Una serie di brevi episodi, nel classico stile di Godard, intercalati dalle prove di registrazione dei Rolling Stones. Il gruppo è alle prese con un unico brano, Simpathy for the Devil, che avrebbe fatto parte di Beggar’s Banquet, uno dei capolavori assoluti della loro carriera. In seguito però la canzone sarebbe divenuta tristemente famosa, perché durante la sua esecuzione ad un concerto un ragazzo fu pugnalato da un “Hell’s Angels”, incaricato del servizio d’ordine. Un po’ prolisso, il film è consigliato ai fan del gruppo, quelli più resistenti.
Michel Poiccard, ladro d’automobili, uccide un motociclista della polizia stradale che lo inseguiva per un sorpasso proibito. Tornato a Parigi, ritrova Patrizia, un’amichetta americana di cui s’era innamorato. Intanto è ricercato dalla polizia. Opera prima di Godard, questo film sul disordine del nostro tempo divenne il manifesto della Nouvelle Vague e, insieme con Hiroshima mon amour (1959) di Resnais, contribuì alla trasformazione linguistica del cinema negli anni ’60, sfidando le regole canoniche della grammatica e della sintassi tradizionali. L’anarchismo di cui fu accusato (o per il quale fu esaltato) è più formale che contenutistico: nelle peripezie dell’insolente Belmondo che fa il duro, imitando Humphrey Bogart, si nasconde molta tenerezza.
Una giornalista francese indaga negli Stati Uniti sulla morte di un amico comunista. I suoi avversari la sorvegliano e cercano di impedirle di scoprire la verità. Coinvolta, innocente, in un’accusa di omicidio, la donna riesce a cavarsela e, ormai individuati gli assassini del suo amico, li elimina, tornando poi in Francia.
Jean-Luc Godard imbastisce una situazione sullo scenario futuribile di un mondo uscito da una “Chernobyl” che ha azzerato secoli di arte e di pensiero. Tra gli stravaganti personaggi che popolano questo mondo polveroso, c’è William Shakespeare Jr. Quinto, discendente del Bardo, che persegue la missione di ricostruire i testi delle tragedie del grande antenato delle quali, ormai, si tramandano confusamente soltanto alcune battute. Instancabile ricercatore, egli sorprende Don Lear, un vecchio malavitoso, mentre recita alcuni versi del “Re Lear” a sua figlia Cordelia. Seguendo i due, Shakespeare Quinto raggiunge una piccola comunità che un certo Pluggy tiene in soggezione servendosi delle immagini che egli stesso monta e proietta da una rudimentale cinepresa cucendo assieme vecchi pezzi di pellicole dimenticate.
Godard si ispira alla classica storia d’amore e di morte di Carmen, la stravolge trasponendola ai giorni nostri (lei diventa una rapinatrice, lui un poliziotto) e la impacchetta in modo formalmente ineccepibile. Trasgressivo, cinico, sarcastico, provocatorio, il film tuttavia sembra quasi vivere di rendita sui passati allori del miglior Godard piuttosto che segnalarsi per ricchezza e originalità come tanti precedenti lavori del regista. Leone d’oro al Festival Internazionale del Cinema di Venezia nel 1983.
Ogni opera di Godard viene sempre attesa dai critici come momento di sfogo per parlarne male e chiudere il discorso inneggiando al tradimento della Nouvelle Vague. Così il regista francese ha deciso di attribuire a questa pellicola quell’etichetta pesante e se vogliamo posticcia. Una giovane donna molto ricca è nei pressi del lago di Ginevra, quando incontra un uomo in abiti dimessi e in fase depressiva. Lo fa entrare nel suo ambiente, ma non riesce ad animarlo. Lascerà che affoghi per poi rivederlo apparire molto diverso. Si tratta di resurezione? Godard fa riferimento all’Antico e al Nuovo Testamento, ma non è tutto. La cosa migliore è lasciarsi andare e vedere il film cercando di percepire le decine di citazioni sparse nel calderone di questo “ragazzo selvaggio” che non vuole decidersi a crescere.
Alla vergine Marie, figlia di benzinaio e fidanzata schiva di Joseph, Gabriel annuncia che avrà un figlio. Joseph smania e si dispera, ma grazie all’amore finisce per capire e accettare il figlio non suo. Epilogo degno di Buñuel. Sotto il segno della luna è un film che prende la storia della vergine Maria come modello in controluce, parafrasandolo attraverso figure contemporanee. È un film mistico, forse non cristiano, ma nemmeno blasfemo, benché non privo di un sottile umorismo in filigrana. Visivamente splendido. Distribuito in Italia – con il corto (25′) di Anne-Marie Miéville Il libro di Maria – in una edizione mal tradotta e scorciata di qualche minuto. Violenti e sdegnati attacchi di cattolici francesi e italiani (con intervento personale del papa Wojtyla). Premio della giuria ecumenica del Festival di Berlino.
Diversi e originali personaggi e le loro intricate vicende sfilano in un grande albergo di Parigi. Zio e nipote investigatori cercano di far luce su un vecchio delitto, una coppia in crisi deciderà di separarsi, un vecchio mafioso sceglierà di ritirarsi, un impresario di boxe lascerà libero il suo pugile suonato. Ma una morte violenta e casuale arriva, inaspettatamente per alcuni. Opera minore di Godard con la rockstar francese Halliday.
Un pugno di personaggi vive storie apparentemente indipendenti l’una dall’altra. In realtà ognuno di essi (c’è anche il regista Godard) aspira a trovare il significato della vita (almeno della propria).
“Lei” non è una donna. Non è Juliette Manson (Vlady) che si prostituisce a ore per integrare il bilancio domestico, ma la sua città, la regione parigina, l’intera società dei consumi che l’ha ridotta a oggetto. “Lei” è la vita di oggi (nel ’67, nell’87, nel 2007), la legge terribile dei grandi agglomerati urbani, la guerra del Vietnam, la morte della bellezza, la circolazione delle idee, la Gestapo delle strutture (da un “prossimamente” del film). Uno dei più agri film di Godard dove “il paesaggio diviene il vero volto delle cose” (U. Casiraghi). Memorabile la sequenza della tazzina di caffè.
Il regista Gaspard Bazin si prepara per le riprese di un lungometraggio. Ancora in fase di casting, chiede aiuto a Giovanni Almereyda, un produttore con un grande passato alle spalle, ma ormai in declino. Con sempre maggiori difficoltà finanziarie, il brillante Almereyda viene a sua volta spronato dalla moglie Euridice, desiderosa di diventare una star del cinema. Tra i due uomini s’instaura così un gioco perverso, con il produttore che tenta in tutti i modi di accontentare la moglie pur conoscendo la reputazione di seduttore impenitente di Bazin…
“Voi siete pieni di voglia di vivere. Io sono qui per dirvi no. Per morire”. Forse bisogna partire da questa dichiarazione programmatica per accostarsi al nuovo ultrapoliedrico pastiche dell’84enne Godard, che più invecchia più è avant-guardist , più spinge il suo innato sperimentalismo all’estremo. Impossibile, e comunque da tradimento, esporne una trama. È un collage anarchico di schegge di storie, analisi, aforismi, citazioni, immagini, suoni. Una sorta di Blob impazzito d’alto livello. Si può azzardare che protagonista ne è Roxy, il cane di Godard, araldo del “cinismo” (gli antichi cinici greci si fregiavano dell’appellativo “cani”), cioè di una filosofia della libertà assoluta basata sul rigetto totale della “civiltà” (“La TV fu inventata lo stesso anno in cui Hitler fu eletto cancelliere”). Ma ancor più che nei contenuti è cinico nella forma, un esempio attuale di “parresia”, cioè della capacità di dire, senza peli sulla lingua, verità scomode e irritanti: Godard usa 7 telecamere a diverse velocità, e quindi la stereoscopia e quanto di più avanzato e sofisticato la tecnologia offre, compreso il 3D, per bombardare la vista e l’udito dello spettatore con un fuoco di fila di urtanti, frastornanti, esasperanti provocazioni audiovisive. Eppure, in questo disorientante e respingente caos lucidamente organizzato, di quando in quando balenano visioni di sublime, lancinante bellezza, “alcuni momenti di grazia in un mare di cinismo intellettuale”. È, come altri film godardiani, un “vaniloquio narcisistico”, un esercizio di “nuova retorica del vuoto”? Oppure è un “film mistico” perché vuole azzerare tutte le false verità che ci assordano e ci assoggettano per aprirci a qualcos’altro che non può che presentarsi con la atterrente (non) identità del nulla? Se così fosse, il suo senso potrebbe essere lo stesso delle ultime parole pronunciate da Tommaso d’Aquino subito dopo l’esperienza dell’estasi: “Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia in confronto a quanto ho visto”. Inadeguato valutarlo in stellette. Premio della Giuria a Cannes 2014, ex aequo con Mommy di Xavier Dolan. Fotografia di Fabrice Aragno.
I carabinieri del re arruolano e spediscono in guerra due sottoproletari promettendo avventure, viaggi e ricchi bottini, i due, dopo aver fatto il loro dovere uccidendo in mezzo mondo e spedendo cartoline alla madre e alla sorella, tornano in patria dove vengono uccisi mentre vanno ad esigere il tesoro che il re ha promesso ai suoi eroi. Il più dichiaratamente brechtiano tra i film di Godard, non tanto perché vicino al tema di Un uomo è un uomo la divisa che trasforma l’uomo in assassino quanto per il tentativo di applicare al cinema la tecnica dell’estraniamento: quando uno dei protagonisti, durante le sue scorrerie, capita in un cinema, prima si spaventa per l’effetto della locomotiva che si fa incontro agli spettatori, poi cerca di scoprire le nudità di una bella bagnante, di afferrarla sullo schermo; ma il cinema è finzione e tra le mani gli rimane un lenzuolo. La fotografia, il montaggio, le didascalie di Les carabiniers sottolineano continuamente la presenza del « mezzo » tecnico, chiedendo continuamente al pubblico il distacco dalla vicenda.
François Truffaut, colpito dagli effetti di un’inondazione nella regione di Montereau, parte con la cinepresa a bordo di un’automobile presa in prestito da Chabrol. Dopo qualche giorno ritorna a Parigi credendo di aver buttato via tempo e seicento metri di pellicola. Ma Godard, dopo aver visto i giornalieri, chiede di poter rimontare liberamente il film. Riprese documentaristiche e di finzione raccontano una piccola storia sentimentale, le voci fuori campo (dell’attrice e di Godard) divagano e giocano fra citazioni e riferimenti dotti da Chandler, a Gordon Pym, da Baudelaire, a Balzac, a Paul Éluard, e poi Degas, Matisse, Goethe, Max Ophüls, Richard Wagner…
Un film di Jean-Luc Godard. Con Mireille Darc, Jean Yanne, Jean-Pierre Léaud, Virginie Vignon Titolo originale Week-end. Drammatico, durata 95 min. – Francia 1967. MYMONETRO Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica valutazione media: 3,60 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Film dissacratore, che si svolge in uno scenario di violenze e di orrori. Due coniugi partono per un week-end incontrando sulle strade lunghe file di vetture costrette a soste interminabili per i continui incidenti mortali. Giunti nella casa di campagna dove abita la madre della donna, i due la uccidono nel corso di una violenta lite per questioni di interesse. Poi ripartono e incappano in alcuni giovani armati che hanno abbandonato la “civiltà” tornando a una vita primitiva quanto spietata. La donna viene presa prigioniera, il marito ucciso. View full article »
Un film di Jean-Luc Godard. Con Brigitte Bardot, Françoise Hardy, Jean-Pierre Léaud, Chantal Goya, Eva Britt. Titolo originale Masculin féminin. Drammatico, b/n durata 103 min. – Francia 1966. MYMONETRO Il maschio e la femmina valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Tratto da due novelle di Guy De Maupassant, il film racconta di due giovani amici che utilizzano il loro tempo libero per scoprire il mondo delle donne e per approfondire le loro idee politiche; uno dei due giovani morirà per un incidente, proprio quando sta per diventare padre. View full article »
In quattro racconti, quattro registi di scuole e di esperienze diverse, riflettono sui condizionamenti dell’uomo nella società contemporanea e sull’angoscia di oggi e di domani. “Il mondo nuovo”, l’episodio firmato da Godard (per l’interpretazione di Jean-Marc Bory e Alexandra Stewart, e con musiche di Beethoven) prospetta un mondo scampato alle radiazioni di un’atomica nel quale gli uomini, svuotati di ogni qualità, esprimono in un linguaggio allusivo la loro disperazione esistenziale. L’olocausto immaginato dal regista francese non reca tracce visibili sulla pelle dell’uomo, ma ne rivela il vuoto interiore e l’impossibilità del sentimento: la società immaginata da Godard è, in definitiva, il ritratto esasperato di quella moderna e la città nella quale si svolge la breve vicenda è Parigi, assunta (come sarà anche in Alphaville) a simbolo di metropoli del futuro. L’episodio è girato in puro stile “nouvelle vague”, con voce fuori campo e inquadrature dal taglio documentaristico. Il titolo con il quale la pellicola è più conosciuta è composto dalle prime sillabe dei cognomi dei registi. Gli altri episodi sono: “Illibatezza” (di Rossellini), “Il pollo ruspante” (di Gregoretti), “La ricotta” (di Pasolini).
Un film di Eric Rohmer. Con Jess Hahn, Jean-Luc Godard, Van Doude, Stéphane Audran. Titolo originale Le signe du lion. Commedia, durata 100′ min. – Francia 1959. MYMONETRO Il segno del leone valutazione media: 3,25 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Pierre (Hahn), pittore squattrinato che fa la bohème a Parigi, crede di avere ereditato una grossa somma. Non è vero: l’eredità è toccata a un suo cugino. Si lascia andare nella metropoli deserta di agosto, fa amicizia con un barbone pittoresco, scivola verso la degradazione finché la sorte cambia. Da una storia che, a leggerla, potrebbe essere raccontata in cadenze di commedia ironica, l’esordiente E. Rohmer (1920) _ il più anziano, con il coetaneo Doniol-Valcroze, dei registi francesi aggregati alla Nouvelle Vague _ ha cavato un film lento, minaccioso, non poco angoscioso, dominato dall’ossessiva presenza della pietra e del marmo, che conta più per l’atmosfera di una Parigi sporca, svuotata e assolata che per i personaggi. Oltre a Godard, s’intravedono Stéphane Audran e Macha Méril. Prodotto da Claude Chabrol. View full article »
Un film di Carlo Lizzani, Jean-Luc Godard, Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini. Con Nino Castelnuovo, Ninetto Davoli, Julian Beck, Tom Baker.Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 100′ min. – Italia 1969. MYMONETRO Amore e rabbia valutazione media: 2,28 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Nato come Vangelo ’70, privato dell’episodio ipertrofico di V. Zurlini che diventò Seduto alla sua destra. Con “L’indifferenza” Lizzani rilegge la parabola del buon samaritano in chiave di neorealismo stradale. In “L’agonia”, con J. Beck e la compagnia del Living Theatre, Bertolucci ribalta la parabola del fico sterile in un originale esercizio stilistico tra cinema, mimo e teatro d’avanguardia. Con “La sequenza del fiore di carta” Pasolini si serve di N. Davoli on the road per una metafora sull’impossibilità dell’innocenza. In “L’amore” di Godard, parafrasi politica alla Brecht della parabola del figliol prodigo, Castelnuovo impersona la Rivoluzione e la Guého la Democrazia: i due si amano, ma non possono convivere. In “Discutiamo, discutiamo…” Bellocchio e un gruppo di studenti dell’Università di Roma dissertano in toni grotteschi sulla scuola di classe e la contestazione studentesca. Finanziata dall’Italnoleggio, è una curiosa operazione di sperimentazione linguistica. View full article »