Chuck Barris è uno dei piu’ noti creatori di programmi e conduttori che la televisione americana ricordi. Negli anni Sessanta era al vertice degli ascolti. In una sua recente biografia ha dichiarato di esser stato anche una spia della Cia e di avere ucciso 33 persone. E’ da questa doppia personalita’ che George Clooney prende il soggetto per il suo primo film da regista. Barris si carica di omicidi di qui ovviamente non c’è prova e questo spinge Clooney a mantenere un doppio registro: quanto e’ “reale” e quanto sta invece nella mente mitomane dell’uomo di spettacolo? Mescolando i generi e le memorie (l’immagine che gli americani avevano del resto del mondo negli anni Sessanta) cinematografiche e non Clooney diverte ma al contempo fa riflettere sul formarsi di una personalita’ dissociata in un periodo storico in cui il nemico e’ lontano e misterioso come fu il tempo della guerra fredda. Da non perdere la scena dello strangolamento in auto con gli sci ai piedi. E’ nato un nuovo regista consapevole dei propri mezzi. Ha forse bisogno di frenare un po’ l’eccesso di idee ma e’ gia’ sulla buona strada.
La storia vera dell’austriaco Heinrich Harrer (1912-2006), tratta dalla sua autobiografia: alpinista, campione di sci, attore, arruolato nelle SS, conquistatore della parete Nord dell’Eiger nel 1938, mancato scalatore nel 1939 del Nanga Parbat, uno degli 8000 della catena himalayana. Prigioniero degli inglesi, evade dal campo di prigionia nel 1942 con un compagno. Giunto a Lhasa, città proibita del Tibet, diventa amico di un Dalai Lama adolescente, cinefilo e curioso dell’Occidente. Colossal alla “National Geographic” di grandiosità vacua senza brividi né vere emozioni in linea con la moda del buddismo tibetano, le velleità spiritualeggianti e New Age di fine millennio care agli intellettuali mezze calze della cultura euroamericana che si proclamano atei ma spiritualisti, riducendo il buddismo al suo afflato pacifista e alla compassione universale. La conversione di Harrer (il bel B. Pitt) da nazista egoista, spavaldo e muscolare ad adulto mite e buono è enunciata senza sfumature, ma non raccontata. Sfilacciato, prolisso e un po’ tedioso anche nelle sue parti semidocumentaristiche nell’esotismo quotidiano di Lhasa. Scritto da Becky Johnston.
Un viaggio che si trasforma in incubo per un giornalista e una fotografa diretti a Pittsburgh. I guai comunque se li vanno a cercare. Pur di aver successo con un libro sui serial killer, i due vanno alla ricerca dei luoghi dei delitti. Quindi danno un passaggio a una coppia stile Bonnie & Clyde. I due non hanno nessun tipo di morale, lui violento e lei incapace di intendere e di volere. Il film non cerca di dare una ragione alla furia distruttiva del personaggio interpretato da Brad Pitt. Teso, molto violento e con un ritmo all’altezza del tema. Molto bravi tutti gli attori. Pitt, già autostoppista in Thelma e Louise, e la Lewis si confermano due grandi promesse del cinema hollywoodiano.
Sette i peccati capitali, sette gli omicidi che uno psicopatico programma, corredati da torture efferate. Comincia con la gola e l’avarizia, continua con l’accidia. L’ultimo è la lussuria, ma l’intervento di due investigatori, uno anziano e nero, l’altro giovane e bianco, lo obbliga a modificare il piano. Tra i tanti meriti della sceneggiatura di Andrew Kevin Walker c’è anche quello di aver modificato gli stereotipi della coppia bianco-nero approfondendo i personaggi a livello psicologico e legandoli ai temi principali del film: la presenza del Male nel mondo e l’indifferenza di fronte alla caduta dei valori. Un film dal taglio espressionista (fotografia di Darius Khondji; musica di Howard Shore), ambientato in una città senza nome, ricco di citazioni letterarie che ne sono la minacciosa struttura e senza una scena di violenza, di cui sono visibili soltanto le conseguenze. Un bel cast in cui si distingue K. Spacey nel tragico epilogo.
Picchiarsi per stare meglio: questo l’assunto del film. Dopo il successo, in parte inaspettato, di Seven, Fincher ripercorre e perfeziona la violenza. Pitt è semplicemente il diavolo: forte, astuto, bello e violento. Norton ne rimane sedotto. Nota di costume sulla pratica di scaricamento delle tensioni con scarico di pugni. Machismo imperante. Suggestioni da palestra di pugilato. Ideologia atta a suscitare polemiche. Ben diretto e ben interpretato.
Chi ha voluto leggere nella vicenda umana di queste due ragazze di provincia una mera fiaba didascalica sul femminismo si perde il microcosmo racchiuso nei…continui giochi di rimando di significati creato dall’armonia del compenso tra la spigolosità del volto della Sarandon e quello da bambola della Davis.E così nei loro nomi, spesso ipostatizzati nella forza fagocitatrice di un titolo che suggerisce la smania di un brand o di un marchio di sigarette, vi è la fragilità disperata con cui le due ragazze abdicano allo stillicidio quotidiano per risorgere in un anomico non luogo dei ruoli sociali, che le accompagnerà per tutta la loro corsa fino al Gran Canyon. In realtà, la tensione dell’intera pellicola, è una spinta continua sul pedale dell’emancipazione delle due protagoniste. La risata degli ultimi fotogrammi, immortalata nell’immaginario collettivo delle generazioni cinematografiche a venire, non è follia, né un cedimento momentaneo e irreversibile all’emotività, ma la più alta affermazione di dignità e libertà. Scelgono di non esserci più per esserci per sempre: il fotogramma finale dell’auto sospesa nel dirupo è metafora dell’ellisse di una fine che coincide con un inizio. Gli sguardi complici non indicano nulla di improvvisato, anche se lo spettatore viene colto di sorpresa a perpetrare la sua incredulità: perché l’auto di Thelma & Louise, se anche fosse in nostro potere proiettare degli ideali fotogrammi successivi, sul fondo del dirupo del Gran Canyon, non ci arriverà mai. Pellicola di un eccellente Ridley Scott che trascende qualsiasi genere, pur possedendo uno scheletro western, con la scenografia di uno sterminato Arkansas a fare da sfondo, e più che mai attuale e paradigmatico in una generazione in cui la violenza e l’eccidio femminile appare tutt’altro che sopito dai resoconti della cronaca nera. Il viaggio tutto interiore che le trasporta dall’Arkansas all’Oklaoma, fino al Colorado, con la scelta irreversibile dell’omicidio dell’uomo, ne rivela la fragilità ma anche l’incapacità di rapportarsi a un universo maschile assolutista e prepotente, palesandone la mancata educazione alla necessità di una complementarietà dei ruoli sessuali (ti elimino perché sei un ostacolo, perché ti reputo distruttivo ma anche insormontabile all’impellente e disperante necessità di affermazione del mio Io; ti ammazzo poiché la stessa dimensione collettiva del momento storico non contempla una tale chance di scambio dialettico ed edificante; ti uccido perché è tutto ciò che mi resta per dimostrarti e dimostrarmi che non sei il più forte).
Los Angeles, 1969. Sharon Tate, promettente attrice americana e sposa di Roman Polanski, è la nuova vicina di Rick Dalton, star della televisione in declino. Dalton condivide la scena con Cliff Booth, stuntman che si è fatto (e rotto) le ossa nei western girati a Spahn Ranch. Controfigura e chauffeur di Dalton, Cliff vive in una roulotte con una cane disciplinato e fedele proprio come lui che da anni ammortizza le cadute e i rovesci dell’amico. E l’ultimo scacco costringe Rick e il suo doppio a traslocare dall’altra parte dell’oceano per girare un pugno di spaghetti-western. Sei mesi e una moglie (italiana) dopo, Rick e Cliff tornano a Los Angeles dove li attende la notte più calda del 1969.
Primo anno dell’occupazione tedesca in Francia. Il Colonnello delle SS Hans Landa, dopo un lungo e mellifluo interrogatorio, decima l’ultima famiglia ebrea sopravvissuta in una località di campagna. La giovane Shosanna riesce però a fuggire. Diventerà proprietaria di una sala cinematografica in cui confluirà un doppio tentativo di eliminare tutte le alte sfere del nazismo, Hitler compreso. Infatti, al piano messo in atto artigianalmente dalla ragazza se ne somma uno più complesso. Ad organizzarlo è un gruppo di ebrei americani guidati dal tenente Aldo Raine i quali non si fermano dinanzi a niente pur di far pagare ai nazisti le loro colpe. Quentin Tarantino colpisce ancora. La sua passione per il cinema di genere, unita al piacere di raccontare storie, lo porta a riscrivere la Storia ufficiale con un attentato a Hitler collocato nell’unico luogo in cui il regista americano può pensare si possa attuare una giustizia degna di questo nome: una sala cinematografica. È solo al cinema che i cattivi muiono quando devono e gli eroi si sacrificano o trionfano. È cinema puro quello che Tarantino porta sullo schermo, come biglietto da visita di Bastardi senza gloria nella prima mezzora. I tempi, i dialoghi, la tensione, l’ironia giocata sul versante delle lingue differenti (elemento che sarà il fil rouge di tutto il film) ne fanno un piccolo/grande gioiello i cui riferimenti vanno ampiamente al di là dei referenti classici dichiarati quali Sergio Leone e lo spaghetti western. Il film nel suo complesso non manca di qualche momento statico che fa sentire il peso della sua lunga durata. Grazie però alla straordinaria prestazione di tutto il cast ma in particolare a quella di Christoph Waltz (attore austriaco semisconosciuto da noi a riprova che, al di là dei proclami sulla circolazione delle idee, conosciamo pochissimo del cinema europeo) e grande rivelazione di questo film, Tarantino conduce le danze rendendo omaggio a Enzo Castellari senza per questo avere la minima intenzione di realizzare un remake. Semmai resta, nello spettatore che ha amato il cinema di Ernst Lubitsch, il piacere di un soggetto che, in alcune sue parti, non può non far pensare a To Be Or Not To Be (tradotto in italiano in Vogliamo vivere ripreso poi da Mel Brooks). Là era il teatro a dominare, qui c’è un’attrice cinematografica a fare il doppio gioco e dei guerriglieri macho che si spacciano per poco credibili italiani in una sala cinematografica. Tarantino è forse l’unico regista contemporaneo capace di metabolizzare un universo cinematografico di cui si nutre costantemente (chi scrive lo ha visto applaudire calorosamente, confuso tra il pubblico della proiezione stampa, alla prima cannesiana di Looking for Eric di Ken Loach che fa un cinema distante anni luce dal suo). Lo metabolizza restituendocelo nuovo e assolutamente personale (si veda, tra i tanti e a titolo di esempio, il riferimento a Duello al sole). Perchè Tarantino ama il Cinema tout court (e non solamente, come tanti altri registi, il proprio cinema) ed è felice quando riesce a trasmettere questa sua passione. Anche in questa occasione la missione è compiuta.
Individui distanti tra loro migliaia di chilometri incrociano per qualche ora i loro destini sulla Terra, creando un disperato affresco di un’umanità sola e dolente. Il detonatore che innesca una reazione a catena in questo puzzle composto da tessere fin troppo perfettamente combacianti è il colpo di fucile partito dalle mani di due ragazzini in un paese sperduto del Marocco. Un gesto immotivato, compiuto quasi accidentalmente da due innocenti che, come in un domino, agisce profondamente sulle vite di tre gruppi di persone in diverse zone del pianeta: una coppia di americani lì in vacanza per risolvere una crisi coniugale, una domestica messicana alle prese con i figli dei due nel giorno del matrimonio di suo figlio, e un’adolescente giapponese, sordomuta ed emotivamente emarginata, alla disperata ricerca d’amore in una Tokyo caotica e alienante.
Dal primo volume di Vampire Chronicles di Anne Rice che ne ha curato l’adattamento. Storia di due vampiri americani di New Orleans cui s’aggiunge la piccola Claudia (Dunst): sono giovani, belli, omosessuali ma anche bisessuali o pedofili. Un’aura di maledettismo avvolge Lestat (Cruise), condannato da tre secoli a una giovinezza crudele e a un ininterrotto fiume di sangue. Dal 1791 gli è compagno il coetaneo Louis de Pointe de Lac (Pitt) che non sa e non vuole rinunciare a brandelli di umanità. È lui che nel 1991 fa a un giornalista il riepilogo di due secoli di peripezie e orrori. Prodotto di alto costo, realizzato con il concorso di un’agguerrita squadra di tecnici (scene: Dante Ferretti; fotografia: Philippe Rousselot; musica: Elliot Goldenthal), è l’8° film di Jordan: diseguale e ingorgato, troppo affastellato di temi e ossessioni, ora ripetitivo nella sua orgia di sangue e violenza, ora folgorante per ricchezza di invenzioni narrative e figurative, specialmente nel 2° tempo. La lunga sequenza del Théâtre des Vampires a Parigi è un colpo d’ala che trasporta nella sua dimensione fantastica di romanzo popolare un film inquinato da una sorta di malattia febbrile del sentimento poetico e drammatico. Meglio Pitt di Cruise, imposto dalla Rice. Generalmente apprezzato dalla critica europea più che da quella americana.
Da qualche parte nello spazio profondo, un campo elettrico scarica la sua forza alla velocità della luce e minaccia la sopravvivenza della Terra. L’origine viene presto identificata e il Maggiore Roy McBride incaricato della missione che dovrebbe liquidare il problema. Ma le cose non sono così semplici perché Roy, soldato decorato oltre i confini della Terra, è il figlio di Clifford McBride, pioniere dello spazio partito ventinove anni prima per cercare segni di vita su Nettuno. Arenata tra i suoi satelliti, la nave del padre è la causa delle scariche elettriche che colpiscono la Terra. Astronauta performante e figlio devoto, Roy è il cavallo di Troia per stanare Clifford. Un cavallo indomabile che cerca risposte all’abbandono e una via altra per tornare finalmente a casa.
A Hollywood, nel 1926, nel corso di un party scatenato si incontrano l’aspirante attrice Nellie e il messicano Manny, che lavora come aiutante presso la casa di produzione Keystone. Dopo la morte per overdose di un’attrice, Nellie, bellissima e senza freni, ha finalmente l’occasione di sfondare, mentre Manny, che fin da subito s’innamora di Nellie e la protegge dal suo stesso stile di vita forsennato, diventa amico della star in declino Jack Corran. Il passaggio dal muto al sonoro stravolgerà la città del cinema.
Sostituita versione h264 con h265 perchè i sottotitoli erano difettosi
Teheran, 1978: Marjane, otto anni, sogna di essere un profeta che salverà il mondo. Educata da genitori molto moderni e particolarmente legata a sua nonna, segue con trepidazione gli avvenimenti che porteranno alla Rivoluzione e provocheranno la caduta dello Scià. Con l’instaurazione della Repubblica islamica inizia il periodo dei “pasdaran” che controllano i comportamenti e i costumi dei cittadini. Marjane, che deve portare il velo, diventa rivoluzionaria. La guerra contro l’Iraq provoca bombardamenti, privazioni e la sparizione di parenti. La repressione interna diventa ogni giorno più dura e i genitori di Marjane decidono di mandarla a studiare in Austria per proteggerla. A Vienna, Marjane vive a 14 anni la sua seconda “rivoluzione”: l’adolescenza, la libertà, l’amore ma anche l’esilio, la solitudine, la diversità. Sono rari i film di animazione in grado di far percepire al pubblico le difficoltà dell’esistenza di chi li ha ideati. Spesso impegno in difesa dei diritti e qualità grafica non convivono. In questo caso il connubio è perfettamente riuscito. Marjane Satrapi è riuscita a trasformare i quattro volumi di fumetti in cui raccontava, con dolore e ironia, la propria crescita come donna in un Iran in repentina trasformazione e in un’Europa incapace di accogliere veramente il diverso, in un lungometraggio di animazione di qualità.
Ladybug è un agente di una misteriosa organizzazione, che gli affida incarichi oltre i confini della legalità. Non si considera un assassino: è solo colpa della sfortuna se la gente finisce per morire durante le sue imprese. Questa volta avrebbe un incarico facile facile: rubare una valigetta sullo Shinkansen, il “treno-proiettile” ad altissima velocità che collega Tokyo e Kyoto. Peccato che la valigetta sia sotto la custodia di una coppia di ciarlieri ma pure letali sicari: Lemon & Tangerine, ossia limone e mandarancio. I due hanno con loro anche il figlio della Morte Bianca, un boss criminale di origine russa che ha preso il controllo di una fazione della yakuza. Ma non è tutto: sul treno viaggia The Prince, una ragazzina solo apparentemente indifesa e con un piano machiavellico, che ricatta il giapponese Kimura perché lavori con lei. Inoltre sono della partita altri due assassini: Hornet, micidiale con i veleni, e Wolf, sicario messicano in cerca di vendetta.
Ispirato al cortometraggio La Jetée (1963) di Chris Marker, sceneggiato da David e Jane Peoples. Nel 2035 i sopravvissuti a un virus, che nel 1997 sterminò cinque miliardi di persone, vivono sottoterra, mentre la superficie del pianeta è popolata soltanto da animali. Per capire il come e il perché della catastrofe si spedisce indietro nel tempo (nel 1917 per sbaglio, nel 1990 e nel 1996) un ergastolano intelligente. Macchinoso e sbretellato sul piano narrativo, il 6° film di Gilliam (l’unico americano del gruppo Monty Python) vale su quello figurativo per certe fulminee invenzioni registiche, i desolati paesaggi metropolitani, l’energia recitativa di Willis, l’istrionismo schizoide di Pitt. Raro esempio di un titolo che indica una falsa pista.
Malick con questo documentario ritorna all’essenza del cinema e grazie alla sola potenza delle immagini stimola la riflessione rammemorante dello spettatore sull’esistenza umana e ne provoca lo stupore, con la stessa forza con cui quel treno dei Lumiere, all’inizio, destò la meraviglia del pubblico nel primo cinematografo.
Per guadagnare tanto e molto in fretta, avvocato texano entra in affari con i narcos messicani. Vorrebbe fare una rapida transazione, intascare e chiuderla, ma non ha previsto che ignoti rubino il carico, e il potente e spietato boss Reiner non ha intenzione di lasciarlo andare. Scritto dall’80enne Cormac McCarthy, narratore influenzato da Saul Bellow e qui anche produttore, è un film in cui il pessimismo prevale: fallibili, inutili, malvagi, innocenti, sono tutti vittime della storia di cui sono i principali artefici. “C’è così poco cinema in The Counselor da generare una paradossale purezza espressiva… Scott trova una limpidezza di sguardo mai posseduta…” (Roberto Manassero).
La commedia americana sta vivendo un buon periodo: dopo lo spassoso School Of Rock e il tuffo nel passato di Down With Love, il tandem Stiller /Homburg, già responsabile de Ti presento i miei e Zoolander ci riprova, aggiungendo alla formula magica un po’di sentimento ma, ahimè, togliendo quel gusto per il cinismo e la corrosione, che aveva caratterizzato i due titoli precedenti. Il risultato è un film breve, sfizioso, divertente, leggero e dimenticabile.
Gli Oakland Athletics sono una buona squadra di baseball che però non può competere con i budget stratosferici di squadre come ad esempio i New York Yankees. Quando al termine di una buona stagione il general manager Billy Beane si vede portar via i suoi tre migliori giocatori,la loro sostituzione diventa impossibile, soprattutto con i pochissimi soldi a disposizione. A questo punto però Beane incontra Peter Brand, giovane laureato in economia che gli dimostra come si possa costruire una squadra vincente basandosi sulle statistiche invece che sui nomi altisonanti. Beane abbraccia la filosofia del ragazzo e rifonda la squadra con nomi sconosciuti o apparenti scarti, lasciando basiti tutti i collaboratori degli Oakland Athletics, compreso l’allenatore Art Howe. All’inizio le cose non sembrano funzionare, ma pian piano il “sistema” messo in piedi da Beane Brand comincia a dare frutti insperati…
Da un romanzo di Lorenzo Carcaterra, sceneggiato dal regista che l’ha anche prodotto, il film, scomponibile in tre blocchi, racconta le peripezie di quattro ragazzi del quartiere di Hell’s Kitchen nel West Side di New York che, chiusi in riformatorio, subiscono un infame calvario di maltrattamenti e abusi sessuali. Una dozzina di anni dopo due di loro uccidono il più sadico degli aguzzini. Nel diseguale itinerario di Levinson c’è l’apprezzabile filone baltimoriano (dalla natia Baltimora): A cena con gli amici, Tin Men, Avalon e quello con ambizioni da Oscar dove si mette al servizio del divo di turno. Questo suo 12° film è tra i meno riusciti del secondo gruppo: verboso prolisso, oratorio, pur tra pagine felici nella prima parte. Peggiora il libro.
Le richieste di reupload di film deve essere fatto SOLO E ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.
Visto il poco spazio su Mega (2 terabyte) NON caricherò più serie tv e fumetti.
Se interessati a serie o fumetti contattatemi via email che vi spiego un metodo alternativo