Durante una sosta in un pianeta sconosciuto un essere s’introduce nella Nostromo , gigantesca astronave da carico, e semina terrore e morte tra i sette membri dell’equipaggio. Sopravvive soltanto la coraggiosa Ripley. È un thriller fantascientifico con componenti di horror e suspense che conta poco per quel che dice, ma che lo dice benissimo, grazie a un apparato scenografico di grande suggestione e a un ritmo narrativo infallibile. La sua chiave tematica è la paura dell’ignoto, perciò pesca nel profondo. Oscar per gli effetti visivi a Carlo Rambaldi, H.R. Giger, Brian Johnson e Nick Allder. Da novembre 2003 è in circolazione una nuova edizione rimasterizzata in digitale curata da R. Scott. Colonna musicale di J. Goldsmith.
L’ordine di visione è come li ho segnati nella cartella Mega.
“Io ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare”: frase storica, storico film, giunto – a venticinque anni dalla sua prima uscita – alla terza edizione, dopo il director’s cut del 1992 e la versione, a quanto pare definitiva, del 2007. Torna dunque in servizio l’ex poliziotto fallito Rick Deckard, prestato all’unità speciale Blade Runner, per dare la caccia ai replicanti, uguali in tutto e per tutto agli esseri umani salvo per l’apparente incapacità di provare dei sentimenti e per la durata limitata delle loro esistenze: circa quattro anni. In una Los Angeles del futuro, anno 2019, cupa, nebbiosa e terribilmente affollata, il simulacro dell’esistenza nella pessimistica penna di Philip K. Dick ritrova vita nelle immagini girate nel capolavoro di Ridley Scott. Oltre al piacere di rivedere un classico del cinema – con tutti i costrutti filosofici che ne conseguono – questa nuova versione di Blade Runner sembra soddisfare più un ben determinato piano commerciale, piuttosto che una vera e propria rivisitazione operata dal regista rispetto alle scorse versioni. A parte la rimasterizzazione dell’opera e lo zampino già noto dell’artista francese Moebius (Jean Giraud) chiamato a evocare alcuni scenari tratti da un suo fumetto a sfondo fantascientifico, nonché delle musiche a sfondo futuristico dei Vangelis, “Blade Runner” vanta dei cambiamenti quasi impercettibili (almeno rispetto al Director’s Cut del 1992) rimanendo quello che era: il cult movie che ha conquistato almeno tre generazioni di spettatori. La voce narrante, onnipresente nell’originale del 1982, è totalmente sparita, togliendo al film la sua caratterizzazione principale e indebolendo parzialmente la storia (passata) del personaggio interpretato da Harrison Ford. Più nitida, invece, la scena centrale del sogno, importante chiave di (non) lettura sulla vera natura di Rick Deckard, forse anch’egli un replicante. Ed è il finale a confermare una tendenza pessimistica (rispetto all’happy end “ecologista” imposto dalla produzione nella prima stesura, portata a termine con le scene scartate da Kubrick in Shining), che si rifà sostanzialmente a quello della seconda versione. Insomma, il ritorno al cinema (e in un cofanetto con ben 5 dvd) di Blade Runner è un piacere per gli occhi e per la mente. Ma non aspettatevi grosse novità: dopotutto i replicanti vivono all’incirca quattro anni, mentre Blade Runner è già entrato nella storia.
Anni ’70. Patrizia Reggiani conosce a una festa Maurizio Gucci, rampollo della dinastia Gucci, una tra le piu` celebri nel mondo della moda. Nasce una storia d’amore, dapprima osteggiata dal patriarca della famiglia, Rodolfo Gucci, ma poi arriva il matrimonio e la prole. La sfrenata ambizione della donna, che vorrebbe indirizzare le politiche aziendali del marchio Gucci, la porterà a tessere spericolate strategie, come quelle con lo zio del marito, Aldo Gucci, che incrineranno i rapporti familiari, innescando una spirale incontrollata di tradimenti, decadenza, vendette.
L’equipaggio della missione Ares 3 sul suolo di Marte si trova nel mezzo di una tempesta che non lascia scampo. Il botanico Watney viene colpito da un detrito: credendolo morto, il comandante Lewis ordina alla squadra di abortire la missione e tornare sulla Terra. Ma Watney è vivo e, mentre cercherà di prolungare il più possibile la sua sopravvivenza sul Pianeta Rosso, la Nasa ricorrerà a ogni stratagemma per provare a riportarlo a casa. Hanno detto che Sopravvissuto – The Martian rimette la “sci” in sci-fi, ovvero pone l’accento sulla “scienza” di fantascienza. E non sono andati lontani dal vero. Ridley Scott, alle prese con uno script non suo – autore il Drew Goddard della scuderia Joss Whedon – e tratto dal meticoloso romanzo di Andy Weir, un ingegnere informatico reinventatosi scrittore, si dimentica di essere il profeta dei futuri distopici di Alien e Blade Runner. E si limita a fare quel che gli riesce meglio, ossia rendere cinematografica materia che tale non è. Concedendo qualcosa al 3D ma il minimo indispensabile alla computer graphics, Scott consegna la sua epica alle riprese in esterni della desolazione marziana. Le passeggiate di Matt Damon sul suolo di Marte, a bordo del suo rover, ricordano tanto le cavalcate fordiane nella Monumental Valley che gli orizzonti infiniti di Lawrence d’Arabia. E non casualmente, visto che quest’ultimo è stato girato in luoghi vicini al deserto della Giordania scelto per The Martian. La visione di Scott e il suo racconto di un’odissea in cui Ulisse e Robinson Crusoe trovano un ideale punto d’incontro procede in parallelo con i teoremi infallibili di Weir, che vede nel suo protagonista l’ingegnere perfetto, un MacGyver di Marte pronto a elaborare modalità di sopravvivenza sempre nuove in un pianeta ostile. Rosso, brullo e indomabile, il quarto pianeta viene privato della allure che lo ha accompagnato in un tutt’altro che brillante passato cinematografico, attraverso l’espediente di ipotetiche civiltà pre-terrestri (Mission to Mars) o alieni belligeranti (La guerra dei mondi). E presentato per ciò che è, un gigantesco e suggestivo ostacolo alla vita. Solo con la forza dello humour da middle-class americana di Damon-Watney e con il pragmatismo della Nasa (collaboratrice e sponsor del film) il racconto regge per la sua lunga durata, avvince e infine porta all’immedesimazione con il protagonista. E pur trattandosi questi, ancora una volta, di un Matt Damon da salvare (Salvate il soldato Ryan) per il bene dell’America e del mondo, lo script spinge il minimo indispensabile sul pedale di un enfatico patriottismo; scegliendo anzi, con un’inattesa svolta narrativa, di ridimensionare il ruolo statunitense di superpotenza infallibile. Il futuro non è mai parso più verosimile di così, divaricando ulteriormente le due storiche branche della fantascienza: da un lato una space opera sempre più assetata di effetti speciali e meraviglie, dall’altro la controparte pseudo-scientifica, con i piedi ben piantati per terra, nonostante gli occhi osservino il cielo. Con buona pace di chi cerca una sua personale terza via, come il Nolan di Interstellar. Resta da domandarsi, visto il palesato intento di promozione a un rilancio dei viaggi aerospaziali della Nasa, se si tratti di uno spot centrato o controproducente. Proprio in virtù della stretta aderenza ai fatti di The Martian, infatti, Marte come meta non è mai parsa meno allettante di così. Omini verdi malvagi con i laser compresi.
Nel 1993 in Somalia comanda l’orrido Aidid che letteralmente fa morire di fame il popolo sottraendo gli aiuti umanitari occidentali. Gli Americani decidono di catturare alcuni complici del signore della guerra. Al blitz partecipano i soliti reparti speciali: Rangers, Delta Force eccetera. Sulla carta l’operazione è perfetta, ma nella realtà ben presto il controllo viene perso. L'”imprevisto” è l’abbattimento di un elicottero (il senso del titolo) proprio in una piazza di Mogadiscio. Da quel momento il film diventa una battaglia più realista di una battaglia vera. Il famoso sbarco a Omaha di Spielberg nel Soldato Ryan rispetto all’ “incidente di Mogadiscio” è quasi una gita. Lo sbarco durava diciannove minuti, qui ci sono due ore buone di spari. Certo, sembra davvero un videogame di guerra. Strategia sulla strada, dall’alto coi video, dallo stato maggiore. E poi sangue, sangue e ancora sangue. E poi troppe storie: sono una ventina i soldati che vengono tallonati dal regista. Quasi non c’è il tempo di conoscerli. Era meglio lo Scott di Thelma& Louise, anche se il regista, e la verità del film, meritano riguardo.
Jean de Carrouges e Jacques Le Gris sono eterni rivali. Scudieri normanni con alterne fortune, affrontano la vita come il campo di battaglia. Jean de Carrouges crede nella spada e nell’onore, Jacques Le Gris nell’astuzia e nella fedeltà a chi fa i suoi interessi. Se il primo è abile sul campo, il secondo è scaltro a corte dove si guadagna la simpatia e la protezione di Pierre d’Alençon, conte e cugino del re Carlo VI. Ma più della competizione per i feudi può la bellezza di Marguerite de Thibouville. Sposa con dote di de Carrouges, Marguerite diventa l’ossessione di Le Gris, che approfitta dell’assenza del rivale per rivelarle tutta la meschinità dei suoi sentimenti.
Harlem, 1968. Frank Lucas, gangster nero e “ricercato”, ama la famiglia, prega in chiesa e fa la guardia a Bumpy Johnson, un “padrino” che accoglie le suppliche di Harlem e distribuisce tacchini il Giorno del Ringraziamento. Richie Roberts, detective ebreo e incorruttibile della contea di Essex, sta divorziando dalla moglie, ha dimenticato di dire le preghiere e dà la caccia ai malavitosi e ai distributori di tacchini. Alla morte di Johnson, Lucas, più moderno e manageriale del vecchio padrino, subentra nelle sue attività, elimina gli avversari e diventa in pochi anni un potente boss della droga. Scavalcando le famiglie mafiose e rifornendosi di eroina direttamente nel sud-est asiatico, Lucas accumula una fortuna e attira l’attenzione di Richie Roberts. I loro percorsi, opposti e paralleli, si incontreranno sotto il ring del match del secolo: Alì-Frazier. Soltanto uno resterà in piedi, vincendo ai punti.
È la storia di un duello che, continuamente interrotto per ragioni diverse, dura quindici anni. I duellanti sono due ufficiali francesi degli Ussari dell’epoca napoleonica, ossessionati da una assurda rivalità. Da un racconto (1908) di J. Conrad, un film di raffinata eleganza figurativa. I 2 attori americani iniettano una carica di selvaggia energia in una confezione britannica fin troppo agghindata. 1° lungometraggio di R. Scott, regista pubblicitario come il fratello Tony.
Eroiche peripezie di Maximus, generale romano di origine ispanica. Quando Commodo (161-192), succeduto al padre Marco Aurelio (121-180), lo arresta e gli fa massacrare la moglie e il figlio, diventa schiavo e poi gladiatore, idolo della folla, finché nel Colosseo combatte contro l’imperatore. Al di là dei costi (107 milioni di dollari, riprese a Malta, in Marocco, la foresta di Bourne Woods in Inghilterra), del dispiego di effetti speciali computerizzati e del can-can plurimediatico, il megafilm della Dreamworks (Spielberg & Co.) è una parabola fantastorica sulla società dello spettacolo e sull’uso dello spettacolo che il potere _ tutti i poteri, anche religiosi _ ha fatto per suggestionare e dominare le masse. La sua inattendibilità storica è esplicita ed esibita nei personaggi, nelle scene, nei costumi: nell’itinerario di Scott si collega, nel bene e nel male, a Blade Runner e Alien. Altrettanto espliciti sono i suoi meriti (l’interpretazione del poliedrico neozelandese Crowe; la furente battaglia iniziale, cioè l’ordine del dominio contro il caos della ribellione; i combattimenti nel circo dove eccelle il talento di Pietro Scalìa al montaggio) e i suoi demeriti (anacronismi, scritte latine sbagliate, banalità nella sceneggiatura di David H. Franzoni e soci). Critica divisa: trionfo spettacolare del postmoderno o finto cinema che punta al solleticamento del nervo ottico? 5 Oscar: miglior film, Crowe, costumi, effetti speciali e suono.
Chi ha voluto leggere nella vicenda umana di queste due ragazze di provincia una mera fiaba didascalica sul femminismo si perde il microcosmo racchiuso nei…continui giochi di rimando di significati creato dall’armonia del compenso tra la spigolosità del volto della Sarandon e quello da bambola della Davis.E così nei loro nomi, spesso ipostatizzati nella forza fagocitatrice di un titolo che suggerisce la smania di un brand o di un marchio di sigarette, vi è la fragilità disperata con cui le due ragazze abdicano allo stillicidio quotidiano per risorgere in un anomico non luogo dei ruoli sociali, che le accompagnerà per tutta la loro corsa fino al Gran Canyon. In realtà, la tensione dell’intera pellicola, è una spinta continua sul pedale dell’emancipazione delle due protagoniste. La risata degli ultimi fotogrammi, immortalata nell’immaginario collettivo delle generazioni cinematografiche a venire, non è follia, né un cedimento momentaneo e irreversibile all’emotività, ma la più alta affermazione di dignità e libertà. Scelgono di non esserci più per esserci per sempre: il fotogramma finale dell’auto sospesa nel dirupo è metafora dell’ellisse di una fine che coincide con un inizio. Gli sguardi complici non indicano nulla di improvvisato, anche se lo spettatore viene colto di sorpresa a perpetrare la sua incredulità: perché l’auto di Thelma & Louise, se anche fosse in nostro potere proiettare degli ideali fotogrammi successivi, sul fondo del dirupo del Gran Canyon, non ci arriverà mai. Pellicola di un eccellente Ridley Scott che trascende qualsiasi genere, pur possedendo uno scheletro western, con la scenografia di uno sterminato Arkansas a fare da sfondo, e più che mai attuale e paradigmatico in una generazione in cui la violenza e l’eccidio femminile appare tutt’altro che sopito dai resoconti della cronaca nera. Il viaggio tutto interiore che le trasporta dall’Arkansas all’Oklaoma, fino al Colorado, con la scelta irreversibile dell’omicidio dell’uomo, ne rivela la fragilità ma anche l’incapacità di rapportarsi a un universo maschile assolutista e prepotente, palesandone la mancata educazione alla necessità di una complementarietà dei ruoli sessuali (ti elimino perché sei un ostacolo, perché ti reputo distruttivo ma anche insormontabile all’impellente e disperante necessità di affermazione del mio Io; ti ammazzo poiché la stessa dimensione collettiva del momento storico non contempla una tale chance di scambio dialettico ed edificante; ti uccido perché è tutto ciò che mi resta per dimostrarti e dimostrarmi che non sei il più forte).
Mike Keegan è un poliziotto che vive nel quartiere a rischio di Queens con la moglie e il figlio che ama. Un giorno viene incaricato di proteggere Claire Gregory, una bella appartenente alla upper class. Costei è stata minacciata da un criminale che ha compiuto un omicidio di cui la donna è stata testimone. Progressivamente Mike se ne innamora anche se finisce inconsapevolmente per metterla in pericolo. Ma in grave pericolo è anche la sua situazione familiare.
Per guadagnare tanto e molto in fretta, avvocato texano entra in affari con i narcos messicani. Vorrebbe fare una rapida transazione, intascare e chiuderla, ma non ha previsto che ignoti rubino il carico, e il potente e spietato boss Reiner non ha intenzione di lasciarlo andare. Scritto dall’80enne Cormac McCarthy, narratore influenzato da Saul Bellow e qui anche produttore, è un film in cui il pessimismo prevale: fallibili, inutili, malvagi, innocenti, sono tutti vittime della storia di cui sono i principali artefici. “C’è così poco cinema in The Counselor da generare una paradossale purezza espressiva… Scott trova una limpidezza di sguardo mai posseduta…” (Roberto Manassero).
Nick (arcigno agente di polizia newyorkese intepretato da Michael Douglas) viene coinvolto insieme al giovane collega Charlie (Andy Garcia) in un caso più grande di lui. Dagli States l’azione si sposta in Giappone ad Osaka, per indagare sulla mafia locale nota come Yakuza. Nonostante la frizione tra i metodi nipponici e dei due yankee, la sinergia darà i suoi frutti. Ma Osaka non è New York. Tra tutti i moderni maestri del cinema, Ridley Scott è sicuramente il più discontinuo. Sarà forse per compensare l’enorme peso specifico di alcune pietre miliari come Blade Runner – citato non a caso come vedremo – ma il regista inglese formatosi sui set degli spot televisivi, ama spesso rilassarsi con film disimpegnati. È il caso di questo poliziesco in cui il regista rispolvera dal baule il suo debole per il mondo nipponico confessato nel suddetto film. Sono numerose le sequenze in cui il ricordo latente della futuristica Los Angeles giapponese trova compiacenti autocitazioni. Nelle insegne pubblicitarie, nelle luci al neon, nell’etereo crepuscolo, e addirittura in sequenze palesemente narcisistiche, in cui l’affamato Douglas reincarna Harrison Ford nell’impacciato uso di bachette e scodellina. Ma la condizione meticcia è ribaltata: è il Giappone che si è “contaminato” di Occidente, la pioggia sporca appunto. La mano del miglior Scott risalta nella fotografia – splendida la luce mattutina in apertura – nell’azione e nel dinamismo. Ma la trama, un po’ ballerina nel suo sviluppo, non lascia tracce indelebili nella sua filmografia. Sparatorie magiche che causano esplosioni atomiche di autovetture, fughe rocambolesche in moto, gli ingredienti dei plasticosi action movie anni Ottanta ci sono tutti. Ricco di nomi importanti il contributo musicale: colonna sonora di Hans Zimmer (da qui in poi inseparabile braccio destro) prodotta da David Paich, impreziosita da nomi illustri come Iggy Pop. Ben assortita la coppia Douglas-Garcia. Ma lo Scott migliore viaggia su ben altri binari.
Raised by Wolves – Una nuova umanità (Raised by Wolves) è una serie televisivastatunitense di fantascienza, creata da Aaron Guzikowski che ha debuttato su HBO Max il 3 settembre 2020.I primi due episodi sono stati diretti da Ridley Scott, che è anche uno dei produttori esecutivi della serie.
Nel XXII secolo, due androidi (Madre e Padre), in fuga con degli embrioni dalla Terra devastata dalla guerra, hanno il compito di crescere bambini umani in un misterioso pianeta (Kepler-22 b). Dopo alcuni anni, solo uno dei bimbi sopravvive e si scopre che sul pianeta sono presenti altri terrestri, anch’essi fuggiti.
È un colosso storico a programma, tradito dal banale, scorretto titolo italiano e indicato da quello originale che, nel frasario del catechismo italiano, corrisponde a Regno dei Cieli. L’azione comincia nel 1184, alla fine di quel breve periodo di pace tra la II crociata (1147-49) e la III (1189-92), dovuto alla politica conciliante tra il sovrano cristiano Baldovino IV il Lebbroso e il sultano Saladino. Tipico personaggio del cinema di R. Scott (anche produttore), il protagonista è il fabbro francese e vedovo Baliano, figlio bastardo del nobile Godfrey di Ibelin e da lui promosso cavaliere. Nella sua bottega c’è una scritta: “Che uomo è un uomo che non rende il mondo migliore?”. Segue il padre verso Gerusalemme, obbedendo ai suoi insegnamenti: essere intrepido col nemico, dire sempre la verità, proteggere gli indifesi. In Terra Santa, pur facendo carriera col suo valore, non riesce a migliorare il mondo a causa dei fanatici estremisti delle due fazioni che vogliono lo sterminio del nemico al grido di “Dio lo vuole!”. Che i guerrafondai cristiani siano i Templari è probabilmente il solo grave errore storico di un film “politicamente corretto” nel miglior senso dell’abusata locuzione, che però rimane un’allusiva denuncia della politica della Casa Bianca e del Pentagono ai tempi di Bush, padre e figlio (che nel 2001 definì new crusade la guerra al terrorismo). Del film un musicista francese direbbe: lente mais allant avec une grande rigueur de rythme . Personaggi in altorilievo. Scritto da William Monahan, girato in Spagna e Marocco. Scene: Arthur Max ( Il gladiatore ); costumi: Janty Yates; fotografia: John Mathieson.
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