Famoso ballerino s’innamora a Londra di gentile signora in attesa di divorzio. 2° film RKO della più grande coppia di ballerini mai vista sullo schermo. Trabocca di balletti deliziosi e di canzoni. C’è la stupenda “Night and Day”, ma anche “Continental” (17′ di danza e musica) dove, per chi sa vedere, è chiaro che per la coppia ballare corrisponde a far l’amore. C’è anche B. Grable, allora sconosciuta, che si fa valere.
Un film di Todd Haynes. Con Christian Bale, Cate Blanchett, Marcus Carl Franklin, Richard Gere, Heath Ledger. Titolo originale I’m Not There. Musicale, durata 135 min. – USA 2007. – Bim uscita venerdì 7settembre 2007. MYMONETRO Io non sono qui valutazione media: 3,50 su 144 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Profeta, cantastorie, contestatore. Anticonformista, folle, genio assoluto del novecento. Io non sono qui è un viaggio nel tempo di Bob Dylan, attraverso il ritratto di sei personaggi – colti ognuno in un aspetto diverso della vita artistica e privata del menestrello americano – che intrecciano le loro storie di protesta, disagio, erranza e solitudine in una performance evocativa diretta da Todd Haynes. Anche stavolta, in un’ambientazione che riecheggia gli anni sessanta – avvicinandosi con forza alle tematiche dei suoi film più noti come Lontano dal paradiso e Velvet Goldmine – il regista americano sperimenta una narrazione frammentata e psichedelica, utilizzando sei diversi stili di regia all’interno di ogni microcosmo narrativo. C’è Arthur, poeta simbolista che porta lo stesso nome di Rimbaud, interrogato e poi condannato da una commissione d’inchiesta per i suoi presunti legami con gruppi sovversivi e di estrema sinistra. C’è Woody (Guthrie) un bambino di undici anni scappato da un riformatorio e pronto a raggiungere il capezzale del morente omonimo, il cantante folk che ha influenzato per lungo tempo la musica di Dylan. Poi c’è Jack cantore della protesta al tempo della guerra in Vietnam, Robbie attore e motociclista, Jude l’androgino e cinico cantante folk, e per finire l’illuminato pastore John e il vecchio Billy (The Kid), ispirato al celeberrimo criminale. Quello di Todd Haynes è più di un mockumentary o di un omaggio al Dylan che più amiamo (non a caso è l’unico ritratto che lo stesso Dylan sembra aver davvero apprezzato), ma una miscela perfetta di musica, arte visiva, cinema. Fotografia rigorosa, sei registri narrativi che si intrecciano sul calare degli anni ’70, quando le illusioni e le utopie di un mondo migliore si infrangevano definitivamente sul campo di battaglia di una guerra infinita e inutile. C’è la musica, allora, a risollevare le sorti di un’umanità stanca, a dar voce ai poveri e ai diseredati, ma c’è anche il cinema – di Todd Haynes – che ogni volta restituisce la magia delle atmosfere magiche perse nei ricordi.
Il documentario di Scorsese rappresenta un appassionato viaggio per immagini, musica e testimonianze nella genesi del mito di Bob Dylan, capace di disegnare un affascinante quadro del contesto politico, sociale e artistico americano della prima metà degli anni Sessanta. Una cronaca fedele del divenire dylaniano a cavallo di quello snodo epocale che verrà ricordato come la “svolta elettrica”.
Gli anni Sessanta cominciarono con i colpi di arma da fuoco che uccisero Kennedy e proseguirono con le esplosioni della Guerra in Vietnam e i sommovimenti delle rivoluzioni giovanili. In questo clima fervente di controcultura, si incontrano nell’estate del 1965 a Venice Beach, in California, due ex-compagni di corso della scuola di cinema di Los Angeles, il giovane tastierista Ray Manzarek e il ventiduenne aspirante poeta Jim Morrison. Ray resta talmente colpito da alcune liriche scritte da Jim, che, seppure il ragazzo sia completamente sprovvisto di una pratica musicale, decide di coinvolgerlo nel progetto di formazione di una nuova band assieme al batterista jazz John Desmore e al chitarrista esperto di flamenco Robby Krieger. I quattro si chiameranno The Doors, in omaggio a un verso di William Blake (“Se le porte della percezione venissero spalancate, ogni cosa apparirebbe all’uomo per come è: infinita”), e il timido poeta lisergico diverrà una delle più celebri e famigerate rock star della storia. Pensare a Jim Morrison e alle sue canzoni evoca quasi sempre come prime suggestioni l’idea del fuoco, i paesaggi desertici e le forme e i movimenti flessuosi di una lucertola. Il giovane cantante-poeta maledetto vive di questi tre elementi nella coscienza collettiva, tanto che sia il biopic di Oliver Stone che questo documentario di Tom DiCillo iniziano con immagini che mostrano il deserto californiano e la sua fauna e che pongono enfasi su tutti i fiammiferi accesi e lentamente consumati. Anche il materiale narrativo e l’arco temporale coinvolto sono esattamente gli stessi per The Doors e per When You’re Strange: entrambi, più che sulla storia della band californiana che ha fuso il blues e il rock in suoni incendiari e psichedelici, si focalizzano sulla breve vita del cantante che ha riscritto ogni regola del divismo musicale, più di Elvis, più di John Lennon o di Mick Jagger. Ciò su cui invece i due lavori divergono, oltre alla generica differenza fra opera di finzione e ricostruzione documentaristica attraverso filmati d’archivio, è senza dubbio nel modo di leggere la figura tragica di Jim Morrison: un’icona del nichilismo e della volontà di potenza nietzschiana per Stone; un ragazzo romantico e scapigliato per DiCillo, che ha pagato il suo essere strano e straniero, continuamente in cerca di un’identità. Per veicolare quest’idea, il regista di Johnny Suede e Si gira a Manhattan pone in apertura una curiosa manipolazione fra filmati di repertorio, sovrapponendo le immagini di un film sperimentale girato e interpretato da Morrison stesso alla guida di una macchina con la notizia della sua morte diffusa via radio. L’effetto perturbante della sequenza contribuisce a dare un senso (se possibile) ancor più spettrale a quelle immagini, come se il fantasma di Jim Morrison vagasse per il deserto alla ricerca di una nuova identità dove aver perduto quella dell’infelice cantante di successo. A parte questo filmato che guarda più da vicino l’espressione della personalità artistica del cantante formatosi alla UCLA, l’utilizzo degli altri filmati opera con un certo rigore documentario e accorda più importanza alla dimensione storico-sociale che circonda la parabola dell’aura maledetta di Morrison, attraverso la voce di un altro simbolo di una gioventù ribelle come Johnny Depp (il cantautore Morgan nella versione italiana). Il suo timbro profondo da pirata ex-amante di droghe e poeti maledetti tiene assieme glorie e fallimenti della band con quelli della cultura hippie, dai dischi di platino ai movimenti pacifisti, dagli arresti e dalle accuse di oscenità al massacro della setta di Charles Manson. Con quella tragedia si chiude il sogno delle droghe leggere e dell’amore libero, ma si avvia anche il tramonto di Morrison, il suo abbandono delle scene musicali e il ritiro poetico e spirituale a Parigi. Dove lo attende una morte (avvenuta a 27 anni, come vuole il tragico destino delle rock star più celebri come Jimi Hendrix, Janis Joplin e Brian Jones dei Rolling Stones), che lo avvicina tanto a una figura umana e meschina quanto a un mito misterioso e senza tempo.
Il film è ambientato in un night club degli anni Settanta, in cui nacque la musica underground che investì come una tempesta la scena musicale dell’Inghilterra del North-West. Matt e John, adolescenti della classe operaia innamorati della Black Music americana,inseguono il sogno di viaggiare negli Stati Uniti e diventare DJ della musica che più amano, il Norhern Soul. Tra musica e droghe, la loro amicizia sarà messa a dura prova.
Un film di Wim Wenders. Titolo originale The Blues – The Soul of A Man. Documentario musicale, durata 100 min. – Germania 2003. MYMONETRO The Blues – L’anima di un uomo valutazione media: 3,25 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Wim Wenders apre la serie dei sette film, che saranno poi realizzati da Charles Burnett, Clint Eastwood, Mike Figgis, Marc Levin, Richard Pearce e Martin Scorsese, ideata per celebrare la musica blues, secondo il progetto «The Blues» prodotto da Martin Scorsese. L’anima di un uomo presenta la vita di tre grandi bluesmen all’interno di una cornice narrativa dove si mostra il Voyager, inviato dalla Nasa nello spazio nel ’77, che porta con sé, tra le testimonianze del genere umano del XX secolo, la canzone blues “The soul of man” di Blind Willie Johnson. Le tre vite narrate, tra fiction e documentario, sono quelle di Skip James, Blind Willie Johnson e J.B. Lenoir. La prima parte del film racconta, con sequenze ricostruite, le vicende che, tra la fine degli anni ’20 e gli inizi degli anni ’30, hanno coinvolto Blind Willie Johnson insieme agli esordi di Skip James. La seconda parte, ambientata invece negli anni ’60, ritrae, il ritorno sulla scena di Skip James e la vita di J.B. Lenoir, con sequenze originali del tempo tratte da filmati di due autori svedesi. Alle performance musicali dei protagonisti si alternano, con abilità registica, le esibizioni delle canzoni corrispondenti suonate da alcuni grandi del rock e del blues dei tempi più recenti, come Lou Reed, Nick Cave, Eagle Eye Cherry e John Mayall. L’ altalenarsi di interpretazioni diventa a tal punto suggestivo da rendere, oltre all’omaggio agli artisti, protagonista la musica e, allo stesso tempo, il cinema, per la sua capacità di raccontare ed emozionare. E’ infatti la sensibilità musicale e visiva di Wenders che genera la poesia di questo semi-documentario, nato dalla fedeltà del regista a ciò che più lo ha commosso di quelle canzoni, nel corso della sua vita. Il blues, si sa, narra sia la tristezza per le condizioni di vita degli schiavi d’America sia la speranza in un futuro migliore; il canto diventa dunque un mezzo per alleviare in chi canta e in chi ascolta un dolore tremendo e ingiusto; la potenza evocativa di quella musica rimane comunque sempre attuale e il ritratto compiuto da Wenders ne è certamente all’altezza.
Una serie di brevi episodi, nel classico stile di Godard, intercalati dalle prove di registrazione dei Rolling Stones. Il gruppo è alle prese con un unico brano, Simpathy for the Devil, che avrebbe fatto parte di Beggar’s Banquet, uno dei capolavori assoluti della loro carriera. In seguito però la canzone sarebbe divenuta tristemente famosa, perché durante la sua esecuzione ad un concerto un ragazzo fu pugnalato da un “Hell’s Angels”, incaricato del servizio d’ordine. Un po’ prolisso, il film è consigliato ai fan del gruppo, quelli più resistenti.
Dal 1963 al 2013, i Rolling Stones compiono 50 anni di attività e si celebrano in un documentario che racconta i loro primi 30 anni. A partire dalla prima formazione, le cover blues e il successo devastante e immediato, passando poi per le prime canzoni originali, la scoperta come autori, i guai legali e un’immagine da ribelli continuamente rinforzata da media e polizia, il documentario racconta con rapidità anche la morte di Brian Jones e i fatti di Altamont. I Rolling Stones secondo i Rolling Stones. Crossfire hurricane è un progetto prodotto da Mick Jagger in cui Charlie Watts, Ron Wood e Keith Richards hanno preso parte come produttori esecutivi, di fatto un ricamino su misura per l’immagine che la band oggi vuole veicolare di sè. Impossibile quindi attendersi qualcosa di interessante o anche solo di audace. Brett Morgen mette la voce fuoricampo dei membri (presenti e passati) sopra il più classico materiale di repertorio: concerti, foto, apparizioni televisive, in modo che le prime aiutino nella lettura e nell’interpretazione delle seconde e le poche volte che si concede dei tocchi personali la sensazione è che siano fuori luogo. Non solo la storia della genesi e della maturazione del gruppo è raccontata senza una vera chiave e senza un atteggiamento realmente appassionato ma anche idee come le immagini raddoppiate, sfocate e al ralenti mentre si parla di un trip sotto acidi o le variazioni di montaggio, forzano la messa in scena canonica del documentario con risultati fastidiosi e puerili. Molto più interessante allora è guardare la lettura che gli Stones hanno voluto operare di se stessi e della propria storia. Crossfire hurricane non si fa problemi ad omettere, sorvolare ed attutire conflitti ed asperità del gruppo ma soprattutto si concentra più sulla loro immagine mediatica che sulla musica, tanto che anche i brani scelti per fare da sottofondo, o per i brevi segmenti live, sono i più noti e utilizzati. L’obiettivo è grandissima apologia della prima fase della loro carriera, quella in cui erano percepiti, raccontati e mostrati sempre come i “cattivi ragazzi”. Con le loro voci fuoricampo Jagger e soci cercano un’impossibile rilettura della storia attraverso le immagini di repertorio, tentando di mutarne senso e significato con il senno di poi e un bonario atteggiamento paternalistico verso se stessi. Sfruttando oltre alle immagini di repertorio quelle di qualità più elevata provenienti da One plus One, Gimme shelter e poi anche Shine a light (l’unico momento in cui i membri sono mostrati per come sono ora) Crossfire hurricane cancella tutto il brutto, l’opaco e l’appassito per celebrare i 50 anni della band ricordandone solo l’epoca d’oro (il racconto si ferma agli anni ‘80 con l’arrivo di Ron Wood), lucidata per apparire ancor più dorata. Se è vero che l’effetto nostalgia e l’epica che il materiale di repertorio ben aggregato e ben messo in prospettiva storica sa indurre è una panacea per qualsiasi documentario mal concepito, questa volta appare come l’unica possibile salvezza di un progetto maldestro e autocelebrativo.
The film displays the struggles of a Lebanese village under the Seferberlik during World War I.
Edit 7 giugno 2024: ho sostituito la versione precedente perchè si fermava a 25 minuti. Purtroppo la nuova versione è inferiore alla precedente ma è anche l’unica che ho trovato in rete. Ne ho approfittato per aggiungere i subita traducendoli con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Londra, anni sessanta. I mods e i rockers, le due principali giovanili a cui si aggregano i ragazzi britannici, si preparano al gran giorno in cui si scontreranno tra loro, alla spiaggia di Brighton, senza esclusione di colpi. Jimmy è un mod duro e puro, veste un parka e guida una lambretta, ascolta rhythm and blues e cura il proprio taglio di capelli. Dentro di sé la rabbia è pronta ad esplodere, alimentata dall’odio per un mondo incapace di comprenderlo. Radicalmente diversa per approccio e fedeltà alla fonte rispetto alla visionaria trasposizione di Ken Russell della prima opera-rock firmata Pete Townshend, Tommy, Quadrophenia di Franc Roddam – curiosamente inventore molti anni più in là del format televisivo di MasterChef – cerca di intercettare l’angst giovanile di una intera generazione, convogliandola nei turbamenti del giovane Jimmy. Un ribelle senza causa, un eterno insoddisfatto, perso tra misoginia e anfetamine, fedele a ideali che sembrano dogmi sacri ma che si dimostrano effimeri. Quadrophenia esce in sala nel 1979, dopo che il punk già attraversa la sua parabola discendente, ed è come se l’amaro lascito dell’ennesima occasione di rivolta mancata contro il sistema attraversi tutto il film, fino a renderlo un paradigma del romanzo di crescita di chi è incapace (o privo di volontà) di entrare in società. Un’opera criticata per la sua superficialità, che invece colpisce per il suo schietto realismo, che privilegia l’impatto emozionale agli orpelli di sceneggiatura, la scarica di adrenalina immediata alla costruzione articolata. Proprio come i singoli degli Who, brevi e fulminanti, conclusi dalla distruzione di una chitarra o di una batteria. Is it Me for a Moment?, I’m One, I’ve Had Enough, canzoni e testi immortali, titoli in grado di sussumere l’universo egocentrico e claustrofobico di un ragazzo prigioniero delle proprie contraddizioni, desideroso di lotta e ribellione per evitare di scendere a patti con una società con cui è impossibile relazionarsi. Per evitare, forse, di guardare dentro se stesso e scoprire di non essere così speciale né così diverso dagli odiati altri. Jimmy insegue un amore e trova una delusione, insegue un ideale e trova disillusione, misurando la distanza tra l’astrazione e la miseria circostante, senza mai essere sfiorato dalla tentazione di un compromesso. Una volontà incrollabile, forse inconciliabile. Dove Russell stravolgeva anche i brani stessi degli Who, affidandoli ad altri musicisti, Roddam riempie la colonna sonora del rock di Townshend e Daltrey e dell’R&B o Northern soul britannico amato dai mods, ricreando il microcosmo di un movimento che fu capostipite nella fusione di un modus vivendi e di un rigido codice di abbigliamento a cui attenersi. Senza indulgere oltre il necessario sull’aspetto fenotipico del movimento, ma cercando di coglierne l’essenza e di visualizzarlo dalla prospettiva, allucinata ma lucida, di Jimmy. Al protagonista presta volto e accento cockney Phil Daniels, all’epoca una delle maggiori promesse del cinema britannico: la sua iconica interpretazione non gioverà al prosieguo della carriera, rendendolo ironicamente prigioniero di un personaggio a sua volta imprigionato da una gabbia invisibile. MaQuadrophenia era e resta uno dei più credibili manifesti generazionali, inconsueto e talora quasi grezzo – dominato dalla camera a mano – ma potente come un riff di Townshend o una rullata di Keith Moon.
Da qualche parte nelle suburb londinesi, Freddie Mercury è ancora Farrokh Bulsara e vive con i genitori in attesa che il suo destino diventi eccezionale. Perché Farrokh lo sa che è fatto per la gloria. Contrastato dal padre, che lo vorrebbe allineato alla tradizione e alle origini parsi, vive soprattutto per la musica che scrive nelle pause lavorative. Dopo aver convinto Brian May (chitarrista) e Roger Taylor (batterista) a ingaggiarlo con la sua verve e la sua capacità vocale, l’avventura comincia. Insieme a John Deacon (bassista) diventano i Queen e infilano la gloria malgrado (e per) le intemperanze e le erranze del loro leader: l’ultimo dio del rock and roll.
Avventuriero bonaccione scopre una vena d’oro mentre scava per seppellire un morto. Nasce una città di baracche che crollerà nelle gallerie scavate dai cercatori. Tratto da un vecchio musical degli anni ’40, ma rinnovato nella vicenda, sfrutta i modi usati per il palcoscenico. Prolisso, faticosamente umoristico, uno dei fiaschi storici degli anni ’60. Pose termine alla carriera di Logan e rovinò la carriera di 2 o 3 alti funzionari della Paramount.
Nel 1941, dopo il primo raid aereo tedesco su Belgrado, comincia l’ascesa del compagno Marko (Manojlovic), partigiano e borsanerista. In due anni lui e il suo amico Nero (Ristovski) accumulano una fortuna e la fama di eroi della resistenza finché convincono il loro clan a rifugiarsi in un sotterraneo e a fabbricare armi e altri prodotti per il mercato nero. Fa credere a tutti che la guerra continua, e intanto diventa un pilastro del regime socialista di Tito.
È difficile stringere in una definizione di genere un grande film visionario come il 5° lungometraggio del serbo Kusturica, che fa pensare ad Alice nel paese delle meraviglie riscritto da Kafka, con Hyeronimus Bosch come scenografo e Francis Bacon direttore della fotografia. È una tragicommedia musicale con le musiche tzigane di Goran Bregovic che di un racconto straripante di feste nuziali, riti collettivi e baccanali sono il filo conduttore e gli danno il ritmo. “C’era una volta un paese…” è il sottotitolo. La Iugoslavia, naturalmente. Kusturica dice che non è un film nostalgico, ma un necrologio. Forse il Paese di cui ha cercato di raccontare 40 anni di storia non è mai esistito. Underground è il sogno di un incubo, quello della Storia e del suo tempo sporco. 2ª Palma d’oro a Cannes dopo quella del 1985. Presentato come film della Comunità Europea. Esiste un’edizione di 7 ore, vista per la 1ª volta al Torino Film Festival.
Regia di Jacques Demy. Un film Da vedere 1964 con Catherine Deneuve, Nino Castelnuovo, Anne Vernon, Marc Michel, Ellen Farner. Genere Musicale– Francia, 1964, durata 92 minuti. Consigli per la visione di bambini e ragazzi: +13 Valutazione: 3,00 Stelle, sulla base di 6 recensioni. La storia di un amore impossibile tra due giovani. Una semplice, tenera e malinconica favola realistica ambientata in un microcosmo senza padri come spesso succede nel cinema di Demy (1931-90); sullo sfondo una Cherbourg vera che sembra un set di un film di Minnelli. Il film è tutto cantato
È sempre difficile fare la biografia cinematografica di un artista, tra l’altro contemporaneo, ed elevarlo a santone come ha fatto Oliver Stone. Lui dice di aver sempre adorato Jim Morrison dei Doors, ma il risultato lo rappresenta come un povero pazzo che credeva di essere un nuovo Messia e che vede sfruttata la sua ingenuità per scopi commerciali.
Morrison era ossessionato dall’arte in generale, amava il cinema europeo di Godard e di Antonioni, la poesia di Baudelaire e Rimbaud. Non meritava, pur nelle buone intenzioni del regista, un caleidoscopio virtuosistico ma pieno di maniera, dove personaggi come Nico dei Velvet Underground e Andy Warhol vengono rappresentati come macchiette. Rimane la grande musica dei Doors. Buon successo di pubblico.
Nel 1823 al manicomio di Vienna Antonio Salieri, acclamato musicista di Corte, confessa un tremendo segreto: ha consumato la vita nel tentativo di distruggere Mozart, volgare e libertino, indegno, secondo lui, dei doni divini. Sotto il segno del più scatenato gusto del gioco, è una riflessione sul contrasto tra genio e mediocrità e sull’invidia. Scritto dall’inglese Peter Shaffer, da una sua pièce (1979). Omaggio a Praga. Splendide immagini (Miroslav Ondricek), due grandi interpreti. 8 Oscar: film, regia, sceneggiatura, attore (F.M. Abraham), costumi (Theodor Pistek), suono (M. Berger, T. Scott, T. Boekelheide), trucco (Paul Le Blanc, Dick Smith), scenografia (Patrizia von Brandenstein, Karel Czerny). Non tenendo conto che, in fondo, è un Mozart visto da Salieri i molti mozartiani di stretta osservanza hanno eccepito sulla fedeltà storica, specialmente sulle libertà prese per la genesi del Requiem, ma avrebbero da lamentarsi di più i pochi ammiratori di Salieri. Al Festival di Berlino 2002 fu presentata una edizione restaurata (Director’s Cut) e allungata di oltre 20′. Nuova edizione del capolavoro di Milos Forman del 1984 con l’aggiunta di un nuovo sonoro e di un nuovo doppiaggio in italiano. Le scene aggiunte si integrano perfettamente con l’originale.
A Salisburgo, nel 1938, Maria, un’orfana entrata da poco come novizia in un convento di suore ha, per l’epoca, una vivacità tale da lasciare qualche dubbio su una reale vocazione. La madre superiora decide quindi di farle fare un periodo di attività all’esterno come istitutrice dei sette figli di un rigido e vedovo comandante di Marina. I giovani, dopo un’iniziale diffidenza, si legheranno a lei mentre il padre, in procinto di risposarsi, comincerà ad interrogarsi su cosa provi per Maria.
La sceneggiatura è ispirata al testo teatrale Pigmalione di George Bernard Shaw. Una incolta e rozza fioraia viene trasformata da uno studioso, in seguito alla scommessa con un amico, in una fanciulla raffinata e perfettamente a suo agio nei salotti dell’alta società. A esperimento concluso, la ragazza non sa tornare al vecchio lavoro e inoltre si è innamorata perdutamente del suo insegnante. Anche lui si renderà conto di amarla quando lei lo lascerà, per disperazione, e farà in modo di ritrovarla e tenerla per sempre con sé.
Jerry Mulligan, finita la guerra, è rimasto a Parigi per dipingere. Vive in un localino dove il letto e il tavolino rientrano nel soffitto e nella parete e va a esporre i quadri, che nessuno compra, a Montparnasse. Viene abbordato da una ricca, attempata americana che gli compra un quadro. Ma poi conosce la giovane e graziosa commessa della quale si innamora, senza sapere che la ragazza sta per sposare il suo amico Paul. Un altro personaggio è il musicista-genio (Levant), che suona tutti gli strumenti dell’orchestra. Alla fine tutto va a posto. L’amore trionfa. Sulla base di questa trama quasi banale, “alla musical”, Minnelli regista e Kelly ballerino-cantante-attore-coreografo, costruiscono non solo un capolavoro del cinema, ma un’opera composita che figura benissimo nell’arte del Novecento. Naturalmente è determinante la musica di George Gershwin che compose forse la sua più importante sinfonia, fatta apposta per far brillare le prerogative del cinema. Tutte le canzoni (cantate oltre che da Kelly anche dallo “chansonnier” Paul Guétary, idolo parigino) sono classici indimenticabili. La Metro, nella realizzazione di questi film, era molto rigorosa e generosa, assumeva i più bravi consulenti da ogni parte del mondo. I balletti di Kelly sono studiati in scenografie che si richiamano ai grandi quadri impressionisti (Renoir e Monet soprattutto) e a Toulouse-Lautrec. Il numero centrale viene considerato un capolavoro anche dai grandi coreografi del balletto classico, come Béjard. Naturalmente la tendenza di Minnelli, in quasi tutti i suoi film, era una certa concessione al kitch, che nel musical quasi non andrebbe considerato “caduta”, ma valore aggiunto. Il film è uno dei più premiati nella storia degli Oscar, ben sei. Va detto che il musical è l’unica forma d’arte tutta e solo americana. Molto spesso Hollywood ha attribuito Oscar a film musicali (Gigi, My Fair Lady, Tutti insieme appassionatamente, Oliver!, West Side Story). L’anno dopo lo stesso gruppo produttivo (solo il regista Donen sostituì Minnelli) realizzò Cantando sotto la pioggia che… rimase senza Oscar pur essendo per certi versi più intelligente e con maggiore vedibilità a posteriori. Questa “tardiva” stagione del musical prodotta da Arthur Freed (Sette spose per sette fratelli, Spettacolo di varietà, Baciami Kate! e altri) rappresenta una punta qualitativa altissima del cinema, che poteva contare ancora sulle belle ingenuità indispensabili, sostenute da una tecnica ormai perfezionata.
Pink Floyd: Live at Pompeii, uscito in Italia anche con il titolo Pink Floyd a Pompei, è un film-documentario-concerto diretto da Adrian Maben, uscito nella versione per le sale cinematografiche nel 1974 e incentrato sulla musica del gruppo rock inglese dei Pink Floyd.
Maben concepì l’idea di base per il film nel 1971: già all’inizio dell’anno aveva contattato il manager del gruppo Steve O’Rourke con l’idea di combinare la musica dei Pink Floyd con opere di artisti contemporanei come De Chirico, Magritte ecc., ma la band aveva declinato l’offerta.[1]
Nell’estate 1971, il regista si recò in vacanza in Italia con la fidanzata e, nel tentativo di recuperare il suo passaporto che credeva aver smarrito durante una visita alle rovine di Pompei, tornò al crepuscolo nell’antico anfiteatro romano di Pompei e lo ritenne una location perfetta per filmare la band in azione.[1]
Fin dall’inizio, Maben immaginò che i Pink Floyd dovessero suonare nell’anfiteatro vuoto, senza pubblico, volutamente in contrasto con precedenti film-concerto, come Woodstock.[1] Grazie alla sua conoscenza con il prof. Ugo Carputi dell’Università di Napoli,[1] il regista ottenne dalla locale soprintendenza il permesso di effettuare sei giorni di riprese nel sito archeologico campano, per l’occasione chiuso al pubblico, l’ottobre seguente.
I Pink Floyd furono irremovibili riguardo l’eseguire tutto il materiale dal vivo, senza alcun playback: ciò implicò il trasporto in Italia, via camion, di tutta la loro attrezzatura da concerto, luci escluse, assieme a un impianto per la registrazione a 24 tracce che garantisse la stessa qualità sonora dei loro lavori in studio.[1]
La troupe, giunta sul posto, scoprì di non avere sufficiente elettricità per alimentare tutta l’attrezzatura. L’inconveniente fu risolto portando la corrente elettrica direttamente dal Municipio mediante un lunghissimo cavo che percorreva le strade della cittadina campana;[1] tale circostanza restrinse i tempi effettivi di ripresa a soli quattro giorni, dal 4 al 7 ottobre del 1971.
Le scene girate per prime in ordine di tempo ritraevano i quattro musicisti aggirarsi fra i vapori della solfatara di Pozzuoli; quindi, nell’Anfiteatro Romano la band eseguì dal vivo tre brani: la prima metà e il finale di Echoes, One of These Days, e A Saucerful of Secrets; ciascun brano fu eseguito in sezioni separate, poi montate assieme; al termine di ciascuna esecuzione, la band la riascoltava in cuffia per approvarla.[2]
Il regista ha rivelato in anni recenti[3] che diverse bobine di pellicola andarono smarrite subito dopo le riprese: questo, fra l’altro, spiega perché il brano One of These Days include quasi esclusivamente inquadrature del batterista Nick Mason, il quale ha confermato la vicenda nella sua autobiografia del 2004.[4]
All’epoca delle riprese a Pompei l’album Meddle, contenente i brani One of These Days e Echoes eseguiti nel film, non era ancora sul mercato sebbene il gruppo ne avesse già ultimato le registrazioni in agosto: fu pubblicato infatti il 30 ottobre negli Stati Uniti e il 5 novembre in Europa
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.