Si tratta di un documentario che mette in evidenza la miseria delle famiglie dei minatori della regione del Borinage. In primo piano anche uno sciopero del 1932. Per la crudezza e la verità del documento ne fu impedita la circolazione.
Una didascalia avverte: “Un vecchio riparte per la Cina con una cinepresa, a novant’anni, con un progetto folle: catturare il vento.” Circondato dai tecnici, seduto su una sedia in un deserto della Mongolia, attende che il vento si alzi, galleggiando sulle onde quiete del suo immaginario e dei ricordi. Occorre un intervento magico perché finalmente il vento soffi. Con un piede nel documentario e l’altro nella fiction, quello di Ivens (1898-1989), olandese volante del cinema, è un film epico e lirico di memoria e di speranza, con godibili risvolti di umorismo, una sorta di taccuino di viaggio in cui per la prima volta il cineasta si discosta dal “pubblico” (dal politico) per far posto al “privato” (al personale). Ivens ha realizzato il suo ultimo film con la Loridan, sua assidua compagna nel lavoro e nella vita. Edizione originale con sottotitoli.
Come un archeologo che ricostruisca un’ipotesi di vita organica a partire dalle tracce fossili, il regista indaga la pioggia seguendone le impronte evanescenti, la evoca nel frullare del fogliame, nel movimento di una finestra che sbatte, nell’ingrossarsi dei tendaggi, la intuisce nelle onde circolari che si allargano sui canali, nel gesto di un passante sorpreso dalle prime gocce, nella rapida schiusa degli ombrelli, nell’affrettarsi dei carrettieri, nelle tracce fangose degli pneumatici. Non è l’evento in sé a suscitare interesse, piuttosto il tessuto di relazioni in cui è implicato; non è sulla pioggia che si concentra la partecipazione dello sguardo cinematografico, ma sulla sua espressione figurativa, che è, per natura, variegata, mutevole.tarista Ivens.
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