Ci vediamo venerdì (Friday) è un film statunitense del 1995 diretto da F. Gary Gray.
Craig Jones viene licenziato durante il suo giorno libero. Tra il venerdì e il sabato accadrà di tutto e Craig si metterà nei guai con uno spacciatore insieme al suo amico Smokey, tra intrighi amorosi e bulletti in circolazione.
Ci sono tutti, i personaggi principali del romanzo di Collodi, nel Pinocchio di Matteo Garrone: Geppetto e il suo burattino di legno, Lucignolo, Mangiafuoco, la Fata Turchina, il Grillo Parlante, il Gatto e la Volpe, fino all’Omino di burro, il Tonno e la Balena. Perché questo ennesimo adattamento cinematografico di una delle favole italiane più note nel mondo è enormemente rispettoso dell’originale, come già era stato Il racconto dei racconti al testo di Gianbattista Basile.
C’è una cura devota nella ricerca delle facce giuste, negli scenari che chiunque abbia letto Pinocchio ha immaginato, nei dettagli dei costumi, del trucco (impressionante il legno con cui è costruito il bambino), degli effetti speciali artigianali, come lo erano stati ne Il racconto dei racconti, e utilizzati con grande parsimonia, ovvero solo quando narrativamente necessari.
In questa cura c’è tutto l’amore e la reverenza che Garrone ha verso il testo di Collodi, il suo perfetto equilibrio nel dosaggio degli elementi narrativi e nella caratterizzazione di personaggi che sono diventati archetipi, verso quell’ingranaggio drammaturgico che vede il percorso di iniziazione alla vita di un burattino che sogna di diventare un bambino (e dunque un uomo) vero dipanarsi per corsi, ricorsi e inciampi, sempre due passi avanti e uno indietro, con un andamento ad elastico sempre pronto a ritornare bruscamente al punto di partenza, proprio quando sembrava così vicino al salto evolutivo.
Gli interpreti son perfetti: Benigni trattenuto e straziante (come già il Nino Manfredi del Pinocchio televisivo di Luigi Comencini), il piccolo Federico Ielapi minuto ma tosto, sempre in equilibrio fra intraprendenza e desiderio di appartenere, disobbedienza e lealtà.
E poi Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo, nati per diventare la Volpe e il Gatto, Gigi Proietti credibilissimo come il burbero Mangiafuoco dallo starnuto facile, le due fatine (bambina e adulta) Alida Baldari Calabria e Marine Vacht, la prima compagna di giochi (e marachelle), la seconda mamma e Madonna; il grillo parlante Davide Marotta. Standing ovation per Maria Pia Timo (la Lumaca), Enzo Vetrano (il Maestro) e Nino Scardina (L’Omino di burro).
Seydou e Moussa sono cugini adolescenti nati e cresciuti a Dakar, ma con una gran voglia di diventare star della musica in Europa. Tutti in Senegal li cautelano contro il loro progetto, in primis la madre di Seydou, ma i due sono determinati, e di nascosto intraprendono la loro grande impresa. Un viaggio che si rivelerà un’odissea attraverso il deserto del Sahara costellato dei cadaveri di quelli che non ce l’hanno fatta, le prigioni libiche e il Mediterraneo interminabile e pericoloso. I furti, le violenze e i soprusi non si conteranno, ma ci saranno anche gesti di umanità e gentilezza in mezzo all’inferno. Soprattutto, Seydou dovrà scoprire che cosa comporta mettersi al timone della propria e altrui vita in circostanze ingestibili.
Da 3 fiabe ( La cerva fatata , Lo polece , La vecchia scortecata ) di Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile (1575-1632) trasposte a intreccio e con sostanziali modifiche dai 4 sceneggiatori, tra cui Garrone stesso. Divenuta madre in seguito a una gravidanza magica, una regina è turbata dal rapporto del suo unico figlio col figlio di una serva, suo sosia. Un re deve dare la figlia in sposa a un orco perché è l’unico che riesce a superare la prova creata per ottenere la mano della principessa. Una vecchia, scambiata dal suo re per una giovane, accetta di passare la notte con lui, purché al buio; scoperta e gettata da una torre, si salva e diventa una meravigliosa fanciulla. Nella sua rivisitazione delle fiabe barocche di Basile, Garrone ne ha accentuato i toni grotteschi e truculenti ma anche il carattere di apologhi sulla tracotanza dei potenti. Esercizio di stile di altissimo livello, certo, ma fine a sé stesso e, alla fine, lungo e noioso. Se nei film precedenti Garrone aveva sfiorato il formalismo, questa volta lo ha abbracciato. Fotografia incantevole di Peter Suschitzky, splendide scenografie di Dimitri Capuani, costumi fiabeschi di Massimo Cantini Parrini, musiche suggestive di Alexandre Desplat.
Kyoto, anni ’70 e ’80. Figlia di uno scrittore calligrafo (Ogata), Nagiko (Wu), continua il piacere paterno della scrittura sul corpo. A diciotto anni è indotta a sposare il nipote (Mitsubishi) dell’editore (Oida) che pubblica gli scritti del padre in cambio di prestazioni sessuali. Ossessionata da I racconti del cuscino , scritti dalla cortigiana Sei Shonagon nel XI secolo, Nagiko lascia il marito e va a Hong Kong in cerca di amanti disposti a scrivere sul suo corpo. S’innamora, ricambiata, di un traduttore inglese (McGregor) che diventa a sua volta amante dell’editore del padre. Dopo il suo suicidio scopre di esserne incinta e innesca una spirale di mortale vendetta. “Greenaway continua imperterrito a utilizzare il corpo umano come strumento di metafora. Testo e sesso sono visti come analoghi dispensatori di piacere. Il corpo è visto come un libro e la letteratura come atto sessuale” (F. Liberti). Attraverso la cultura giapponese dove l’ideogramma è parola e arte visiva ritorna a Ejzenštejn che scoprì per primo il cinema come ideogramma con un film sperimentale, continuando il suo processo di distruzione delle regole narrative: schermo frantumato in immagini multiple, inquadrature che cambiano formato (fotografia di Sacha Vierny), colonna sonora che mescola canti tradizionali giapponesi con musica leggera occidentale. Intriga, affascina, ipnotizza, turba, respinge.
Sotto il titolo originale (“una zeta e due zeri”, crittogramma dai molti significati) c’è una storia – si fa per dire – con Alba che perde una gamba e un figlio in uno scontro in auto con un cigno, incidente in cui muoiono le mogli di due gemelli (già siamesi) etologi, Oswald e Osmund Deuce (i due O, zeri, del titolo inglese) che lavorano nello zoo di Rotterdam. I due diventano prima amanti di Alba, poi “padre” dei suoi nascituri e, infine, suicidi dopo che la donna, amputata anche all’altra gamba, trova l’anima gemella nel signor Arcobaleno, monco in carrozzella. 3° lungometraggio di finzione di Greenaway, secondo il quale “il cinema è troppo importante per lasciarlo fare ai narratori di storie”. Cerebrale sino all’esasperazione e perverso, è basato sul rapporto uomo-animale, sul corpo dei personaggi (sempre a figura intera senza piani ravvicinati) e sulla pittura (Vermeer soprattutto e i fiamminghi del ‘400 come Robert Campin e Jan Van Eyck). Fotografia: Sacha Vierny. Da vedere nell’edizione originale: la traduzione fa svaporare i frequenti giochi linguistici.
Per organizzare una mostra in onore del francese Etienne-Louis Boullée (1728-99), architetto cinquantenne di Chicago soggiorna a Roma per nove mesi: gli va a monte il matrimonio, falliscono le sue ambizioni professionali, va incontro a una tragica morte. 4° film del cineasta britannico più eterodosso e sperimentale degli anni ’80: il più semplice, sanguigno, viscerale dei suoi film, in cui sa coniugare concretezza visiva e astrattezza narrativa sullo sfondo di una Roma come al cinema non s’era mai vista. Una certa artificiosità di fondo riscattata dallo stile, dal graffiante sarcasmo, dalla corposità recitativa di Dennehy, truculento alla Welles.
Nel 2009 il capitano Richard Phillips lascia la sua famiglia nel Vermont per guidare la nave porta container USA Maersk Alabama dall’altra parte del mondo. In acque extraterritoriali, il suo bastimento viene però attaccato da un manipolo di pirati somali, armati e pronti a tutto, e Phillips viene rapito, in cerca di riscatto. Serve a poco che i pescatori somali chiamino il personaggio di Tom Hanks “Irish” anziché yankee: il film si nasconderebbe dietro un dito se non desse per evidente e garantito che quello che racconta è un attacco alla ricchezza battente bandiera americana da parte di un gruppo di poverissimi, ricattati da un locale signore della guerra e dunque in qualche modo “obbligati” a recitare la parte dei cattivi e a posizionare Hanks e i suoi in quella degli eroi. Ma non è questo il punto, o meglio è solo il punto di partenza.
Enrico è un dj radiofonico che intrattiene il suo pubblico raccogliendo le storie di chi telefona in diretta. La sua vita è divisa tra Bari, dove abita, e Milano, dove vive sua figlia Matilde. E proprio tornando dalla città lombarda, su un treno notturno, incontra Valeria, una donna affascinante che nasconde un mistero.
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Ispirato al cortometraggio La Jetée (1963) di Chris Marker, sceneggiato da David e Jane Peoples. Nel 2035 i sopravvissuti a un virus, che nel 1997 sterminò cinque miliardi di persone, vivono sottoterra, mentre la superficie del pianeta è popolata soltanto da animali. Per capire il come e il perché della catastrofe si spedisce indietro nel tempo (nel 1917 per sbaglio, nel 1990 e nel 1996) un ergastolano intelligente. Macchinoso e sbretellato sul piano narrativo, il 6° film di Gilliam (l’unico americano del gruppo Monty Python) vale su quello figurativo per certe fulminee invenzioni registiche, i desolati paesaggi metropolitani, l’energia recitativa di Willis, l’istrionismo schizoide di Pitt. Raro esempio di un titolo che indica una falsa pista.
Rose ha una figlia, Sharon, che sta morendo per una terribile malattia. L’ultimo tentativo per salvarla è portarla da un guaritore, e, contro la volontà del marito, Rose fugge con la bambina. Direzione: Silent Hill. Ispirarsi a un videogioco, per il cinema, non è mai stata una cosa semplice. Le trame dei game sono studiate a livelli, a crocevia, mentre una sceneggiatura cinematografica deve essere scorrevole, dettagliata, seguire una “consecutio temporum”. C’è però un elemento che i due mondi hanno in comune, ovvero l’opportunità di creare atmosfere, visive e sonore.
Il vulcanologo John Sherpherd e un suo allievo giungono ad una terribile scoperta: presto tutti i vulcani del mondo erutteranno sterminando ogni creatura vivente. Cercherà cosi di convincere le autorità riguardo la veridicità della sua scoperta e del terrificante pericolo che incombe..
Ricostruzione dell’incontro di boxe, valevole per il titolo mondiale dei pesi massimi, tra i pugili neri Mohammed Alì, già Cassius Clay, e George Foreman a Kinshasa (Zaire) il 30 ottobre 1974. Al materiale filmato da Gast nel 1974 a Kinshasa s’aggiungono le interviste allo scrittore Norman Mailer, ai giornalisti Georges Plimpton e Thomas Hauser e al regista Spike Lee che vent’anni dopo commentano l’avvenimento. Più che sul Mohammed Alì della realtà, è un film sul mito, sulla leggenda, sul significato simbolico, sociale e politico di Alì e della sua vittoria sul nero Foreman che paradossalmente nel 1974 incarnò l’odiato zio Sam, quell’America dei padroni bianchi che avevano ridotto i neri a loro immagine e somiglianza. All’origine della sua energia coinvolgente c’è il montaggio (firmato da 4 persone tra cui lo stesso Gast e dal regista Taylor Hackford), a sua volta basato sulla musica e sul canto di B.B. King, James Brown, Spinners, Jazz Crusaders, Miriam Makeba. Premio Oscar per il documentario di lungometraggio.
Shell vive, sola con il padre Pete in una pompa di benzina delle Highlands scozzesi. Può passare anche una settimana senza che si fermi una macchina, ma i due sono abituati e sembrano non soffrire la solitudine. Shell ha Pete e Pete ha Shell. Ora, però, a diciassette anni, Shell non è più bambina: prova desiderio e lo suscita, e assomiglia sempre più alla madre, con la quale Pete ha un conto in sospeso. Shell come la stazione di servizio, maleodorante e sperduta fuori città, oppure come una cosa preziosa e meravigliosa che si trova in fondo al mare. Così è la protagonista del lungometraggio d’esordio di Scott Graham: preziosa sopra ogni cosa per il padre, epilettico, che l’ha eletta ad unica ed irrinunciabile compagna di vita (o anche per le anime sole che periodicamente fanno il pieno della sua accogliente bellezza), ma anche giovane donna esclusa dalla vita e dall’amore, confinata nel nulla da un doppio legame senza soluzione, dentro un’abitazione squallida dove le esistenze non s’inaugurano ma si rottamano (perché così la vedono i turisti di passaggio, bloccati loro malgrado da un cervo investito o da un imprevisto lungo la strada). La bellezza è negli occhi di guarda e ce n’è tanta davvero nello sguardo di questo regista sui suoi soggetti. Immersi in un silenzio per una volta giustificato appieno dal contesto narrativo, Shell e Pete vivono un legame di sangue e di carne che si fa presto sinonimo di morte e di passione, di reciproca prigionia, fino al cannibalismo metaforico.
Il lato oscuro è quello degli USA dopo l’11-9-2001, durante le 2 presidenze di Bush Jr. Il taxi è del contadino afghano Dilawar che si era messo a fare il taxista. Nel 2002 fu arrestato dalla Milizia Militare USA e 5 giorni dopo morì per le percosse e le torture subite, nella prigione di Bagram, come sospetto complice terrorista di Al Qaeda e dei talebani. Il ricorso alla tortura negli interrogatori, adottata dalla CIA e dall’esercito USA, è il tema centrale di questo nauseante e impietoso docudrama del documentarista Gibney ( Enron – L’economia della truffa ), frutto di una laboriosa inchiesta che dall’Afghanistan passa all’Iraq (le famigerate fotografie del carcere di Abu Ghraib) e alla sofisticata prigione di Guantanamo. Sfilano soldati che eseguirono gli interrogatori, 2 giornalisti del New York Times che fecero scoppiare lo scandalo, detenuti innocenti torturati, generali che trasmisero o permisero gli atroci abusi, il personale dell’amministrazione Bush, lo stesso Bush e i suoi principali consiglieri legali che riuscirono ad aggirare le regole della Convenzione di Ginevra per la tutela dei diritti dei prigionieri di guerra. Notizie preziose: l’FBI si dissociò dalla CIA; solo il 7% dei presunti terroristi furono catturati da forze USA; tutti gli altri denunciati e consegnati dagli alleati; nel carcere di Bagram la temperatura arrivò a 65 °C. Voce narrante: Luigi La Monica. Oscar 2007 per il documentario. Inosservato in Italia.
Uno scapolo impenitente affitta per le scappatelle di tre amici sposati un appartamento nel quale s’installa una bella sociologa che si fa passare per donnina di facili costumi e, tenendoli a bada, li studia. Commedia che vorrebbe essere pepata e cerca in affanno di diventare maliziosa senza riuscirci per colpa di un’inerte e prolissa sceneggiatura contro la quale gli interpreti lottano invano.
Dopo il successo e l’Oscar di Mediterraneo Salvatores dirige un film surreale, disimpegnato ma non troppo. Più vicino a Turné, il suo film più riuscito, Puerto Escondido parte da un omicidio. La trama gialla è comunque solo un pretesto. Lo stile rimanda un po’ al cinema di Aki Kaurismaki. Il protagonista conduce una vita da perfetto integrato nella società, conformista e apparentemente pieno di certezze. Deve però fuggire in Messico per colpa della morbosa amicizia di un poliziotto che ha commesso due delitti davanti a lui. Dopo aver conosciuto due disperati che si barcamenano tra combattimenti di galli e spaccio di droghe leggere trova una dimensione diversa rispetto alla sua esistenza precedente. Per un cambiamento reale però dovrà compiere un atto estremo, da fuorilegge, e assumerne la responsabilità. Il viaggio e la fuga nel cinema di Salvatores sono al capolinea. Buona prova di Abatantuono, un ruolo molto maschile per la Golino e uno azzeccato per Bisio. A coronare il tutto l’indiscutibile bravura di Antonio Catania e le musiche di Mauro Pagani.
Luciano Ciotola vive a Napoli in un palazzo fatiscente con la moglie e i figli avendo come coinquilini numerosi parenti. Gestisce una pescheria mentre con la moglie ha attivato un traffico illegale di prodotti casalinghi automatizzati. Luciano ha una vocazione per l’esibizione spettacolare così il giorno in cui i familiari lo sollecitano a partecipare a un casting de ¨”Il Grande Fratello” non si sottrae. Entra così in una spirale di attese che trasformerà la sua vita. Matteo Garrone ha dichiarato “Dopo Gomorra volevo fare un film diverso, volevo cambiare registro così ho deciso di tentare la via della commedia”. Sul piano formale ha sicuramente affermato il vero ma su quello del contenuto profondo non è così. Reality è, anche se potrebbe sembrare impossibile, un film ancora più tragico di Gomorra.Perché se la camorra è un fenomeno delinquenziale nei confronti del quale si sono prodotti, in vasti strati della popolazione, i necessari anticorpi non altrettanto è avvenuto nei confronti dei reality in genere. Siamo di fronte a una distorsione della percezione del reale che ha metastatizzato una vasta fascia della cosiddetta ‘audience’. Non importa se in questa fase trasmissioni come quella oggetto del film o altre simili stanno subendo sensibili cali di ascolto. Ciò che conta è che il seme è stato deposto e le sue radici sono ben salde. Attraverso le vicende di Luciano (uno straordinario Aniello Arena che ha costruito la sua professionalità attoriale in carcere) Garrone non ci racconta solo Napoli. Gira in una città che ormai conosce bene e che gli offre un ritmo recitativo che sarebbe difficile trovare altrove ma è dell’Italia tutta che ci offre uno squarcio doloroso. Sarebbe facile definire Luciano, sua moglie Maria e tutte le figure che li circondano come personaggi che sarebbero piaciuti a Eduardo ma qui si va oltre. Pirandello (con il suo confine labile tra ragione e follia) si sposa con Orwell (che finalmente vede riscattare il titolo del suo romanzo grazie all’ossessione che si impossessa del protagonista) mentre la colonna sonora di Alexandre Desplat va alla ricerca di sonorità che ci rinviano a quelle del Danny Elfman del Nightmare Before Christmas burtoniano. Perché è un incubo quello in cui precipita Luciano e in cui dissolve ciò che resta della sua famiglia e della sua vita sociale. Un incubo costruito da continue attese, da ‘stazioni’ come quelle della Via Crucis della Settimana Santa, cerimonia che finisce con l’acquisire un valore simbolico. Dopo non ci può essere che una resurrezione; ma quella che la civiltà dell’immagine produce può avere luogo solo in un paradiso ineluttabilmente falso.
Una coppia di coniugi anziani vive a Courbevoie, nella periferia parigina. Un tempo si erano molto amati, oggi si odiano e non si parlano mai. Lui raccoglie un gatto abbandonato, lei lo elimina. Ma le loro due vite sono indissolubilmente unite. In un faccia a faccia patetico ad armi uguali, J. Gabin e S. Signoret danno il meglio di sé stessi. È un film da vedere: una riflessione sul mondo di Georges Simenon e sul realismo poetico degli anni ’30. Titolo italiano deviante e imbecille.
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