Dopo Una giornata particolare (1977), E. Scola ritorna all’anno della promulgazione delle leggi razziali contro gli ebrei, con un film scritto da lui e da Furio Scarpelli con i due rispettivi figli Silvia e Giacomo. Storia di due commercianti di stoffe che a Roma abitano e lavorano nella stessa strada: Umberto, sarto milanese di famiglia cattolica, e Leone, merciaio ebreo. L’ignominia, non priva di particolari assurdi, del decreto-legge 1728 (17-11-1938) “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” si riflette nelle piccole vicende quotidiane dei due protagonisti e delle loro famiglie, dei parenti e degli amici. Due i punti di forza: il set della strada-quartiere, microcosmo di una società ignara prima ancora che indifferente, distratta o solidale, che racchiude la vicenda; la capacità di illustrare una legge infame quasi articolo per articolo, calandola in personaggi, casi, aneddoti, in altalena tra commedia e dramma, tenerezza e dolore, sarcasmo e indignazione. Il bozzettismo tipico di Scola non manca; c’è un puntiglio persino eccessivo nella ricostruzione d’epoca; convenzionale e pleonastico il punto di vista infantile, ma i momenti autentici esistono e il duo Abatantuono-Castellitto è ammirevole per misura e intensità. Premio per la regia al festival di Mosca; Globo d’oro per la musica (A. Trovajoli); Donatello a L. Ricceri (scene).
Avventure, amori e tribolazioni di otto soldati del Regio Esercito Italiano che nel giugno 1941 sono mandati a presidiare un’isoletta greca dell’Egeo dove rimangono sino all’inverno del 1943. Uno degli otto non tornerà. Senza ambizioni storiche, è una favola, un racconto di formazione, un apologo sull’amicizia virile, sul desiderio di fuga (è dedicato “a tutti quelli che stanno scappando”), sulle difficoltà di crescere. Chiude un’ideale trilogia sul viaggio e su una generazione, quella del regista, formata da Marrakech Express e Turné . Un bel gioco di squadra attoriale e un’accattivante mistura di buffo e patetico con molti stereotipi e qualche leziosaggine ruffiana. Girato nell’isola di Kastellorizo (Megisti in greco). Oscar per il film straniero.
Nella notte di Natale quattro amici e un industrialotto, il pollo da spennare, si trovano per una partita di poker che sarà, in molti sensi, un regolamento di conti. Come si addice a una partita di poker, che è il fulcro del film, c’è suspense, ma vien fuori bene anche la conoscenza che il bolognese Avati ha della vita in provincia e del suo continuo peggioramento. Sua è l’orchestrazione sapiente di un quintetto di attori eterogenei che hanno le facce giuste. C. Delle Piane premiato come attore protagonista a Venezia 1986; Nastro d’argento a D. Abatantuono non protagonista; David di Donatello a R. De Luca (suono), Riz Ortolani (musica).
Edit 13/1/2024: sostituita versione dvdrip con una migliore
È il seguito di Regalo di Natale (1986), uno dei film più riusciti di P. Avati, insolito perché, nella finzione come nella realtà, avviene 18 anni dopo. È anche uno dei suoi pochi film ambientati nell’Italia contemporanea, l’unico situato nel presente della natia Bologna. Il che spiega il più alto tasso di amarezza civile, di squallore arrogante e, forse, di misantropia che impregna il racconto. Anche qui la partita a poker serve a togliere le maschere ai personaggi e a rivelarne l’indole nascosta o la vulnerabilità, ma non c’è soltanto un traditore come nell’altro film. Lo stesso Franco (Abatantuono), vecchia vittima, è predisposto a barare. L’Italia odierna è più abominevole e corrotta che nel 1986. Alla riuscita del film, scritto da Avati (con la consulenza pokeristica, non sempre ascoltata, di Giovanni Bruzzi, come in Regalo di Natale ), contribuiscono i 5 attori, perfetti anche nel mostrare gli effetti che l’orologio biologico ha avuto su di loro.
34° film di Avati in 40 anni, il 9° ambientato a Bologna e il più autobiografico: il suo alter ego è il 16enne Taddeo che fa da perno e narratore in questa commedia di personaggi, senza un vero intreccio, in cui, secondo lui, ha raccontato la sottocultura di un ambiente – il bar di via Saragozza nella Bologna del 1954, da lui mitizzato – con tenerezza e crudeltà. Dice il vero, non tutto: la crudeltà prevarica sulla tenerezza nel suo film più estremo, misantropo, sgradevole. Nel suo cinico e ladro Taddeo si è calunniato a ritroso. Perché ha spinto, o permesso, che Lo Cascio rida o sghignazzi senza pause? Perché Marcorè portatore di inadeguatezza, è un imbranato così radicale? E il nonno di Cavina che non smette mai di tossire e gioca a biliardo come se non avesse mai maneggiato una stecca? Quasi tutto il film è sopra le righe e, a furia di caratterizzare, scivola nel macchiettismo. Solo l’Al del sobrio Abatantuono è raccontato con simpatia e ammirazione. Fotografia (il fido P. Rachini) e musica (Lucio Dalla) intonate come le scene (G. Pannuti) e i costumi (S. Tonelli). È un’altra tappa dell’ascesa postdivistica della bella e brava Chiatti. A 70 anni Avati ha scoperto il valore dell’ingenuità, ma esagera.
Trascurata dal marito, la principessa Lucia, per ingelosirlo, s’inventa invio di omaggi e telefonate misteriose. Morta la commedia di costume, le è subentrata quella evasiva, brillante, frivola che non ha più agganci con la realtà. Vitti in gran forma e Abatantuono colorito per placida enfasi e linguaggio immaginoso. Dalla commedia Appuntamento d’amore di Aldo De Benedetti, sceneggiata dal regista col figlio Enrico Vanzina.
Il mondo animale è cambiato: non è più diviso in due fra docili prede e feroci predatori, ma armoniosamente coabitato da entrambi. Judy è una coniglietta dalle grandi ambizioni che sogna di diventare poliziotta, poiché le è stato insegnato che tutto è possibile in questo nuovo mondo. Nick è una volpe che vive di espedienti nella capitale, Zootropolis, dove Judy, dopo un estenuante training in accademia, approda come ausiliaria del traffico. Toccherà a loro, inaspettatamente uniti, risolvere il mistero dei 14 animali scomparsi che tutta la città sta cercando e sventare i piani di chi vuole impossessarsi del potere locale, secondo l’atavico principio divide et impera. Zootropolis, cartone Disney supervisionato dall’onnipotente John Lasseter, affronta di petto la tematica più attuale di tutte: l’uso della paura come strumento di governo. E va a toccare un altro degli argomenti più sensibili in ogni epoca, ovvero l’esistenza (o meno) di una predisposizione biologia al crimine per alcune razze e alcune etnie. Ma si spinge anche oltre, andando ad analizzare il rapporto fra massa ed élite, nonché l’opportunità (o meno) di sopprimere la natura selvaggia e istintiva sacrificandola all’ordine sociale, flirtando con l’eterno dilemma se nella formazione degli individui, e delle società, conti maggiormente la natura o la cultura. In realtà il discorso portante è quello dell’autodeterminazione a dispetto della propria limitata dotazione di base: un discorso che, da Monsters & Co a Planes a Turbo, attraversa molta animazione recente. È la filosofia “Yes you can” che ha portato alla presidenza americana un afroamericano e che sta alle radici del (nuovo) sogno americano. Il corollario di questa filosofia è l’ostinazione “ottusa” di Judy a “non mollare mai”, perché nessuno può dirle ciò che può essere e non essere, ciò che può e non può fare. Naturalmente quello che conta in Zootropolis è il modo in cui questi temi vengono sviluppati, sia a livello di narrazione che di espedienti visivi. E se la sceneggiatura mostra un gioco di semina, di echi e di rimandi fin troppo calibrato, la regia, ad opera di un team di cui fa parte anche Jennifer Lee, la wonder woman dietro Frozen, si sbizzarrisce in fughe rocambolesche, inseguimenti, esplosioni, battaglie ed equilibrismi attraverso ben quattro ambienti distinti: campagna, città, vette innevate e foresta tropicale. La vera forza del film però è l’escalation di battute sia nell’interazione fra Judy e Nick, nati per creare la chimica perfetta, sia nella caratterizzazione di decine di specie animali, fra cui spiccano i bradipi impiegati alla motorizzazione (a riprova che la burocrazia è esasperante a qualunque latitudine) e l’equino hippie doppiato in italiano da Paolo Ruffini. Ci sono anche il roditore che cita il Padrino, la donnola che vende cd taroccati, l’elefantessa maestra di yoga, i lupi che ululano a sproposito, come i cani di Up “biologicamente” predisposti a puntare ogni loro simile di passaggio, il leone sindaco, il bufalo muschiato capitano di polizia, persino la gazzella superstar che ha la voce e le movenze sensuali di Shakira. Tutti indossano abiti umani, camminano in posizione eretta, spippolano sugli smartphone (che recano sul retro il simbolo di un ortaggio morsicato), comunicano via Skype e scaricano App per inventarsi identità virtualil. Perché il presupposto ideologico, per questo come per altri cartoon (vedi Madagascar) è che il regno animale ambisca al modello antropomorfico di civiltà contemporanea: assunto che nessun animale, ancorché ottuso, probabilmente condividerebbe.
In una città veneta di media grandezza, come per incantesimo, scompaiono in una notte tempestosa tutti gli immigrati. Per un potente impresario che da anni tuona sulla sua TV privata, invocando uno tsunami che li porti via, è un sogno che si avvera, ma la sua fabbrica va in tilt. Una simpatica maestra si ritrova senza l’africano alto, bello e colto da cui aspetta un figlio. E anche il sindaco e gli assessori sono inguaiati. Sembra brillante e polemicamente efficace il fantasioso punto di partenza (tratto dal film Un giorno senza messicani , 2004, di Sergio Arau) ma era difficile da tradurre in commedia. Con i 2 sceneggiatori Diego De Silva e Giovanna Koch, il napoletano regista/sceneggiatore al suo 3° film ci è riuscito in parte: bene per i dialoghi, troppo superficialmente per le facili gag visive. E verso il finale si ammoscia. A trascinare il film verso il pubblico è un Abatantuono violentemente sopra le righe. Oltre a una Lodovini funzionale, c’è Mastandrea nell’unico personaggio complesso e ambiguo, intelligente ma anche coglione, come lo definisce la madre che lo detesta.
Dopo aver dedicato trent’anni alla sua squadra di provincia che gioca in serie A sempre in bilico sulla retrocessione, un direttore tecnico viene messo da parte da un nuovo padrone rampante. Non s’è mai fatto in Italia un bel film sul calcio; questa dolceamara commedia con la sordina ha il merito di raccontare l’ambiente calcistico e i suoi retroscena con un minimo di realismo critico: mostra quel che la TV non fa mai vedere. U. Tognazzi ci mette l’anima, e l’amarezza. Scritto dai fratelli Pupi e Antonio Avati con Italo Cucci e Michele Plastino, giornalisti sportivi. Nastro d’argento e David di Donatello alle musiche di Riz Ortolani. David anche al suono di Raffaele De Luca.
Attore viziato dalla vita e dal mestiere, sciupafemmine e pluridivorziato, infantilmente irresponsabile, Sandro Lanza gira con difficoltà la boa dei 50 anni. Crisi esistenziale e professionale: lo stanno emarginando da una soap opera che per anni l’ha reso popolare; gli va male un intervento di chirurgia estetica. Gioca la carta del tentato suicidio annunciato e all’ospedale accorrono le tre figlie, avute da tre mogli diverse. Per riaccasarlo lo fanno incontrare con una sua ex fan, anche lei vittima della labilità maschile. 5° film di P. Avati con D. Abatantuono, forse il 1° che ha nel titolo la definizione di genere e in coda la filmografia – inventata – del protagonista. Commedia di ritmo alacre, ricca di puntute annotazioni di costume (affilata e leggera in quelle satiriche), giocata con finezza sull’ambiguità dei sentimenti familiari. L’amarezza di fondo si stempera alla fine, rivelando la sua nascosta natura di racconto di formazione. Recitata benissimo da tutti, compresa F. Neri, in un ruolo eccentrico e lontano dalle sue corde abituali.
Il 31 dicembre 1899 si prepara una festa di nozze in un villone della campagna emiliana, a Sasso Marconi. Figlia di un avvocato in difficoltà finanziarie, Francesca è costretta a un matrimonio di convenienza con un ricco possidente quarantenne che per testimone ha scelto il compaesano Angelo, da poco rientrato dagli Stati Uniti dove, sembra, ha fatto fortuna. Francesca lo vede ed è amore a prima vista. Ammirevole a livello descrittivo (la 1ª parte è quasi un documentario sugli usi e costumi della borghesia terriera di 100 anni fa), il film zoppica negli sviluppi narrativi. Vengono al pettine i nodi degli artifizi romanzeschi, gli errori di sceneggiatura, la discutibile scelta degli interpreti, gli spunti macchiettistici. Curata la parte figurativa, specialmente nella fotografia di Pasquale Rachini.
Calabria 1960. Il tredicenne Mimì ha la passione della corsa, ma il padre ex contadino vorrebbe che studiasse. L’aiuta invece l’autista comunista Felice, allenandolo. Come nelle favole, i momenti di commozione sono quasi didascalici, ma non riscattano la fiacchezza narrativa, l’approssimazione sociologica, lo zuccheroso sentimentalismo. Persino Volonté è in ombra. Da una sceneggiatura di Demetrio Casile, premiata al premio Solinas. Riveduta, corretta e aggiustata da Ugo Pirro e Francesca Comencini.
Alla vigilia del cambio di gestione, i camerieri del ristorante Eden si giocano il posto di lavoro in una cena in onore del nuovo proprietario. Alla loro testa Loris, maître della vecchia guardia, interpretato da Paolo Villaggio. Una commedia italiana al di sopra della media.
Uno psicologo della Usl, parecchio tediato dal suo grigio tran-tran, incontra un amico dalla vita (al contrario) molto complessa (è sposato e ha un’amante). L’amico muore: lo psicologo eredita la sua situazione sentimentale. Tampinato da ben quattro donne (oltre a quelle dell’amico, ha anche le sue da tenere a bada, la fidanzata e una paziente psicolabile.
Dario (Abatantuono) e Federico (Bentivoglio) sono due attori e amici inseparabili. Partono su una vecchia Mercedes per una tournée in Puglia con un tragicomico allestimento di Il giardino dei ciliegi di Cechov. Durante il viaggio l’estroverso Dario deve dire a Federico di essersi innamorato della sua fidanzata (Morante). Il tema centrale è l’amicizia virile raccontata da Salvatores – 25 regie teatrali qui al suo 4° film – con una superficialità riscattata dal brio descrittivo dell’ambiente teatrale, dalla leggerezza degli sketch comici e delle divagazioni, dal sapiente uso del rock anni ’70. Grande affiatamento tra Abatantuono e Bentivoglio.
Venuti a sapere che l’amico Rudy è detenuto in Marocco per droga, quattro milanesi, ultratrentenni ex sessantottini, partono con 30 milioni di lire (nascoste) necessari per il rilascio. Ben diretti tutti gli attori in sintonia con i personaggi, ma banale e folcloristico il rapporto del regista col paesaggio. Film di viaggio sull’amicizia, l’avventura, la fuga verso l’utopia, sostenuto da una sceneggiatura ben congegnata e un po’ ruffiana che prese il premio Solinas, firmata da Carlo Mazzacurati, Umberto Contarello, Vincenzo Monteleone. Musiche: Roberto Ciotti con Lucio Dalla che canta “L’anno che verrà”. Divertente la sequenza sul set abbandonato di un western italo-spagnolo.
Si capisce subito che il “giro” di Alberto è di gente competitiva, esibizionista. Guai a rimanere indietro. Le carte di credito non funzionano. Non è un errore, semplicemente il consulente finanziario Tombolini è scappato in Australia coi soldi dei clienti, compresi quelli di Alberto (Abatantuono). Con moglie e figlia dovrebbe andare in vacanza ai Caraibi, ma senza soldi non si può, però non si può nemmeno fare la figuraccia con gli amici. La soluzione è dunque chiudersi in cantina e far finta di essere partiti. Sapore di vecchia commedia italiana (il Sordi del boom) e di Mamma ho perso l’aereo. A volte si sorride.
Dopo i buoni risultati di critica e di pubblico riscossi da Il portaborse, Luchetti si getta in un’impresa ambiziosa. Il grottesco non è nelle sue corde. Così con gli onnipresenti Rulli e Petraglia (che in realtà hanno al loro seguito molti scribacchini) ha voluto sorprendere con alcune scene a effetto che ricordano in due casi (l’esplosione coi rifiuti che volano ovunque e la scena finale con O’sole mio) gli aspetti negativi dei film di Tornatore. Quel tentativo cioè di vendere all’estero le cose che si aspettano gli stranieri da noi. Gli echi felliniani che in La settimana della Sfinge risultavano gradevoli, qui danno fastidio. Rimangono alcune scene divertenti e la buona volontà degli interpreti. La storia è presto detta. Fortezza, giudice suo malgrado, arriva in un paesino meridionale dove abita Mario, un truffatore da quattro soldi sul quale deve indagare. In realtà i veri crimini se li spartiscono la borghesia e un procuratore. Fortezza, dopo aver mandato in carcere Mario, si innamora della sua fidanzata. Ma dopo un matrimonio posticcio li aiuterà a coronare il loro sogno d’amore.
Un film di Neri Parenti. Con Christian De Sica, Massimo Boldi, Nino D’Angelo, Diego Abatantuono, Ugo Conti. Comico, durata 100 min. – Italia 1998. MYMONETRO Paparazzi valutazione media: 3,10 su 20 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Il primo impulso era quello di liquidare il film come si è sempre fatto in questa sede con le “vanzinate” e le loro diramazioni più o meno degeneri: storie banali per chi si diverte davanti al televisore il sabato e la domenica. In realtà Paparazzi offre molto di più, rappresentando, involontariamente crediamo ma con grande efficacia, la “degenerazione-sociale-da-televisione”. I paparazzi rincorrono lo scoop cercando di sorprendere in flagrante i personaggi della televisione. E ci sono proprio tutte le vallette-presentatrici che vanno per la maggiore, le bellezze riprodotte dallo stesso stampo, in una parata di silicone che sembra una mostra, col “valore aggiunto” del grande schermo che evidenzia molto più del piccolo e permette, coi primi piani di molti metri quadrati, il riscontro impietoso: dietro il silicone niente. C’è una ragazza che è pronta a tutto pur di finire su una copertina: tende un agguato a Carlo Conti per baciarlo e farsi fotografare. Carlo Conti rappresenta, insieme a troppi come lui, quel divertimento che attenta alle cellule cerebrali della gente. Sono questi i semidei che fuggono (fingono di fuggire) dai paparazzi su barche da miliardi, e fanno la doccia in bagni grandi come piscine. Rappresentanti di una felicità e di un annebbiamento mentale forse propugnati in altissimo loco, come contrappeso terzomondista al versante della nostra politica. Risultato: abbiamo i politici e la televisione più ridicoli e grotteschi dell’occidente. Certo, il film di Parenti ci ha portati un po’ lontani, ma richiami e letture possono anche essere quelli. In chiave squisitamente critica diciamo che una persona di normale intelligenza ride una sola volta, quando Nino D’Angelo, “incinto” viene messo in posizione per partorire. Comunque, in virtù del beneficio del dubbio e della professionalità di molti – da Abatantuono a De Sica – il film viene, parzialmente, salvato. View full article »
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