Il film racconta la storia di coppie sposate e frustate da partner noiosi, figli viziati e vite prevedibili, che il giorno sembrano famiglie perfette mentre nella notte sono tutt’altro. Sarah è una madre sposata con un marito, Richard, ossessionato con il porno su internet. Todd è un padre casalingo sposato con Kathie, documentarista fissata dal voler fargli riprendere la carriera legale. Mary Ann è una supermamma organizzata con una figlia di 4 anni già con il futuro destinato ad Harvard. E infine Ronnie, un pedofilo uscito dalla prigione che fa ritorno a casa. In questo clima di famiglie disfunzionali, Sarah e Todd iniziano una storia che li riporta all’età dell’adolescenza, in quel periodo di libertà tra le responsabilità dell’infanzia e quelle di essere genitori.
Joel e Clementine sono una coppia molto innamorata. Un giorno però, la ragazza, stanca della sua relazione ormai in fase di declino, decide, mediante un esperimento scientifico, di farsi asportare dalla mente la parte relativa alla storia con Joel. Il giovane, una volta venuto a conoscenza di questo fatto, sceglie di fare altrettanto ma durante il procedimento cambia idea. Il regista Gondry, si avvale del geniale sceneggiatore Charlie Kaufman (Essere John Malkovich – Il Ladro Di Orchidee) per dare vita ad un’opera originale, dal sapore dolce-amaro. Il film del creatore di Human Nature però, nonostante sia particolarmente coinvolgente, delude le aspettative, a causa della sua esposizione narrativa frammentata che al contrario di molte altre pellicole montate con lo stesso stile, confonde lo spettatore, lasciandolo perplesso anche quando al termine del film si arriva alla comprensione globale. Inoltre, per alcuni risvolti della trama, quest’opera ricorda fortemente il thriller Vanilla Sky, remake dello strepitoso Apri Gli Occhi di Alejandro Amenabar.
Una malattia per molti versi simile all’influenza suina ma capace di svilupparsi anche per contatto con estrema rapidità sta colpendo il mondo. La comunità medica mondiale si trova in breve tempo a dover affrontare la ricerca di una cura e il controllo del panico che si diffonde progressivamente ovunque. Le persone reagiscono in modo diverso e a seconda della responsabilità che è stata loro attribuita o che si sono autonomamente conferita. Se un alieno fosse messo dinanzi a Ocean’s Eleven, Full Frontal e Il Che quasi sicuramente non direbbe che sono frutto del talento dello stesso regista. Perché uno dei grandi pregi di Steven Soderbergh (anche quando, come in questo caso, lavora su commissione) è quello di continuare a sperimentare sia sul piano della sceneggiatura che su quello linguistico cinematografico.
Scritto da Charles Wood col regista e tratto dai libri Elegia per Iris (1999) e Iris and Her Friends di John Bayley. A mezza strada tra la biografia e il romanzo, è la storia della scrittrice anglo-irlandese Iris Murdoch (1919-1999), e del suo matrimonio col critico letterario John Bayley (1925), da lei sposato nel 1956. Colpita dal morbo di Alzheimer nel 1997, morì due anni dopo, amorevolmente assistita dal marito. Nel cinema come in letteratura, è assai difficile raccontare la storia di un amore coniugale di lunga durata. Eyre ci riesce per via di sintesi, privilegiando due momenti, l’inizio e la fine del rapporto, affidandoli a due coppie di interpreti e alternando (come in Elegia per Iris ) il presente col passato senza soluzione di continuità. L’ottica è quella del marito, sul filo della memoria, con una sola e poetica eccezione. Amare significa anche gustare il sapore della solitudine, necessaria per incontrare e capire l’altro – gli altri – con dolcezza e tolleranza. Perfetto il quartetto degli interpreti principali. Broadbent (Bayley anziano) premiato con l’Oscar di non protagonista, ma memorabile anche la coppia Winslet-Dench che si alternano come Iris. Notevole, anche nella scelta delle canzoni, il contributo delle musiche di James Horner, eseguite con uno Stradivari dal violinista Joshua Bell. Efebo d’oro 2002.
Autopsia di un matrimonio USA, dal 1° romanzo (1961) di Richard Yates, diventato un long-seller, adattato da Justin Haythe e diretto dal britannico Mendes che, 11 anni dopo Titanic , riunisce i suoi 2 romantici protagonisti, ormai diventati divi. 1955. April e Frank Wheeler abitano in una via, dedicata alla rivoluzione del 1776, di una cittadina del Wisconsin. Lei, madre di due bambini, è un’attrice fallita; lui ha un impiego qualsiasi che ritiene indegno della sua cultura. Si considerano superiori al conformismo della middle class cui appartengono e sognano di andare a Parigi per cominciare una nuova vita. L’ironia satirica di American Beauty (1999), grande successo di Mendes, lascia il posto alla freddezza di una dissezione. Là c’era un retrogusto di amarezza, qui prevalgono un senso di desolazione e un sapore di cenere, nonostante le apparenze di commedia e l’eleganza un po’ inamidata della scrittura. Fotografia: Roger Deakins, inglese. Un po’ frenato, Di Caprio aderisce bene al suo indifendibile Frank, ma ancora meglio fa la Winslet con la duplice April.
1951. Myrtle ‘Tilly’ Dunnage ha lavorato per i più grandi atelier europei dell’alta moda. Dopo 20 anni di assenza torna a casa, in un polveroso paesino del deserto australiano. “Sono tornata, bastardi!” dice appena scesa dal bus. Si presenta davanti alla porta della madre mezza matta con in mano una Singer, portata elegantemente come fosse una borsetta firmata. Oltre alla preziosa macchina da cucire, a sete e piume, Tilly porta con sé un bagaglio di provocazione, rivalsa, rancore e fantasmi maledetti. Tratto dall’omonimo romanzo di Rosalie Ham, anche sceneggiatrice, il film ha elementi deliziosi e frangenti irritanti: la sceneggiatura un po’ frivola, un po’ seriosa non tesse a dovere la trama che lega storia e personaggi; sono imbastite male l’intonazione di una bizzarra, scompigliata commedia thriller con la tensione di un insolito dramma con personaggi ammiccanti a Shakespeare. Bene la Winslet, straripante simpatia, fascino e sessappiglio.
Musical proletario imperniato su Nick Murder, operaio siderurgico di New York, quartiere Queens, che tradisce Kitty, madre delle sue tre figlie, con Tula, fulva commessa di facili costumi, finché capisce che, benché sessualmente appagante, una relazione extraconiugale non può sostituire la famiglia e l’amore che, nonostante tutto, prova per la moglie. Scritto e diretto da J. Turturro alla 3ª regia, è il film più cattolico e, nella 1ª parte, più becero tra quelli in concorso a Venezia 2005, nutrito dai dialoghi più spiritosi e scurrili mai usciti da Hollywood. Sa essere sentimentale e insolente, delicato e sciamannato, sottile e sghignazzante. Nel suo temerario miscuglio di comicità, tragedia, amore, sesso, pathos, poesia, canzoni e balletti può respingere o irritare gli spettatori bennati, ma è così ricco di invenzioni registiche da rifornire dieci commedie hollywoodiane dell’ultimo decennio. Attori strepitosi, anche K. Winslet in controparte, che cantano con le voci di Janis Joplin, Tom Jones, Connie Francis, Bruce Springsteen, Ute Lemper, Anna Identici, tranne il duetto Sarandon/Gandolfini che intona “The Girl That I Marry” di I. Berlin. Prodotto da Joel ed Ethan Coen. Non distribuito, o quasi, negli USA.
Una banda formata da ex militari e poliziotti corrotti è al soldo della mafia russo-ebraica (la “Mafia Kosher”) che opera ad Atlanta. Vogliono chiamarsi fuori dai giochi sporchi ma, costretti a compiere un’ultima, impossibile rapina, arrivano a usare come diversivo il “codice 999”, quello che segnala a tutte le forze dell’ordine la morte di un poliziotto. Indaga un poliziotto il cui nipote è appena diventato partner di un poliziotto doppiogiochista. Scritto da Mark Cook, è un efficace film di genere, un thriller cupissimo di violenza aspra e suspense tenebrosa. Il ritmo è serrato e il cast di ottimi attori sonda anime e movenze dei personaggi. Convincente la Winslet nel ruolo della impeccabile boss della mafia russa.
Henry come tutti i ragazzini di 13 anni, passa tutto il tempo davanti alla tv o con un libro in mano. Henry vive nella cittadina di Holton Mills, New Hampshire, insieme a sua madre Adele. La sua vita cambia quando Henry si imbatte in uno sconosciuto con i pantaloni macchiati di sangue. Henry porta lo sconosciuto dalla madre, che nel frattempo stava facendo acquisti, e gli chiede di ospitarlo in casa. Senza esitare Adele accetta, e vivono insieme nei giorni seguenti pacificamente, mentre fuori casa, c’è una caccia contro quest’uomo.
Il film, presentato a Venezia nel 1998 e scritto da Jane Campion in collaborazione con sua sorella Anna, racconta una storia di grandi passioni. Ruth (Kate Winslet) è una bella ragazza australiana che si reca in India alla ricerca di una nuova spiritualità. Quando la famiglia viene a sapere che Ruth viene plagiata da un Guru del posto, preoccupata, decide di affidare a P. J. (Harvey Keitel), consulente spirituale, il compito di riportare a casa la ragazza. Giunto in India, P. J. rimarrà incantato da Ruth e dalla sua sensualità e, se da un lato riuscirà a liberare la giovane dal plagio spirituale del santone, dall’altro non riuscirà a liberare se stesso dal grande potere seduttivo che Ruth esercita su di lui. Film intenso, ben girato, ben recitato.
Nel 1958 in una città tedesca il 15enne Michael Berg è iniziato ai piaceri del sesso dalla 30enne Hanna Schmitz, bigliettaia di tram. Negli intervalli del loro focoso rapporto, su richiesta di lei, lui le legge a voce alta Omero, Orazio, Twain, Cechov. Un giorno Hanna scompare senza preavviso. 8 anni dopo Michael, studente di legge, assiste al processo di 5 guardiane delle SS che lasciarono bruciare vive 300 ebree rinchiuse in una chiesa. Una delle imputate è Hanna. Dal romanzo autobiografico Der Vorleser (1995 – in italiano A voce alta ) di Bernhard Schlink, tradotto in 40 lingue, adattato dal drammaturgo David Hare (inglese come Daldry, la Winslet, Fiennes, il produttore Minghella, i direttori della fotografia Chris Menges e Roger Deakins), è uscito un film che comincia e termina nel 1995 con l’azione in cinque tappe dal 1958 al 1988. Secondo Daldry sono stati realizzati 252 film sulla Shoah. Bene nella parte la Winslet poi irrigidita nel trucco che la invecchia, meritatamente premiata con l’Oscar. Ottimo Kross, monocorde Fiennes. Girato in Germania con troupe tedesca. Dedicato alla memoria dei produttori Anthony Minghella e Sidney Pollack, morti nella primavera del 2008 senza aver visto il film finito.
Il Titanic impiegò 2 ore e 40 minuti per colare a picco dopo la collisione con un iceberg nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912. Il canadese Cameron ha rievocato la tragedia in 3 ore e 14 minuti di cui poco più di un’ora riguarda l’affondamento. Il resto racconta il prima e il poi, con un prologo nel regno dei morti, a 4000 metri di profondità oceanica nel 1996 e un epilogo zuccheroso in paradiso, entrambi di carattere onirico, ma in modo diverso. È una storia d’amore tra il proletario Jack e l’aristocratica Rose sotto il segno della morte, un fiammeggiante melodramma romantico che si spegne nelle acque gelide dell’Atlantico. Cineasta dai codici filmici forti, Cameron vi fonde il melodramma, il catastrofico e l’epico nel contesto della rigorosa cronaca di una tragedia colposa, indicando gli errori tecnici, le responsabilità umane, le smanie da prima pagina, le viltà, la divisione in classi. Si presta così a molti percorsi interpretativi: il politico, il sociale, lo storico, il simbolico, il filmico, il metacinematografico, il tecnologico. Come e più che nei film precedenti del regista, gli effetti speciali sono al servizio della storia e dei personaggi: un mezzo e non un fine. È il film dei primati: per i 200 milioni di dollari di costo (ma meno di Cleopatra , 1963); per il sovraccosto (60-70 milioni più del preventivo); per gli incassi (i più alti in senso assoluto, ma al 22° posto in termini relativi, cioè in numero di spettatori); per gli 11 Oscar (eguagliando Ben Hur): film, regia, fotografia (Russell Carpenter), scene (Peter Lamont, Michael Ford), costumi (Deborah Lynn Scott), montaggio, musiche (James Horner), suono, effetti sonori, effetti speciali visivi, canzone (“My Heart Will Go on”, cantata da Céline Dion). K. Winslet doppiata da Chiara Colizzi, L. DiCaprio da Francesco Pezzulli. Al film lavorarono più persone di quante ne furono imbarcate nel 1912 sulla nave.
Mildred Pierce è mamma, moglie e casalinga nell’America della Grande Depressione. Tradita e abbandonata dal marito, tra una torta e l’altra cerca lavoro a Los Angeles per garantire futuro e privilegi alle sue bambine, Ray e Veda. Assunta come cameriera in una tavola calda, Mildred rivela presto il suo talento di cuoca e pasticcera, che mette in pratica aprendo un ristorante. Rialzata la testa ma segnata da un lutto profondo, Mildred prende letteralmente in mano il suo futuro e quello di Veda, musicalmente dotata e in evidente conflitto con lei. Tra una mamma indefessa e una figlia insidiosa si insinua Monty Beragorn, giocatore di polo ricco e viziato che pratica il dolce far niente. Ambientato negli anni Trenta e nell’America in crisi del repubblicano Herbert Hoover, Mildred Pierce è un (melo)dramma in cinque atti prodotto dalla HBO e magnificamente diretto da Todd Haynes. Mildred Pierce, come Lontano dal paradiso nove anni prima, mostra un’ossessiva fedeltà formale nei confronti di un genere che viene nondimeno attualizzato e modificato.
David Gale è un professore che, nel Texas che pratica con convinzione la pena di morte, si oppone come leader di un movimento di protesta che dà fastidio al potere. Un giorno però viene incastrato da una studentessa che gli si offre per un rapporto sessuale e poi lo accusa di stupro. Da quel momento la sua vita è in caduta libera: la moglie lo abbandona portandosi via il figlio e perde il lavoro. Tutto questo viene raccontato a una zelante giornalista che lo intervista nel braccio della morte. Perché Gale è stato condannato per l’omicidio della sua collaboratrice Constance e attende che l’esecuzione abbia luogo. La giornalista vorrebbe poterlo salvare. Non bisogna raccontare di più di questo film di un Alan Parker che si affida a una struttura narrativa macchinosa per mutare lo stereotipo del film di impegno sociale che si mescola al thriller. Gli si può dare atto che riesce a farsi seguire ma la sorpresa finale è così spiazzante che finisce col trasformare il film in un pamphlet a favore della sentenza capitale. Viene da dire che se gli abolizionisti sono così ‘malati’ forse, forse…Non crediamo sia l’esito che il regista si attendeva.