Dal romanzo di Christopher Landon. Cirenaica 1942: un’ambulanza britannica con tre uomini e due ausiliarie cerca di raggiungere Alessandria d’Egitto tra campi di mine, pattuglie tedesche, sabbie mobili. Uno dei tre è una spia. I pezzi di bravura a suspense non mancano, con qualche eco di Vite vendute di Clouzot. Film robusto, ben ritmato, ma superficiale. Tra gli interpreti spicca A. Quayle. Intitolato anche Pattuglia disperata.
Da una storia di Lajos Biro e di Ernst Lubitsch. L’azione si svolge a due livelli. Nel 1928 a Hollywood una comparsa è identificata come il generale russo Sergio Alessandro, arciduca e cugino dello zar. Nel 1917 il generale è arrestato dai bolscevichi, ma scampa alla fucilazione grazie all’amore di una rivoluzionaria. Nel 1928 viene scelto da un regista suo compatriota, ex rivoluzionario, per la parte di un generale. 5° film americano muto di J. von Sternberg che, grazie al successo di Underworld (1927), può sfogare le sue ambizioni d’autore con un’operazione di grande prestigio, basata su temi e sentimenti con la maiuscola. Due film in uno con il meglio e il peggio del regista che ne cava un gonfio melodramma, non privo di sarcastica vitalità nella parte hollywoodiana, ma anche con repentini salti psicologici e narrativi. Straordinaria trovata finale in anticipo di 40 anni sul cinema moderno. E. Jannings vinse la prima edizione degli Oscar per quest’interpretazione e per The Way of all Flesh (Nel gorgo del peccato) di V. Fleming, andato perduto.
Dal romanzo The Manchurian Candidate (1959) di Richard Condon, sceneggiato da George Axelrod: subìto il lavaggio del cervello da parte dei comunisti, un sergente americano rientra dalla Corea trasformato in sicario telecomandato per un attentato politico che potrebbe sovvertire la situazione degli USA. Snobbato ai suoi tempi da 9 critici su 10, attaccato da destra e da sinistra, ma rivalutato più tardi (e non soltanto perché anticipa la fine tragica dei Kennedy) e persino ridistribuito nel 1987. Per l’allucinata costruzione e gli effetti barocchi, a mezza strada tra Hitchcock e Welles, questo thriller fantapolitico può riuscire anche divertente al suo livello di corrosiva satira politica. Squadra di attori di prim’ordine. Rifatto nel 2004 da J. Demme col titolo The Manchurian Candidate.
1943. Cesira ha una figlia adolescente, Rosetta, ed è vedova. In seguito ai bombardamenti decide di lasciare la città per tornare al paese d’origine in Ciociaria. Qui conosce Michele, un giovane intellettuale che si innamora di lei. Dopo l’8 settembre gli alleati risalgono la penisola e sia lei che la figlia vengono violentate da un plotone di soldati marocchini. Tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia il film ebbe iniziali vicissitudini produttive che De Sica riassume così: “Ponti e Girosi in un primo momento pensavano di affidare il personaggio della madre ad Anna Magnani e quello della figlia a Sophia Loren. Ma non poterono concludere questo accordo per gli impegni assunti dalla Magnani. Fui io a prospettare a Ponti la possibilità di affidare la parte della madre a Sophia Loren e di ricorrere a una bambina di dodici anni per quello della figlia. In Ciociaria le ragazze si sviluppano in fretta e si sposano a quindici anni; bastava ‘appioppare’ due anni in più a Sophia e il conto sarebbe tornato.” Una versione più ‘maligna’ vuole che la Magnani avesse rifiutato la Loren come figlia anche per problemi di reciproche altezze. Sta di fatto che questo elemento contingente (quale che ne fosse la causa) costituisce la forza del film. Perché, come ricorda Enrico Lucherini, “Tra De Sica e la Loren c’era una lunghezza d’onda comune, c’era una identica capacità di calore, di entusiasmo e di immediatezza”. Tutto ciò emerge con forza in un film che valse all’attrice un meritato Oscar perché il suo essere popolare e di origini popolane viene qui a misurarsi con un personaggio complesso, capace di grandi slanci, dotato di una irrefrenabile vitalità ma anche portatore di una rabbia interiore nei confronti di una situazione bellica che la turba più di quanto non accada ad altri con cui deve condividere la situazione di sfollata.
Durante la guerra di Corea, maggiore dell’aviazione USA sposa un’attrice giapponese. Ma c’è una seconda storia d’amore, delicata e triste che avrà una diversa conclusione. Tratta dal romanzo (1954) di James A. Michener, sceneggiato da Paul Osborn, è la versione riveduta, corretta e antirazzista di Madame Butterfly condotta su due binari. M. Brando (così, così) ha ceduto a un dramma strappalacrime con funzioni propagandistiche. 9 candidature e 4 Oscar: fotografia, scenografia e 2 attori non protagonisti (R. Buttons e M. Umeki).
Al fine di evitare la partenza per il fronte africano, Antonio, un soldato settentrionale, sposa la napoletana Giovanna, cui si sente subito legato da grande passione. Quando si fingerà pazzo per non doversi più separare da lei, scoperto, dovrà partire per la campagna di Russia. Dopo la ritirata del 1943, i soldati italiani ritornano a casa, ma non Antonio, che figura nelle liste dei dispersi. Decisa a non mollare e convinta com’è che sia ancora vivo, la risoluta Giovanna partirà per cercarlo fino in Russia e in Ucraina.
William Pitsenbarger, medico dell’aviazione e protagonista di un eroico sacrificio durante un episodio tragico della guerra in Vietnam, non ha mai ricevuto la Medaglia d’onore, massimo riconoscimento al valore dell’esercito degli Stati Uniti d’America. A trent’anni di distanza, nel 1999, i veterani di quella battaglia e gli anziani genitori dell’eroe non si rassegnano e si rivolgono a Scott Huffman per perorare la causa di Pitsenbarger. Huffman inizialmente crede che sia una perdita di tempo e lavora alla pratica senza passione, ma dopo aver conosciuto genitori e reduci e ascoltato le loro testimonianze, vuole andare fino in fondo e scoprire cosa sia successo in questi trent’anni.
Le truppe popolari jugoslave, comandate da Tito, tentano di attraversare la Neretva per porsi in salvo dai nemici. Il futuro maresciallo, con notevole acume tattico, induce i tedeschi ad allontanare gran parte dei soldati dal fiume; lui e la sua gente possono guadarlo prima che essi si accorgano dell’inganno.
Plotone di paracadutisti americani in Birmania attraversa la giungla in territorio nemico per distruggere una stazione radar giapponese. Molte scarpe al sole. Grazie a Walsh e al suo ritmo forsennato, è uno dei più scattanti e realistici film di guerra usciti dall’officina di Hollywood. Un vero manuale di combattimento. Così antigiapponese da diventare razzista. Flynn a briglia corta. La trama sarebbe poi stata rielaborata in Tamburi lontani. Esistono copie in edizione più breve (127 minuti) e colorizzata.
Primo anno dell’occupazione tedesca in Francia. Il Colonnello delle SS Hans Landa, dopo un lungo e mellifluo interrogatorio, decima l’ultima famiglia ebrea sopravvissuta in una località di campagna. La giovane Shosanna riesce però a fuggire. Diventerà proprietaria di una sala cinematografica in cui confluirà un doppio tentativo di eliminare tutte le alte sfere del nazismo, Hitler compreso. Infatti, al piano messo in atto artigianalmente dalla ragazza se ne somma uno più complesso. Ad organizzarlo è un gruppo di ebrei americani guidati dal tenente Aldo Raine i quali non si fermano dinanzi a niente pur di far pagare ai nazisti le loro colpe. Quentin Tarantino colpisce ancora. La sua passione per il cinema di genere, unita al piacere di raccontare storie, lo porta a riscrivere la Storia ufficiale con un attentato a Hitler collocato nell’unico luogo in cui il regista americano può pensare si possa attuare una giustizia degna di questo nome: una sala cinematografica. È solo al cinema che i cattivi muiono quando devono e gli eroi si sacrificano o trionfano. È cinema puro quello che Tarantino porta sullo schermo, come biglietto da visita di Bastardi senza gloria nella prima mezzora. I tempi, i dialoghi, la tensione, l’ironia giocata sul versante delle lingue differenti (elemento che sarà il fil rouge di tutto il film) ne fanno un piccolo/grande gioiello i cui riferimenti vanno ampiamente al di là dei referenti classici dichiarati quali Sergio Leone e lo spaghetti western. Il film nel suo complesso non manca di qualche momento statico che fa sentire il peso della sua lunga durata. Grazie però alla straordinaria prestazione di tutto il cast ma in particolare a quella di Christoph Waltz (attore austriaco semisconosciuto da noi a riprova che, al di là dei proclami sulla circolazione delle idee, conosciamo pochissimo del cinema europeo) e grande rivelazione di questo film, Tarantino conduce le danze rendendo omaggio a Enzo Castellari senza per questo avere la minima intenzione di realizzare un remake. Semmai resta, nello spettatore che ha amato il cinema di Ernst Lubitsch, il piacere di un soggetto che, in alcune sue parti, non può non far pensare a To Be Or Not To Be (tradotto in italiano in Vogliamo vivere ripreso poi da Mel Brooks). Là era il teatro a dominare, qui c’è un’attrice cinematografica a fare il doppio gioco e dei guerriglieri macho che si spacciano per poco credibili italiani in una sala cinematografica. Tarantino è forse l’unico regista contemporaneo capace di metabolizzare un universo cinematografico di cui si nutre costantemente (chi scrive lo ha visto applaudire calorosamente, confuso tra il pubblico della proiezione stampa, alla prima cannesiana di Looking for Eric di Ken Loach che fa un cinema distante anni luce dal suo). Lo metabolizza restituendocelo nuovo e assolutamente personale (si veda, tra i tanti e a titolo di esempio, il riferimento a Duello al sole). Perchè Tarantino ama il Cinema tout court (e non solamente, come tanti altri registi, il proprio cinema) ed è felice quando riesce a trasmettere questa sua passione. Anche in questa occasione la missione è compiuta.
Grecia, 1942. Un tenente italiano riceve a malincuore l’incarico di accompagnare un gruppo di prostitute, destinate ai soldati. Durante il viaggio impara a conoscerle. Tratto da un romanzo di Ugo Pirro sceneggiato da V. Zurlini, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e Franco Solinas, è un film diseguale e parzialmente riuscito, ma pur sempre uno sguardo lucido sui peggiori anni della nostra vita. Ha due meriti: è un film su 15 prostitute che può essere visto anche da un bambino; è autenticamente antifascista perché denuncia senza mezzi termini le responsabilità e le repressioni italiane in quella guerra d’occupazione.
Breve e avventurosa vita del partigiano Silvio Corbari, Medaglia d’oro della Resistenza, che insieme a giovanissimi compagni tra l’8-9-43 e i primi mesi del 1944 diede molto filo da torcere alle SS, agli Alpenjäger e ai loro complici fascisti con incursioni in Romagna e in Toscana e anche, maestro di travestimenti, con imprese beffarde. Tradito da un delatore, fu arrestato già gravemente ferito e impiccato due volte a Castrocaro e a Imola. Lasciati i fratelli Taviani, Orsini – sceneggiatore con Renato Nicolai – balza nel cinema nazional-popolare con un film d’azione di matrice eretica che nella Resistenza privilegia l’individualismo contro il controllo dei commissari politici del PCI, la spontaneità contro l’organizzazione, offrendo a Gemma un personaggio insolito, diverso da quel Ringo che l’aveva reso un divo degli “spaghetti-western”. Al passivo una voce narrante intrusiva e la troppa musica di Benedetto Ghiglia.
6 aprile, 1917. Blake e Schofield, giovani caporali britannici, ricevono un ordine di missione suicida: dovranno attraversare le linee nemiche e consegnare un messaggio cruciale che potrebbe salvare la vita di 1600 uomini sul punto di attaccare l’esercito tedesco. Per Blake l’ordine da trasmettere assume un carattere personale perché suo fratello fa parte di quei 1600 soldati che devono lanciare l’offensiva. Il loro sentiero della gloria si avventura su un terreno accidentato, no man’s land, trincee vuote, fattorie disabitate, città sventrate, per impedire una battaglia e percorrere più in fretta il tempo che li separa dal 1918.
L’incredibile e interminabile piano sequenza vale la visione del film.
I carabinieri del re arruolano e spediscono in guerra due sottoproletari promettendo avventure, viaggi e ricchi bottini, i due, dopo aver fatto il loro dovere uccidendo in mezzo mondo e spedendo cartoline alla madre e alla sorella, Il più dichiaratamente brechtiano tra i film di Godard, non tanto perché vicino al tema di Un uomo è un uomo la divisa che trasforma l’uomo in assassino quanto per il tentativo di applicare al cinema la tecnica dell’estraniamento: quando uno dei protagonisti, durante le sue scorrerie, capita in un cinema, prima si spaventa per l’effetto della locomotiva che si fa incontro agli spettatori, poi cerca di scoprire le nudità di una bella bagnante, di afferrarla sullo schermo; ma il cinema è finzione e tra le mani gli rimane un lenzuolo. La fotografia, il montaggio, le didascalie di Les carabiniers sottolineano continuamente la presenza del « mezzo » tecnico, chiedendo continuamente al pubblico il distacco dalla vicenda.
Attaccati a sorpresa dagli aerei giapponesi a Pearl Harbor, gli americani sono in ginocchio ma determinati a reagire. A capo di quello che resta della gloriosa flotta navale americana, l’ammiraglio Chester Nimitz prepara una trappola nell’atollo di Midway. A supportarlo l’Intelligence e l’orgoglio dei suoi uomini decisi a vendicare i caduti di Pearl Harbor.
Italia, periodo tra le due guerre mondiali. Un misterioso pilota di aerei dalle sembianze di maiale, detto Porco Rosso, è il terrore dei pirati del Mare Adriatico, almeno finché questi non si affidano all’americano Curtis, avventuriero spavaldo che sfida Porco Rosso a duello. Quello che a prima vista potrebbe apparire come uno dei lavori più scanzonati del maestro dell’anime giapponese, come fosse girato per ingannare il tempo tra un’epopea e l’altra, è al contrario la perfetta cartina di tornasole per cogliere alcuni temi portanti della poetica di Miyazaki. Sotto le vesti del divertissement, infatti, ecco spuntare il lato più politico e libertario del regista nipponico, incarnato nell’anarchico escapismo di Porco Rosso, eroe senza tetto né legge, solitario come un ronin errante, che rifiuta ogni forma di omologazione. Su tutte quella fascista del regime che avanza, infestando la (sua) bella Italia (“meglio porco che fascista” è una delle frasi-cardine del film) e fagocitandone le diversità. La scelta di ambientare la vicenda tra le schermaglie aeree di piloti e pirati – entrambe creature estraniate dalla società e che rispondono a un codice d’onore a parte – la dice lunga su come Miyazaki scelga il ruolo di osservatore distaccato ma non imbelle di fronte a una realtà che non gli appartiene. “Sono sempre i buoni a morire”, va ripetendo l’eroe dai tratti suini, ribadendo il sostanziale pessimismo nei confronti di una società che sceglie di prostituire la sua bellezza e di asservirsi al potere.
Da un romanzo di Jack Higgins. Nel 1943 un commando di paracadutisti tedeschi atterra in una località della costa occidentale inglese col proposito di rapire Winston Churchill. Sturges è un regista rispettabile per il mestiere, soprattutto nelle sequenze d’azione e nella cura dei particolari. Duvall dà malinconica dignità al suo colonnello guercio
A Kabul una dodicenne è costretta dalla madre a travestirsi da ragazzo per poter uscire in strada in cerca di un lavoro per sfamare una famiglia di sole donne. Reclutata dai talebani in una scuola coranica, è scoperta e condannata a morte, ma un vecchio mullah la chiede in sposa, portandola a casa insieme alle altre tre mogli. 1° film afghano dall’avvento e dopo la caduta del regime talebano. Segna il rientro in patria del suo autore dopo anni di esilio in Pakistan. Aiutato dalla società di Mohsen Makhmalbaf e postprodotto in Iran. Film claustrofobico di squisita eleganza figurativa, attenta alla lezione dei migliori registi iraniani (A. Kiarostami, S. Makhmalbaf) di cui condivide il principio pudico della sottrazione nel rappresentare la violenza: suscita angoscia prima ancora che indignazione per il modo in cui mette in immagini, in un regime totalitario e fanatico, la condizione disumana della donna che può essere (in misura restrittiva) a patto di non apparire . C’è un unico spiraglio aperto sul sogno-desiderio: quando la protagonista gioca a saltare la corda. Fotografia: Ebrahim Ghafuri. Camera d’Or e Medaglia Fellini dell’Unesco alla Quinzaine di Cannes 2003. Globo d’oro al miglior film straniero.
Dal romanzo omonimo di Masuji Ibuse. La lenta agonia dei sopravvissuti all’atomica – che un aereo USA lanciò il 6 agosto 1945 su Hiroshima – è raccontata attraverso le vicende quotidiane di una coppia di anziani coniugi e della loro nipote. Quel senso della famiglia – tante volte raccontato nel cinema di Y. Ozu, Gosho, Naruse – è visto con un’angolazione nuova: il lavoro lento della morte dentro di noi, e la solidarietà amorosa che alimenta. All’evento – chiamato dai giapponesi gembaku , il lampo – si dedicano una ventina di minuti, in 2 sequenze separate, che non sono i momenti migliori. Pur negli accenti sommessi di una cronaca secca, S. Imamura rimane impari alla tragicità del fatto. La solennità del passo narrativo attenua il coinvolgimento emotivo, ma la tenerezza della giovane Yasuko (la cantante Y. Tanaka) e il suo rapporto col folle reduce Yoichi (preso, come alleggerimento tragicomico, da una novella dello stesso M. Ibuse) rimangono memorabili. Edizione originale con sottotitoli.
Filippine, 1945. Il soldato Tamura, malato di tubercolosi, è l’unico sopravvissuto del proprio plotone. Vagando nella giungla in cerca di cibo, Tamura incontra altri commilitoni allo stremo delle forze che battono in ritirata, desiderosi di arrivare a Palompon per poi tornare a casa. Lo stile inconfondibile di Tsukamoto Shinya per la prima volta al servizio di un film bellico, in cui frastuoni intra ed extra diegetici e lampi di luci e colori raccontano il calvario di un soldato, in un percorso di morte che rasenta l’allucinazione. Tsukamoto riprende il romanzo “La guerra del soldato Tamura” di Ooka Shohei, già trasposto sul grande schermo nel 1959 da Ichikawa Kon con Fires on the Plain, per trasformarlo in una parabola sull’abiezione raggiunta dall’essere umano in condizioni estreme. In totale controtendenza con uno scenario politico e cinematografico che in patria vira verso il revisionismo – si veda il successo di The Eternal Zero e il diffondersi di un atteggiamento quasi vittimistico in merito alla Seconda guerra mondiale – Tsukamoto sceglie di autoprodursi un manifesto anti-bellico, che ripropone la sua riflessione sull’uomo mutandone il contesto circostante.