Nicole, figlia di Bonnet, noto mecenate, vuole rubare da un museo di Parigi una statuetta del Cellini prestata dal padre. In realtà, la ragazza sa che la statuetta è falsa. Trova aiuto in un giovanotto che si innamora di lei ed escogita un astutissimo piano per portare a termine il furto. Però il giovane non è un ladro, come lei crede, ma un detective esperto nello scoprire falsi.
Brennan interpreta, in maniera quanto mai pittoresca, il vecchio giudice Roy Bean, detto “la legge ad Ovest del Pecos” (o altrimenti l'”uomo dai sette capestri”: ricordate il film con Paul Newman?). Bean è un personaggio divertente e picaresco, ma anche un fior di filibustiere che taglieggia gli agricoltori della sua zona. La resa dei conti per lui arriva nella persona del vagabondo Gary Cooper che attira il giudice in una trappola fuori del suo paese-fortezza.
Film determinante e riformatore: girava la pagina della guerra. Il problema dei reduci era colosssale. I giovani tornavano dal Pacifico e dall’Europa e portavano cambiamenti. Avevano visto cose diverse e rientravano in un paese diverso. Il reinserimento era difficile, per i soldati e per chi era rimasto a casa. Il produttore Samuel Goldwyn, attentissimo ai grandi fatti, e il regista William Wyler, la firma più sicura di Hollywood, affrontarono un tema davvero ricco: i milioni di storie individuali, vere e proprie sceneggiature bell’e pronte, e il grande desiderio di cambiamento che si porta una guerra. Lavorando febbrilmente per non farsi sorpassare dai fatti reali, e prendendo spunto da un libro di Mackinley Kantor non eccelso, la produzione costruì un film che rappresentò quel problema come nessun altro titolo sarebbe mai riuscito a fare. È la storia di un caporale (March), un soldato (Russell) e un ufficiale (Andrews) che tornano nella loro cittadina di provincia. March è accolto dalla moglie (uno dei più begli abbracci del cinema) e dai due figli. Ma tutto sommato il trauma che vive è superabile, è stato soprattutto un problema di lontananza. Il resto è rimasto quasi com’era. Dana Andrews aveva sposato una ragazza appena conosciuta, irrequieta e capricciosa. Al ritorno il matrimonio va subito a rotoli. Ma non era vero amore se lui si innamora della figlia di March. Il terzo reduce era un autentico mutilato di guerra, Harold Russell, che aveva due protesi invece delle mani. Wyler lo aveva visto in un documentario, Diario di un sergente, e aveva intuito le sue qualità di attore. Russell si rivelò talmente bravo da meritare l’Oscar, che all’inizio degli anni Novanta è stato costretto a mettere all’asta per necessità. Il suo personaggio riesce, con grandi sofferenze, a reinserirsi, grazie anche alla buona volontà di tutti, soprattutto della sua fidanzata. Il film commosse il mondo e ottenne ben sette Oscar (fra gli altri al film, al regista, a March e al compositore Friedhofer). Il romanzo di Kantor non prevedeva il lieto fine e Wyler era orientato ad aderire allo storia originale, ma, come spesso accadeva, da Washington arrivò l’invito per il lieto fine: non era davvero il caso di demoralizzare ulteriormente tutti quei giovani già carichi di problemi. Inaspettatamente l’ottimista e spensierata Hollywood si trovava immersa in problemi veri e dolorosi. Il cinema stava per diventare qualcosa di più di una spensierata evasione.
Siamo in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale. La signora Miniver è un’intrepida madre di famiglia che in assenza del figlio soldato e poi anche del marito si arrabatta per la sopravvivenza, sotto i bombardamenti, dei figli e della nuora.
Cronaca di un giorno d’agosto in un ufficio di polizia a New York. Un ispettore di patologica durezza, scoperta una macchia nella sua famiglia, entra in crisi. Eccellente adattamento del dramma teatrale (1949) di Sidney Kingsley con un Douglas in gran forma e un ottimo reparto femminile. Quasi assoluta l’unità di tempo e di luogo, un po’ verboso, geometrico nella fluidità dell’azione complessa, didattico senza pesantezze come riflessione sulla violenza con risvolti pseudofreudiani, Detective Story è, come Ore disperate (1955) dello stesso Wyler, il “pilota” involontario di una lunga serie di film. 5 candidature all’Oscar. Sceneggiatura di Philip Yordan e Robert Wyler, fratello del regista (con collaborazione non accreditata di Dashiell Hammett). 1° film, e ultimo prima di essere messa sulla lista nera per le sue idee di sinistra, di L. Grant (la ladra).
Un armatore navale, Jim, si reca nel West per sposare la bella figlia di un ranchero. Ma il futuro suocero è impegolato in una guerra privata con il suo vicino. L’armatore, uomo pacifico, rifiuta di schierarsi da una parte o dall’altra. Il fidanzamento viene rotto. Poco male: l’armatore, a guerra privata finita, si sposerà una simpatica maestrina. Western di ampio respiro che appaga molto gli occhi, ma riesce meno significativo del previsto. Heston è relegato in secondo piano, ma accettò la parte perché Wyler gli promise il ruolo principale in Ben Hur. Il film è comunque ritenuto un classico.
Un cinegiornale annuncia la visita della giovane principessa Anna nelle principali capitali europee. L’ultima tappa è Roma, dove, dopo un ricevimento in ambasciata di fronte a tutte le cariche istituzionali e gli esponenti della nobiltà internazionale, la principessa esausta e frustrata dai suoi impegni diplomatici ha una crisi nervosa. Il dottore di corte le somministra un sonnifero, ma prima che faccia effetto, Anna riesce a fuggire da palazzo nascondendosi nell’autocarro delle vivande. Viene trovata poco dopo sdraiata nei pressi dei Fori Imperiali dal reporter americano Joe Bradley, che, senza averla riconosciuta, cerca invano di metterla su un taxi che la riporti a casa, per poi decidere di ospitarla nel proprio studio. Il giorno dopo, Joe si reca alla redazione del suo giornale e solo là, dopo aver visto una foto sul quotidiano del giorno, comprende chi sia realmente la ragazza che sta dormendo a casa sua. Joe scommette allora col suo capo che per il giorno seguente gli farà avere un articolo esclusivo sulla principessa e mette in allerta un suo amico fotografo. Dopo aver accompagnato i pedinamenti e il vago errare dei maestri del neorealismo, Roma aveva bisogno di riscoprire la sua dimensione mitica, fiabesca e aprire quella dimensione gioiosa che sarebbe poi diventata caratteristica della Dolce Vita. “Città aperta” da ormai un decennio, popolata da “ladri di biciclette” quanto da fotografi d’assalto (i futuri paparazzi), la capitale italiana viene esplorata da William Wyler in tutta la sua caotica vitalità senza stereotipi né forzature. La Roma del folklore popolare e la Città Eterna dell’incanto romantico convivono in una fiaba dolceamara che rilegge Cenerentola a ruoli invertiti. Illuminato dal sorriso vivace e dalla fresca bellezza di Audrey Hepburn, Wyler sceglie di far interpretare a questa giovane attrice ancora poco conosciuta la principessa inquieta e incuriosita dalla vita al di fuori di palazzi e ambasciate, affiancandole la star più matura e conosciuta di Gregory Peck. L’Oscar come miglior attrice gli darà ragione e consacrerà la Hepburn al ruolo di Cenerentola glamour del grande schermo (Sabrina, Cenerentola a Parigi). Ma i meriti di Wyler vanno ben oltre la semplice operazione di casting: la sceneggiatura delicata e intelligente di John Dighton e Dalton Trumbo (sostituito dal nome di Ian McLellan Hunter nei titoli a causa dei suoi problemi col maccartismo) trova nella sobrietà della messa in scena di Wyler la cornice più adatta a contenere l’energia esuberante dell’ambientazione romana. L’efficacia della regia la si riconosce in campo lungo quanto nel piccolo dettaglio, nel giocare a carte scoperte con lo spettatore sia quando si sottolinea la noia dell’ufficialità nobiliare con le continue dissolvenze incrociate della scena del ricevimento e il dettaglio della scarpetta della principessa, sia nella sequenza a Castel Sant’Angelo, che scandisce il tumulto di pugni, chitarre usate come mazze e flash fotografici con la grazia di una coreografia. Alla fine, l’onestà di Wyler rende Vacanze romane più un’avventura romantica che una fiaba alla Frank Capra, un’evasione che conosce il senso della misura e per la quale il valore dell’attimo e di una chiusa efficace risultano più importanti di qualunque happy ending. “E a mezzanotte, me ne tornerò, simile a Cenerentola, là da dove sono evasa.” – dice la Hepburn a Peck. Al che lui le risponde: “E sarà la fine di una bella favola”.
Dal dramma (1933) di Owen Davis: New Orleans, 1850. Giovane proprietaria di piantagioni esaspera con i suoi capricci l’uomo amato che la lascia e sposa un’altra. Quando anni dopo lui s’ammala di febbre gialla lo raggiunge in quarantena, disposta a morire. Due momenti forti in questo melodramma che fu la risposta (anticipata) della Warner a Via col vento: la scena del ballo e le sequenze dell’epidemia. La Davis vinse il suo 2° Oscar dopo Paura d’amare e la Bainter quello dell’attrice non protagonista. Nomination per regia, fotografia di E. Haller e musiche di M. Steiner, ammirevoli.
Il film è tratto dal romanzo Washington Square di Henry James. Una giovane donna timida e scialba si innamora di un uomo che mira soltanto alla sua dote. Il padre della ragazza tenta di dissuaderla e per questo la porta in Europa, ma al ritorno il cacciatore di dote riprende l’assedio. La ragazza annuncia al giovanotto che rinuncerà all’eredità paterna pur di poterlo sposare, e da quel momento l’innamorato sparisce. Si ripresenta dopo che il padre della fanciulla è morto, ma trova la porta irrimediabilmente chiusa. È un film eccellente. William Wyler era uno dei registi americani di gusto europeo. I tre protagonisti diedero il massimo; Clift, dopo essersi fatto conoscere l’anno prima col Fiume Rosso, si affermò del tutto.
Tratto dal romanzo di Jessamyn West. Quando in America scoppia la guerra civile (1861), una famiglia di quaccheri deve confrontare i propri principi religiosi con la realtà: fino a che punto si deve rinunciare alla violenza? Piuttosto ruffiano nel sentimentalismo con cui affronta il tema, accademico nello stile, ricco di carinerie, è soprattutto un film di attori, uno più bravo dell’altro. Palma d’oro a Cannes. Altro titolo: L’uomo senza fucile. Rifatto per la TV nel 1975 da J. Sargent.
Ventisei anni dopo la prodigiosa nascita di un bimbo in una mangiatoia di Betlemme, la Giudea è una delle province ribelli dell’impero romano. A prendere il comando militare della guarnigione di Gerusalemme è il tribuno Messala, caro amico d’infanzia di uno dei più nobili principi giudei, Judah Ben-Hur. Ma l’entusiasmo iniziale per l’amicizia ritrovata si converte ben presto in conflitto quando Ben-Hur rifiuta di tradire il suo popolo in nome di Roma. Un incidente avvenuto durante la cerimonia d’ingresso alla città del governatore è l’occasione di Messala per dimostrare la propria fermezza agli occhi del popolo in rivolta e a quelli del potere imperiale: pur conoscendone l’innocenza, il tribuno fa arrestare l’amico assieme alla madre e alla sorella. Mentre viene trascinato via per essere condotto alle galee dove servirà come schiavo, Ben-Hur promette vendetta.
Una donna volitiva e ambiziosa è al centro della storia. Disprezza il marito, ricco bancario ma onesto, che rifiuta certi loschi traffici. La donna giunge quasi fino al delitto per la brama di guadagno.
Freddie, introverso e timido, acquista una fattoria isolata e rapisce Miranda, di cui era da tempo innamorato. La tiene prigioniera nella fattoria e, dopo un primo periodo tempestoso, stringe con lei un patto di non belligeranza. Quando le profferte amorose di Freddie si fanno troppo violente, Miranda lo colpisce con una vanga. Per farsi curare la ferita l’uomo si allontana da casa e la ragazza, imprigionata, si ammala e muore.
Il Bene e il Male sotto forma di una pacifica famiglia e di tre evasi. I delinquenti, che devono stare nascosti in attesa che arrivino i soldi per fuggire all’estero, tengono prigioniera una famiglia formata dal padre bancario, dalla moglie, dalla figlia diciottenne e da un bambino. È una lunga storia tra i due gruppi: da un lato Humphrey Bogart, cinico e disperato, dall’altro Fredric March, consapevole dell’inevitabile vittoria del Bene. Rifatto da Michael Cimino con Mickey Rourke nel ruolo di Bogart.
In un piccolo paese Karen e Martha dirigono un collegio. Alda è fidanzata con un giovane medico del quale è segretamente innamorata anche Martha. Una ragazzina viziata, per vendicarsi di una peraltro meritata punizione, inventa un’odiosa calunnia che coinvolge i tre protagonisti. Sottile studio psicologico e d’ambiente, il film s’arresta davanti al tabù dell’omosessualità femminile, a differenza del dramma di Lillian Hellman da cui è tratto.
La scuola diretta da Karen e da Martha va incontro al fallimento dopo le calunnie lanciate contro le due insegnanti da una bambina maliziosa. Dopo un po’ di tempo la verità viene a galla, ma per Martha è troppo tardi. 2ª versione del dramma (1934) di Lillian Hellman, più fedele e franca della 1ª (La calunnia, 1935, con Merle Oberon e Miriam Hopkins), ma inerte. La bravura delle 2 protagoniste gira un po’ a vuoto
Da un romanzo di Donald Hamilton. Vecchia e rabbiosa inimicizia divide due famiglie del Texas. Solo la morte dei due capifamiglia riporta la pace. Superwestern moraleggiante di grandi ambizioni cui corrispondono solo in parte i risultati. Accademico, un po’ bolso, spettacolare. Oscar per B. Ives. La fotografia in Technicolor è di Franz Planer
“Baby Face” Martin, un pericoloso gangster, torna al quartiere che lo vide ragazzo. La madre lo caccia in malo modo, ma i ragazzini lo guardano come un eroe. Martin comincia a servirsi dei teppistelli per le sue imprese. Ma gli si oppone un architetto disoccupato, Dave. I due vengono a rissa e Dave uccide Martin. Con il denaro della taglia, potrà uscire dal ghetto e costruire un avvenire per sé e la ragazza di cui è innamorato.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.