Sono almeno una diecina, tra muti e sonori, i film ispirati al romanzo (1847-49) di Henri Murger che nel 1896 fu messo in musica (La Bohème) da G. Puccini su libretto di Illica e Giacosa. Il film di Kaurismäki è ambientato in una Parigi dei giorni nostri quasi astratta; i personaggi sono artisti e poveri, ma tra i 40 e i 50 anni, spesso immigrati; invece di Puccini, musica di Mozart, valzerini francesi, voci di Moulodji e S. Reggiani e una triste canzone giapponese per la morte di Mimì. I fatti sono circa gli stessi, ma privi di aura romantica, raffreddati da una recitazione atonale e da un umorismo impassibile. Citazioni a iosa e 2 comparse speciali: i registi Louis Malle e Samuel Fuller. Impregnato di un’allegria da naufraghi che non esclude né dignità né tenerezza
Da un fortunato libro di Douglas Adams – primo di una serie – è tratta questa bizzarra space-comedy che già negli anni ’80 fu soggetto di una serie TV. Arthur Dent si oppone come può alla demolizione della sua casa, causa futuro passaggio di strada statale, non sapendo che di lì a dodici minuti sarà l’intero pianeta Terra ad essere spazzato via dagli extraterrestri per far posto ad un’autostrada intergalattica. A salvarlo ci pensa il suo amico Ford, che Arthur credeva sì strano, ma non tanto quanto è in realtà. Ford è infatti un alieno (di un piccolo pianeta vicino a Betlegeuse) di professione autostoppista, che gira l’universo per scrivere contributi al libro più venduto del creato: la Guida Galattica per Autostoppisti. I due iniziano una serie di disavventure con i loro indispensabili e inseparabili asciugamano. Il vero protagonista del film è la Guida, alter ego del suo creatore Douglas Adams, scomparso poco prima della fine delle riprese. Incredibile cornucopia di idee e bizzarrie, il libro illustra con dovuto sarcasmo e disincanto un Universo meraviglioso e multiforme, per quanto pieno di insidie – per mettere al riparo delle quali è posto in copertina a caratteri cubitali un avvertimento: NIENTE PANICO. Non è forse una metafora casuale che aprendo un libro si abbia accesso a tutto l’immaginabile e l’inimmaginabile, e dunque la riduzione filmica della guida diventa un esercizio letterario, perché non può che trattarsi di “riduzione” in senso stretto. Molto è andato perso, certo, ma il film nel complesso è ben riuscito e diverte, e brillano su tutto le animazioni della Guida (da gustare fino al termine dei titoli di coda). Peccato per la pagina della Guida dedicata alla Terra, anch’essa epurata dalla pellicola. Solo due parole: “fondamentalmente innocua”.
Un film di Henry Levin. Con Ellen Drew, William Holden, Glenn Ford Titolo originale The Man from Colorado. Western, durata 99′ min. – USA 1948. MYMONETRO L’uomo del Colorado valutazione media: 2,50 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Finita la Guerra Civile, un valoroso colonnello (Ford) viene nominato giudice in una cittadina del West dai suoi ex soldati diventati minatori, e si rivela un tiranno sanguinario. Uno dei suoi ex ufficiali (Holden) guida la rivolta. Scritto da R.D. Andrews e Ben Maddow, da un soggetto di Borden Chase, è un anomalo western psicologico della Columbia con trasparenti allusioni ai reduci traumatizzati della seconda guerra mondiale, ma una regia approssimativa e una debole caratterizzazione dei personaggi gli tolgono un vero interesse. Si dice che King Vidor abbia girato alcune scene tra cui quella dell’incendio. Altro titolo italiano: Non si può continuare a uccidere.
Il regista di tanti successi e l’attrice di Ombre rosse in un complicato film nero su una divorziata che ha la vita sconvolta dalla insana passione che prova per un assassino.
Non ho trovato versione in italiano
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Lo specchio della strega è un film horror soprannaturale messicano del 1962 , diretto da Chano Urueta e scritto da Alfredo Ruanova e Carlos Enrique Taboada . Il film racconta la storia di una strega di nome Sara, che dopo l’omicidio della sua figlioccia Elena, per mano del suo stesso marito, fa tutto il possibile per vendicare la sua morte e danneggiare il suo ex marito e la sua nuova moglie, Déborah.
Sara è una strega che lavora come governante nella casa di Elena, la sua figlioccia, e di suo marito, il chirurgo Eduardo. Attraverso uno specchio con cui Sara vede il futuro, Elena scopre che Eduardo sta progettando di ucciderla per sposare un’altra donna che si riflette nello specchio.
Non credo esista versione in italiano di questo film.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Con uno scienziato bianco (Kristofferson) e una ematologa meticcia (Wright), l’afroamericano Blade (“lama”, Snipes) fa la guerra a New York a una setta di vampiri che, a causa della megalomania del succhiasangue Frost (Dorff), si sta diffondendo come un contagio. La sceneggiatura di David S. Goyer non manca di invenzioni ingegnose (la sequenza di apertura), ma non rinuncia all’accumulo di tutti gli stereotipi del genere in una frenetica mescolanza di vampirismo, satanismo, incubi esoterici di fine millennio, complotto mondiale, arti marziali, effetti speciali. Curiosa la divisione razzista tra vampiri per nascita e vampiri postumani. L’eroico Blade è qualcosa di diverso: sua madre era incinta di lui quando fu vampirizzata e uccisa. Norrington, regista da tenere d’occhio, ha qui collaboratori di prim’ordine (fotografia, scene, costumi, effetti speciali). Il personaggio deriva dalle storie a fumetti di Mary Wolfman per Marvel Comics.
Sullo sfondo di un paesaggio industriale senza storia (Créteil, sobborgo di Parigi) Giovanni (Depardieu), ingegnere disoccupato, vive solo col figlio Pierino dopo che la moglie se n’è andata. Cerca di ricostruire un nucleo familiare con la puericultrice Valeria (Muti) che, non a torto, gli rinfaccia di essere un fallocrate possessivo. Giovanni si evira con un coltello elettrico che, nel terroristico umorismo di questo apologo politico sulla famiglia (scritto con R. Azcona e Dante Matelli), diventa un accessorio della donna: “Quello che è centrale non è il ‘discorso’… ma la forza dirompente che possiede ogni situazione, quasi ogni scena” (P. Mereghetti). Livida, funzionale fotografia di L. Tovoli.
Scritto dal regista (caso raro) con Odile Barski, è il 1° film che Depardieu e Chabrol hanno fatto insieme: complesso, inquietante, filosofico, con un Depardieu misurato, intenso, sottovoce, nella parte di Paul Bellamy, commissario di polizia parigino, in vacanza a Nîmes nella casa di famiglia di sua moglie Françoise che lo protegge dal lavoro. Falsamente bonaria, apparentemente serena e piana, la storia procede su due binari: i rapporti che Bellamy ha, da una parte, con uno strano tipo di ex assicuratore adultero che si accusa di aver ucciso un vagabondo, ma non ne è sicuro, e dall’altra col fratellastro che si insedia in casa sua: affarista fallito, ladro, mentitore e invidioso. Mentre il confuso intrigo poliziesco – di cui Bellamy si occupa in forma privata – si sfilaccia, affiorano due temi complementari: il desiderio di cambiare vita e il dubbio tragico che l’indesiderato fratellastro dia una immagine possibile di sé stesso. Dramma esistenziale camuffato da giallo, una felicità coniugale permeata da incubi.
Ogni domenica, tre amici di vecchia data – Vincent (Montand), piccolo industriale, François (Piccoli), medico, e Paul (Reggiani), giornalista – si ritrovano con un amico più giovane, Jean (Depardieu), pugile dilettante, le rispettive consorti o amiche, ognuno con i suoi problemi. Con un taglio caloroso e nel contempo cronachistico, è un quadro tenero e intimista della Nouvelle Vague giscardiana degli anni ’70, in cui Sautet passa da un personaggio all’altro con armonia unificante. Gli interpreti sono straordinariamente efficaci e credibili. All’origine c’è un romanzo di Claude Néron che ha collaborato alla sceneggiatura con Sautet e Jean-Louis Dabadie.
In seguito a una rivolta, Abel si rifugia nella giungla amazzonica e s’innamora di una fanciulla che gli indigeni chiamano ragazza uccello. La ricerca del passato li mette in pericolo. Da un romanzo di W.H. Hudson, difficile da portare sullo schermo, Ferrer ha plasmato sulla Hepburn, all’epoca sua moglie, una storia d’amore rarefatta, prolissa e pretenziosa. È il 2° dei 3 film di Ferrer regista. Nessuno ha lasciato il segno.
Samuel Stern creato dagli sceneggiatori Gianmarco Fumasoli e Massimiliano Filadoro, è un horror tradizionale, con atmosfere che derivano un po’ da Dylan Dog molto da Outcast di Kirkman, con qualche richiamo alla serie tv Supernatural in cui i due fratelli Winchester passano il proprio tempo a dare la caccia ai demoni. Anche Samuel Sterne barbuto e rossiccio restauratore di libri antichi (e qui la citazione è a Dampyr) ad Edimburgo incappa in incubi e possessioni diaboliche aiutato da un sacerdote che mena le mani come i vecchi personaggi talari di Spencer Tracy.
Due studenti americani in vacanza nella brughiera inglese fanno una brutta fine: attaccati da un mostro, uno diventa un uomo-lupo, l’altro si trasforma in zombi. Landis mescola allegramente orrore e ironia, paura e buffoneria, gioca con spregiudicatezza anche se non sempre governa bene il cambio delle marce e dei toni. Oscar per il trucco a Rick Baker. Seguito nel 1997 da Un lupo mannaro americano a Parigi .
1886: dopo la resa di Geronimo e dei suoi guerrieri, il giovane Massai continua da solo la lotta finché si rassegna a trasformarsi in contadino e a sposarsi. Il 1° dei 6 western di Aldrich e, forse, il più bello, certamente il più vigoroso, quello in cui il discorso filoindiano è più esplicito. Ricco di invenzioni, con un Lancaster solido come una roccia. Una delle più belle e significative carrellate del cinema hollywoodiano. Finale imposto dalla produzione, cioè da Lancaster: Aldrich lo voleva meno ottimista. Buchinsky è Bronson.
A Lourdes, nella seconda metà del secolo scorso, una contadinella, Bernadette Soubirous, ha la visione della Madonna. Le autorità civili e religiose (il prete del villaggio, il dottore, il magistrato, la badessa del convento dove Bernadette è inviata perché rinsavisca) non credono al miracolo.
Edit 29/4/23 Sostituite versioni 720 ita + 720 eng subita con versione 1080p ita/eng subita/eng
È la storia vera dei sette fratelli Cervi (Agostino, Aldo, Antenore, Ettore, Ferdinando, Gelindo e Ovidio), contadini di Campegine (RE) antifascisti e organizzatori della lotta partigiana sotto la guida del padre Alcide (1875-1970), catturati e fucilati dai tedeschi a Reggio Emilia il 28 dicembre 1943. Lungamente boicottato dalla censura preventiva, il film di G. Puccini descrive con realismo partecipe l’ambiente emiliano, facendo perno sul personaggio di Aldo Cervi, uno straordinario G.M. Volonté. Nella ricerca di un tono nazional-popolare, ma, nello stesso tempo, teso a evitare la retorica commemorativa e forse troppo preoccupato di essere fedele alla cronaca dei fatti, è un film parzialmente riuscito, più risolto e convincente nella parte rurale che nella descrizione della guerriglia sull’Appennino. Puccini morì qualche mese dopo la fine delle riprese. Aiuto regista Gianni Amelio, collaboratore alla sceneggiatura Cesare Zavattini.
Dal 1963 gli extraterrestri sono tra noi: sbarcano clandestinamente, assumono sembianze umane e i più s’integrano pacificamente. Nessuno lo sa, tranne il governo degli USA che ha costituito una sezione speciale per il controllo dell’immigrazione. Ne fanno parte il bianco K (Jones) e il nero J (Smith) che danno la caccia a un malvagio scarafaggione alto tre metri infilatosi nel corpo di un contadino-camionista. Giocattolone della Columbia, fondato sulla vecchia miscela di buffo e repellente in cadenze esagitate di cinema d’azione, è una pirotecnica sagra di effetti speciali di metamorfosi, forniti dalla ILM (Industrial Light & Magic) di Lucas. Pur lontano dalla perfidia satirica di Mars Attacks! , ha il merito di non prendersi sul serio, puntando sul divertimento di minori e adulti in regressione infantile.
Fuggito dall’inferno per tornare sulla Terra e salvare il proprio nipote, John Milton è a caccia di satanisti. Sul suo cammino incontra una ex cameriera di tavola calda, che ha appena mollato il marito e che potrà aiutarlo. A dare la caccia a lui invece è “il contabile”, un distinto inviato degli inferi, incaricato di riportare all’ordine il fuggitivo d’eccezione. Il tutto, per quanto è possibile, in macchina. Drive angry 3D dunque è un film che inizia con una panoramica dell’Inferno, una voce fuoricampo che racconta di una fuga e un’automobile americana dal design anni ’70 che scappa sfondando i cancelli in volo (sic!). Questo per dire che bisogna avvicinarsi al film con lo spirito giusto e che se lo si fa ci si può davvero divertire. Patrick Lussier non si prende mai sul serio, in nessun momento, gira un film che vuole essere l’equivalente moderno e molto autoironico dell’exploitation anni ’70 “macchine e donne”. Per fare queste guarda molto al referente contemporaneo più immediato, Quentin Tarantino, da cui prende le donne forti, le macchine di stuntman Mike, il culto dei piedi, i personaggi ad effetto e da cui cerca di trarre quel senso globale di coolness, che è uno dei pallini dell’autore di A prova di morte. Quello che di certo non si trova in Drive angry 3D è una lettura che vada più in profondità di un’esplosione, un nudo o un sano inseguimento davanti a un green screen. Quello che si trova è tanta onestà e voglia di divertirsi assieme allo spettatore. In questo è perfettamente funzionale l’uso di un 3D barocco che spara in faccia allo spettatore una miriade di oggetti lungo tutto il film. Benchè sia un film teoricamente serio, Drive angry 3D sembra infatti prendersi in giro volutamente in ogni momento, calcando la mano nella maniera più ironica su tutti i grandi luoghi comuni di un genere (l’action di serie C americano) fondato sulla ripetizione e riproposizione di personaggi e situazioni risapute. Se la parodia classica, quella di Mel Brooks, si basa sull’esposizione della demenzialità insita in alcuni topoi filmici, questo tipo di film finge la massima serietà e la massima aderenza a quel genere che prende in giro con lo scopo di ottenere il massimo della parodia. In tutto questo appare perfetta la scelta di un protagonista come Nicolas Cage, attore che dalla metà degli anni ’00 ha cominciato a moltiplicare le sue apparizioni e i suoi ruoli, prestandosi a tali e tanti film di serie B da essere, lui e le sue mille diverse parrucche, ormai il simbolo contemporaneo di quel tipo di produzione. Peccato soltanto che il divertimento non duri quanto la pellicola. Dopo una prima mezz’ora di indubbio coinvolgimento, si comincia ad avvertire la stanchezza della formula e la continua esagerazione. Il permanente eccesso senza la benchè minima sostanza possono generare un po’ di noia nello spettatore meno avvezzo.
La porta sul buio è una miniserie televisivaantologica formata da quattro episodi gialli di circa un’ora, curati e prodotti da Dario Argento e trasmessi dalla RAI per quattro settimane nel settembre 1973 sul Programma Nazionale (l’odierna Rai 1).Ogni episodio viene presentato da Dario Argento, che firmò la regia del secondo episodio con lo pseudonimo Sirio Bernadotte e subentrò a Roberto Pariante nella regia del quarto. Reduce dai successi dei primi tre film, Dario Argento cura e produce per la RAI una serie di quattro mediometraggi della durata di circa un’ora ciascuno. Oltre a presentare ogni episodio, il regista ne dirige personalmente uno, Il tram, subentrando inoltre a Roberto Pariante nella direzione di Testimone oculare, mentre gli altri due film sono affidati a Luigi Cozzi, collaboratore di Argento, e a Mario Foglietti. Si trattava di un team già collaudato, in quanto in Quattro mosche di velluto grigio Pariante era stato aiuto regista di Argento e Cozzi assistente alla regia e coautore del soggetto con Foglietti ed Argento.Fondamentale apporto alla confezione della serie fu dato dalle musiche, opera di Giorgio Gaslini, pianista e compositore jazz. La serie fu trasmessa dal primo canale in prima serata, ma, non essendo i telespettatori dell’epoca avvezzi a scene “forti” in televisione, Argento e colleghi dovettero contenersi nella rappresentazione di scene cruente e di terrore, come fino ad allora il regista aveva abituato le platee cinematografiche. Non per questo gli autori delle quattro storie rinunciarono ad imbastire delle trame dalle tinte fosche, atmosfere stranianti e con una sufficiente dose di suspense. Argento in particolare cercò di trasferire in queste brevi storie le sue idee, già proposte sul grande schermo, rappresentando la mini serie un’occasione per il regista di sperimentare nuove tecniche di ripresa e di esplorare nuovi linguaggi cinematografici adatti al thriller.
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