La dolce vita di due universitari americani dopo la fine della 2ª guerra mondiale: divertimento, sesso, baldorie, scambi di confidenze e di compagne di letto. Arrivano ai quarant’anni svuotati e con l’amaro in bocca. Passato il clamore del piccolo scandalo per la spregiudicatezza, visiva e verbale, nel trattare il tema del sesso, che cosa rimane? Un film pretenzioso, artificioso e verboso, efficacemente recitato da una squadra di attori ben diretti dove – più che i 2 protagonisti J. Nicholson e C. Bergen, ormai nell’anticamera del divismo – sono apprezzabili Ann-Margret, A. Garfunkel e, in una particina, l’esordiente Carol Kane. Il copione è di Jules Feiffer che l’aveva scritto per il teatro; fu messo in scena soltanto nel 1990. Fotografia dell’italiano Giuseppe Rotunno, per la prima volta a Hollywood.
Negli anni Trenta, il produttore di una casa cinematografica si innamora di una ragazza che gli ricorda la moglie defunta, e per lei trascura anche il lavoro. Quando la giovane sposa un altro, il produttore, sconfortato, perde aggressività nel lavoro e viene cacciato dal suo posto. Da F.S. Fitzgerald.
Charley Partanna, killer di “Cosa Nostra”, prende una sbandata per una bionda misteriosa, che ha conosciuto durante una festa di nozze della “famiglia”. Charley sposa la biondina dopo averla inconsapevolmente resa vedova. E qui la situazione precipita: la bella sposina, che nel frattempo si è scoperto essere a sua volta una professionista dell’omicidio, si è intascata un milione di dollari di proprietà del clan. Per sbrogliare la matassa, Charley si vedrà costretto a far fuori la dolce metà.
Missouri Breaks (Montana), 1870 circa: contro una banda di ladri di cavalli un ricco allevatore assolda un bieco sicario, ma il capo dei ladri lo sgozza e si trasforma in ranchero. Il 3° western di Penn è un antiwestern, dinamitato dall’interno, con due divi che fanno a gara a recitare sopra le righe. Film dell’eccesso, premeditatamente sgradevole, ma geniale nel suo lucido e critico sadismo, di esplicita simpatia per i ribelli e di avversione dichiarata per i tutori dell’ordine. Brando, gran pagliaccio dei travestimenti, sovrasta Nicholson che si prende la rivincita in una bella scena d’amore. Fiasco negli USA, apprezzato in Europa.
Sono passati diversi anni da quando un boss della mafia irlandese ha spedito un suo giovane protetto nei ranghi della polizia, a fare da infiltrato. Più o meno contemporaneamente, un giovane poliziotto era passato dall’altra parte della barricata, con lo scopo di incastrare l’associazione a delinquere. I due finiranno col fronteggiarsi…
I rapporti tra Aurora e la figlia trentenne Emma non sono mai stati facili. Mentre la prima intreccia una relazione con ex astronauta vitellone, la seconda si ammala di cancro. E le lascia i figli. Gran duetto MacLaine-Winger con Nicholson in secondo piano. Si passa dalla commedia al mélo con grande spreco di commozione, ma l’abilità di confezione è innegabile. Tratto da un romanzo (1975) di Larry McMurtry, fu coronato con 5 Oscar (film, regia, sceneggiatura, MacLaine, Nicholson).
Da un romanzo (1962) di Ken Kesey: pregiudicato, trasferito in clinica psichiatrica, smaschera il carattere repressivo e carcerario dell’istituzione. La rivolta dura poco, ma lascia qualche segno. Premiato con 5 Oscar (film, regia, Nicholson e Fletcher, sceneggiatura di Bo Goldman e Laurence Hauben) _ come non succedeva da Accadde una notte (1934) _ è un film efficacemente e astutamente polemico sul potere che emargina i diversi e sul fondo razzistico della psichiatria. La sostanza del romanzo onirico di Kesey, scritto in prima persona, è depurata e trasformata in allegoria nell’adattamento scenico che ne fece Dale Wasserman e che forma la base della sceneggiatura. (Fu portato in scena nel 1963 da Kirk Douglas che spinse il figlio Michael a produrre il film.) Ottima squadra di attori che comprende anche il pellerossa W. Sampson.
4ª trasposizione del romanzo (1934) di James Cain, la 1ª che mette in immagini esplicite la rude e aggressiva sensualità che, per ragioni di censura, i registi precedenti avevano dovuto comprimere o elidere. Di questa storia di un amore che, nato da una violenta attrazione fisica, si trasforma in un rapporto più profondo e complesso, Rafelson fa un altro film sul “sogno americano”, la sua trasformazione in incubo, descrivendone _ col contributo notevole della fotografia di Sven Nykvist _ il contesto sociopolitico. Più che J. Nicholson, un po’ troppo vecchio per la parte e talvolta sopra le righe, è ammirevole J. Lange, migliore delle 3 attrici che l’hanno preceduta: Corinne Luchaire, Clara Calamai e Lana Turner
Inviato nell’Africa settentrionale per un servizio sulla guerriglia, David Locke, giornalista televisivo angloamericano, assume i documenti e l’identità di un certo David Robertson, morto d’infarto in un hotel del Sahara.È come se, fra tutte le vite, sorteggiasse una vita qualunque, lasciandosi sedurre dall’avventura di esistere in un altro modo, pur intuendo e poi sapendo che questa seduzione porta soltanto a uno scacco o alla morte. Così accadrà. Da un soggetto di Mark Peploe che ha collaborato alla sceneggiatura con David Wollen e il regista, è uscito un “film intimista d’avventure”, un giallo che si porta addosso un mistero. Questa ossatura narrativa _ non nuova in Antonioni e, come il solito, incongruente e persino inattendibile _ si confronta col mestiere di riferire la verità (?) e si esprime con la tecnica dell’intervista. “Si ha la sensazione che una mano documentaria segua e registri la mano che sta inventando la storia e che si crei una tensione fortissima fra queste due mani, che è la vera tensione del film” (Furio Colombo), quasi si tentasse di dare una verità più grande di quanto ne possa contenere la trama. Ma il film può essere letto anche come un’autobiografia e un’autocritica. Allora acquistano un senso più profondo la contrapposizione tra gli sfondi desertici del Sahara e le eccentriche architetture di Antoni Gaudí a Barcellona, l’ossessivo indugio sul bianco come colore di morte, le 2 figure femminili (la moglie che, infaticabile e ottusa, cerca le “prove”; la piccola santa senza speranza di M. Schneider), la celebre, virtuosistica sequenza finale di 7 minuti. Fotografia di Luciano Tovoli. In Spagna: El reporter; nei Paesi di lingua inglese: The Passenger. Nastri d’argento a M. Antonioni per il miglior film e a Tovoli per la fotografia.
Sean Penn, al suo terzo lungometraggio, dimostra la stoffa dell’abile confezionatore di film di buon livello capaci (ed è già molto) di tenere desta l’attenzione dello spettatore. Il film si ispira al romanzo omonimo dello scrittore svizzero Friedrich Durrenmatt, anche se ben poco resta dello spirito tipicamente centroeuropeo di un autore che affermava la prevalenza del ‘gioco’ sul ‘messaggio’. L’ispettore di polizia Jerry Black è giunto al giorno della pensione. Arriva però la notizia del ritrovamento del cadavere straziato di una bambina e Black si offre per l’avvio delle indagini. Queste hanno breve durata perché il presunto colpevole viene catturato e sembra ‘firmare’ la propria confessione sottraendo una pistola a un poliziotto e sparandosi in bocca. Il caso è chiuso ma Black non è convinto: ha promesso solennemente alla madre di prendere l’assassino. Riesce così a scoprire un’area in cui il killer di bambine (tutte con le stesse caratteristiche) ha agito negli ultimi anni. Vi si installa rilevando un piccolo negozio di articoli vari e ottenendo la fiducia della barista locale che ha una figlia che per età e caratteristiche fisiche assomiglia alle uccise. Jerry è fermamente deciso a tutelare la piccola ma anche a prendere il killer. Penn gira con grande tatto anche se manca quel salto di qualità che è proprio dei grandi registi.
In Melvin Udall (Nicholson), autore di romanzi sentimentali, la misantropia è fondata su ossessive turbe maniacali. Le circostanze l’obbligano a prendersi cura di un odiato cagnetto e poi del suo padrone (Kinnear), pittore gay ridotto su una sedia a rotelle da un’aggressione. Grazie a loro e a una cameriera di cui s’innamora il misantropo subisce una metamorfosi. Scritta dal regista con Mark Andrus, è una commedia comico-sentimentale che nella 2ª parte pigia il pedale del sentimentalismo. Con la voce italiana di Michele Gammino, Nicholson istrioneggia in modo ammirevole o irritante, secondo i gusti, e non si fa rubare la scena nemmeno da un bravissimo cagnetto dagli occhi umani. H. Hunt è la sua degna complice, non succuba. Un Oscar a Nicholson e uno alla Hunt come migliori attori protagonisti.
Billy e Wyatt, con i serbatoi delle moto imbottiti di droga, attraversano il sud dell’America in cerca di fortuna. Arrestati per aver sfilato insieme a una banda senza l’apposito permesso, vengono aiutati da un avvocato che decide di unirsi alla loro avventura. Road movie sceneggiato dai due interpreti principali, Peter Fonda e Dennis Hopper, e diretto da quest’ultimo, Easy Rider è un racconto sulla libertà, un viaggio che ha per meta il Carnevale di New Orleans, la festa della città sul grande Delta. E stavolta è necessario un racconto amarissimo e crudele, che alla fine indigna senza parole, per denunciare lo squallore e la paura della provincia bianca e borghese del sud nel 1969. Una paura che si manifesta rozzamente nei confronti di qualsiasi minima e pericolosa traccia di diversità. Se a questo aggiungiamo l’evidenza di un grande cinema, in cui i paesaggi che cambiano, gli interpreti e la musica sembrano danzare all’unisono una ballata disperata senza scampo, allora, forse, diventa facile per lo spettatore riconoscere la presenza di una visione unica e irrepetibile nell’immaginario cinematografico. E nella quale la mano dell’autore, (con quegli scatti di montaggio che anticipano spesso le inquadrature successive) si rivela in tutta al sua destabilizzante natura. E quando il desiderio di libertà si cristallizza in fuga e assume sembianze allucinatorie e lesionanti, come nella sequenza dell’acido, le voci e le immagini si fondono, delirano, e trascinano chi guarda lentamente alla deriva
Pianista vagabondo e sradicato torna a casa dopo una lunga assenza per l’ultimo saluto al padre, ma l’atmosfera lo soffoca come una ragnatela. Guidato dall’istinto di vita, si rimette in strada senza bagagli. Uno dei migliori film americani degli anni ’70. Racconto di scontento, non di contestazione. Analisi di un’inquietudine, non di un dubbio. Film della coscienza infelice, è ricco di finezze psicologiche e paesaggistiche. Scritto da Adrien Joyce, pseudonimo di Carole Eastman.
Gli ultimi anni di John Reed (1887-1920), giornalista americano socialista che, dopo una tempestosa relazione con Louise Bryant, parte con lei per Pietroburgo dove sta per scoppiare la rivoluzione. Scriverà I dieci giorni che sconvolsero il mondo (1919). Uno dei pochi film hollywoodiani dove gli intellettuali sono raccontati con simpatia, e l’unico che ha per protagonista un comunista rispettabile e sensibile. Un po’ squilibrato nel rapporto tra privato e pubblico, tra sentimenti e idee, ma con vigorose pagine specialmente nella parte finale in Russia. 12 nomination e 3 premi Oscar (regia, fotografia di V. Storaro e M. Stapleton attrice non protagonista nella parte di Emma Goldman).
Jack Torrance è uno scrittore in crisi in cerca dell’ispirazione perduta. Per trovarla e sbarcare il lunario accetta la proposta di rintanarsi con la famiglia per l’inverno all’interno di un gigantesco e lussuoso albergo, l’Overlook Hotel, solitario in mezzo alle Montagne Rocciose. L’albergo chiude per la stagione invernale e il compito di Jack sarà quello di custodirlo in attesa della riapertura. Nel frattempo, pensa Jack, lui potrà anche lavorare al suo nuovo romanzo. Con lui, la devota mogliettina Wendy e il figlioletto Danny, per nulla entusiasta della prospettiva.
Nel colloquio con chi gli affida il lavoro, Jack viene messo a conoscenza che qualche anno prima proprio in quell’hotel è successo un tremendo fatto di sangue: un precedente custode era impazzito, forse per la solitudine, e aveva sterminato la propria famiglia con un’ascia prima di suicidarsi.
Jack assicura che niente del genere potrà capitare a lui. All’albergo, il giorno della chiusura, Jack riceve le consegne e le istruzioni, Il posto è fantastico e tutto sembra perfetto. Ma Danny comincia a vedere strane cose e l’inverno all’Overlook Hotel sarà molto lungo. Stanley Kubrick, uno dei pochi autentici geni del cinema, non si è mai preoccupato di “abbassarsi” all’utilizzo del cinema di genere, cogliendo anzi l’occasione del confronto con stilemi e convenzioni stratificate per trarne nuova linfa creativa. E, incidentalmente, magari per rivoluzionare il genere di cui si occupava, come è di certo successo per esempio nel caso della fantascienza e di 2001: Odissea nello spazio. Con Shining, Kubrick opera in modo non dissimile. Prende un romanzo horror di successo (di Stephen King) e lo interpreta a modo suo andando con geometrica lucidità all’essenza del genere e nello stesso tempo allontanandosene per elaborare un percorso del tutto personale.
Los Angeles, 1937: investigatore privato scopre un omicidio collegato a un caso di corruzione pubblica e una terribile e scandalosa vicenda privata. È un film profondamente chandleriano senza Chandler, dunque foscamente romantico. Chandleriano è anche l’umorismo che ne sorregge il pathos nella descrizione di un mondo corrotto non solo politicamente in cui la presenza del male _ incarnato dalvegliardo capitalista J. Huston _ è ossessiva e sinuosa, mostruosamente ambigua. Pur senza abbandonarsi a esercizi di nostalgica archeologia, fece scuola nel campo della rivisitazione del cinema nero. 11 nomination (tra cui J. Nicholson e F. Dunaway) e Oscar per la sceneggiatura di Robert Towne. Seguito da Il grande inganno (1990) di J. Nicholson.
A Omaha (Nebraska) Warren Schmidt scopre, quando va in pensione, il vuoto della propria esistenza. Inizia un rapporto epistolare con Ndugu, bambino della Tanzania che ha adottato per 22 dollari al mese. Rimasto vedovo parte in camper per un viaggio durante il quale approfondisce il senso del suo fallimento. Da un romanzo di Louis Begley, sceneggiato con Jim Taylor, A. Payne assume il viaggio come una tappa esplorativa del vuoto interiore e del distacco dalla realtà. La sequenza più significativa è la visita al museo-parco a tema sulla conquista del West, all’insegna del grottesco. Nel suo istrionismo in sordina, l’interpretazione di J. Nicholson è la forza del film, ma anche il suo limite. Se si toglie la futura consuocera (la vispa K. Bates), le figure di contorno sono facili bersagli satirici più che personaggi vivi.
Edward Cole è un ricchissimo ed eccentrico proprietario di cliniche che, a seguito di sue stesse direttive, si trova ricoverato in una propria struttura assieme al decisamente più umile e tranquillo Carter Chambers. Entrambi con pochi mesi davanti, a causa di una grave malattia, decidono di togliersi, nel breve tempo che resta loro, tutti gli sfizi che non hanno mai potuto levarsi nella propria vita: il viaggio che li vedrà protagonisti però, servirà a ben altro… Ridere della morte? Difficile, ma non impossibile. Succede, troppo raramente a dirla tutta, anche in Non è mai troppo tardi, film “evento” che mette assieme per la prima volta due grandi vecchi del cinema americano. Il rischio peggiore in film di questo tipo è che il melodramma soverchi lo humour, unico antidoto alla depressione a cui potrebbe indurre il tema trattato e, fortunatamente, il consumato mestiere dei due divi evita derive troppo deprimenti. Lo script è però drammaticamente prevedibile, con Nicholson che fa l’arrabbiato e il matto (come al solito), mentre a Freeman (migliore del compare che si “diverte” un po’ troppo) è cucito addosso un personaggio decisamente più flemmatico e riflessivo. La storia ha alti e bassi e vorrebbe mirare dritto al cuore, anche se mancano momenti realmente commoventi e l’intero progetto sa troppo di pensato a tavolino per sfruttare le caratteristiche dei due attori. Qualche perplessità la lascia anche il modo con il quale è raccontata l’imminenza della morte, laddove altri film mostrano contemporaneamente l’amarezza e l’ineluttabilità del momento, Non è mai troppo tardi la prende come mero spunto per permettere ai due protagonisti di farsi una scampagnata in giro per il mondo senza nemmeno troppi patemi. Rainer ha fatto decisamente di meglio, quanto alla coppia di divi, beh, meglio ricordarli per altre pellicole… Un stella in più del dovuto alla storia cinematografica di entrambi.
Nicholson è il padre, la Huston la madre. La loro bambina di sette anni è stata travolta da un giovane che guidava ubriaco. La famiglia si è sfasciata, la donna si è risposata e si è portata via gli altri due figli. Il padre è un uomo distrutto, che vive solo in attesa che “l’assassino” della figlia esca di prigione per ucciderlo. Ci prova ma la pistola si inceppa, allora concede all’altro ancora tre giorni di vita. Quando si ripresenta, il giovane, a sua volta distrutto dal rimorso, fugge. Corrono a lungo attraverso la città finché si ritrovano al cimitero, sopra la lapide della bambina che il padre non aveva mai visto. A parte l’eccesso di sentimento nella scena madre finale, comunque commovente, Penn dirige rigorosamente e Nicholson (molto dimagrito) accentua il suo storico personaggio di “maledetto”.
Da una pièce di Aaron Sorkin che l’ha anche adattata. Due marines della base militare USA di Guantánamo a Cuba sono deferiti al tribunale militare per l’omicidio di un commilitone. Il trio dei difensori si convince che fu un’applicazione di “codice rosso”, la norma non scritta che impone dure correzioni fisiche ai compagni che sbagliano e che, data la rigida disciplina, non poteva non essere stata autorizzata, anzi ordinata dai superiori. Pur calato nelle convenzioni e negli stereotipi del dramma giudiziario, è un film ammirevole per la sagacia nel dar forma drammaturgica alla problematica morale sui limiti dell’obbedienza, per il disegno dei personaggi, per la capacità di dosare gli ingredienti, i toni, la suspense. J. Nicholson, in 3 scene, rischia di rubare il film a T. Cruise. Benissimo gli altri.
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