzo, che è il fulcro del film. Qualche sbavatura nella trama, gli altri personaggi meno riusciti che rendono non funzionanti le relazioni col protagonista, un autocompiacimento a volte eccessivo nei dialoghi, portano il film a non essere del tutto riuscito.
Gianni, impiegato trentenne che vive a Milano con moglie e figlio, non ha mai visto Paolo, altro suo figlio, nato da un parto traumatico costato la vita alla giovanissima madre e affidato agli zii materni di Roma. A distanza di anni lo raggiunge su un treno diretto a Berlino dove Paolo, quindicenne con gravi disturbi psicomotori, è sottoposto alle terapie di una clinica specializzata. Il racconto si conclude in Norvegia con un abbraccio tra padre e figlio. Un finale che è un inizio, quello di una vita insieme da condurre nei fastidi e nella fatica di ogni giorno. Come dire che l’amore non basta, che “nun se fa così”, se non c’è un’assunzione costante di responsabilità. Come altri di Amelio, è un film di viaggio, sostenuto da “una morale della necessità nella quale non si può distinguere il fatto dalla forma ” (M. Grande). Ispirato a Nati due volte (2000) di Giuseppe Pontiggia, scritto dal regista con Rulli e Petraglia, è il film più semplice, lineare, ellittico di Amelio che lo chiama, paradossalmente ma non a torto, il suo film più allegro. Forse, però, è il film più pessimista di un cineasta oggi così sfiduciato nei rapporti tra realtà e cinema. Ne fa un film depurato e intenso alla soglia del sociale: l’handicap – la diversità – non è il tema del film, ma il film stesso. A. Rossi/Paolo gli dà l’acqua della vita. K. Rossi Stuart, bello da copertina, è perfetto, mentre C. Rampling è una mater dolorosa inquietante. Fotografia: Luca Bigazzi. Musica: Franco Piersanti. David di Donatello a Alessandro Zanon (presa diretta). 3 Nastri d’argento: regia, fotografia, fonico.
Scritto dal regista con Umberto Contarello, liberamente tratto dal romanzo La dismissione (2002) di Ermanno Rea. Convinto che nell’altoforno di una acciaieria dismessa, venduta ai cinesi, esista un difetto cui lui solo può rimediare, Vincenzo Buonavolontà (in Rea: Buonocore), operaio manutentore, vola a Shangai e attraversa la Cina fino in Mongolia a sue spese per consegnare la centralina che ha fabbricato. Gli è compagna e guida la ventenne Liu Hua, incontrata in Italia come interprete, che forse è un’altra, inconscia ragione del suo viaggio. Pur nella sua lineare semplicità, appare un film difficile e non privo di difetti, almeno sul piano della verosimiglianza, il che spiega perché abbia diviso pubblico e critici. Non è un po’ folle la spinta al viaggio nel Paese più indecifrabile del mondo di questo Buonavolontà, idealmente apparentato con i personaggi del Primo Levi di La chiave a stella che portano dentro un senso antico e ormai anacronistico della dignità del lavoro ben fatto? Una volta tanto, lo sguardo di Amelio coincide con quello del suo protagonista. È un viaggio pieno di ostacoli alla ricerca di sé stesso, “un percorso che lo libera e lo consola” (G. Amelio) e che forse lo farà rinascere grazie all’incontro con Liu Hua. Soltanto chi non sa captare l’importanza di questa dolente ragazza madre (“Mio figlio non sa nemmeno che sono nata”) e non capisce che Buonavolontà è un sognatore, ma accorto e coraggioso, può parlare di film “freddo”. Quando alla fine s’incontrano nella stazioncina, i due sono “nati due volte” e parlano la stessa lingua. Tristi, ma pronti a ricominciare. Fotografia: Luca Bigazzi. Musica: Franco Piersanti.
Si tratta del secondo film di Amelio, girato per la televisione in sedici millimetri. È la storia di Tommaso Campanella, il monaco del Diciasettesimo secolo accusato di eresia e condannato all’ergastolo.
Dopo la visita a un riformatorio in Calabria per un’inchiesta sulla devianza minorile, un giornalista televisivo fa un viaggio in treno col dodicenne Leonardo, da lui scelto come rappresentante tipico della categoria. Non più condizionato dall’ambiente e dalla presenza dei mezzi tecnici (cinepresa, registratore), Leonardo parla con una sincerità che prima non aveva, ma trova nel giornalista soltanto un interesse professionale e gli si ribella. Prodotto da Tommaso Dazzi per il 2° ciclo “Autori nuovi” dei programmi sperimentali della RAI, il 1° film del 25enne calabrese Amelio ha una struttura binaria: due luoghi, due momenti nel rapporto tra i personaggi, due approcci diversi nella 1ª e nella 2ª parte, la capacità di far sembrare i personaggi come persone reali e viceversa, l’opposizione tra la TV e il mondo del bambino. Fotografia (16 mm) di Giulio Albonico.
E’ la storia di Enrico Fermi, di Ettore Majorana e del gruppo dei giovani che misero le basi, in un laboratorio romano, per la nuova era nucleare. In particolare è la storia di Majorana, la personalità forse più brillante e certo più enigmatica del gruppo, misteriosamente scomparso poco prima della guerra. Gianni Amelio, dopo un silenzio di cinque anni, ci dà uno dei film più stimolanti della stagione (rende appassionante un argomento che la maggior parte degli spettatori non ha mai digerito nemmeno sui banchi del liceo).
Girato per la televisione in sedici millimetri. Un bambino toscano, figlio di contadini, ha un gran talento nell’apprendere matematica e musica. Si interessa a lui un inglese che però si trova al centro di un vero intrigo.
Leone d’oro a Venezia. Implacabile, appassionata, struggente, un’opera potente, lontana da facili citazioni neorealiste, da giudizi storici e da qualsiasi forma di didascalismo e ridondanza retorica. Un’epica collettiva in cui vicende private e contesto nazionale si alimentano reciprocamente alla ricerca delle origini della nostra confusa modernità. A essere messo in scena è il dramma dell’emigrazione, del desiderio di riscatto, della difficile integrazione sociale e della convivenza tra povertà e benessere nell’Italia in ascesa nel boom annunciato. Amelio ci costringe a ripensare allo stereotipo meridionale e a situazioni e luoghi che crediamo di avere in qualche modo interiorizzato. Primo tra tutti l’espropriazione culturale e politica di intere generazioni di emigranti che hanno contribuito allo sviluppo del nord. 1958 – 1964, sei anni determinanti per il nostro paese, raccontati attraverso il rapporto complesso, tormentato e viscerale di due fratelli siciliani, per mezzo di una narrazione ellittica, al di là di qualsiasi convenzione stilistica, svuotata di fatti e di cronologia. L’essenziale talvolta resta fuori campo, lo spettatore è costretto a raccogliere indizi e a ricostruire i nessi nella frammentazione, assumendo un ruolo non passivo nella fruizione della pellicola. La poetica, la capacità espressiva e l’impronta stilistica subiscono modificazioni nel suo percorso autoriale, ma resta essenzialmente una costante la coerenza a un certo tipo di sensibilità creativa. Così come permane il dono di saper raccontare esistenze precarie, vie di fuga impossibili, prese di coscienza faticose e inevitabili compromessi morali. Lo spazio urbano (una Torino plumbea e tetra dagli austeri e sontuosi palazzi savoiardi, ma in qualche modo più metaforica che dotata di concretezza vera e propria) è mostrato così come la vedono i protagonisti, con i loro occhi spaesati, la loro attonita curiosità e l’angoscia provocata dal labirinto esistenziale in cui si trovano rinchiusi. All’inizio la scelta del regista era ricaduta su Milano, unica altra alternativa possibile, ma alla fine ha optato per il capoluogo piemontese, città sicuramente meno sfruttata dal cinema. Amelio in proposito aveva dichiarato: «Credo che le mura, i palazzi, le strade di Torino esprimano tutta la loro storia senza però ostentarla: i monumenti, anche i più “eccessivi”, sono come velati da una patina di discrezione. La stessa che c’è nei torinesi».