Australia, 1939. Sarah Ashley, un’aristocratica inglese, lascia Londra alla volta di Darwin, decisa a ricondurre a casa e al talamo coniugale il proprio consorte. Scortata da un mandriano brusco e attaccabrighe alla tenuta di Faraway Downs, Sarah scopre con sgomento la morte di Lord Ashley e la crisi in cui versa il ranch. L’incontro con una terra orgogliosa e selvaggia e l’affetto per Nullah, un orfano nato da madre aborigena e padre inglese, la convincono a restare e a risollevare le sorti della proprietà.
Jack Tate è un fisico esperto di Meteorologia che lavora in una base a supporto di una nave per ricerche. Sua moglie, anatomo patologa vuole il divorzio accusandolo di essere drogato dal lavoro e anche Naomi, la figlia adolescente, concorda con la madre. Un giorno tutti coloro che si trovavano a bordo della nave vengono ritrovati congelati. Jack comprende che la tragedia è dovuta a un buco che si è aperto nell’ozono facendo filtrare aria ghiacciatissima. Il suo capo, Winslaw, ritiene le sue deduzioni non comprovate e questo fa perdere del tempo prezioso. Il rischio di una nuova era glaciale si fa sempre più concreto.
Avventura e commedia si sovrappongono in questo film di produzione australiana che ha decretato il successo di un nuovo (ma non tanto giovane) divo, Paul Hogan, che interpreta Mr. Crocodile (Mick Dundee), un selvaggio e simpatico cacciatore di coccodrilli. Siamo in Australia, una giovane giornalista newyorkese giunge nella savana per conoscere il cacciatore di cui ha sentito parlare per fare un servizio per il suo giornale. Il genuino cacciatore non finisce mai di stupirla e lei, dopo un viaggio ricco di sorprese, se lo porta a New York. Qui, Dundee continua a vivere nella metropoli come viveva nelle savane creando una serie di divertenti incidenti.
Come un puzzle, la vicenda ha una partenza disagevole, che trova la sua logica narrativa nella seconda parte. Una giovane donna incontra due rapinatori di banche. Con uno di loro stabilisce uno strano legame dal quale non è escluso l’interesse. Conosce un giovane misterioso del quale si innamora: l’uomo fugge, inseguito dai servizi segreti di una superpotenza, portandosi appresso uno strano marchingegno con il quale cattura immagini che intende consegnare alla madre affetta da cecità e che potrà vedere tali immagini. L’inventore dell’apparecchio è il padre stesso del giovane. Ma il vecchio scienziato è in aperto dissidio con il figlio a causa di una diversa visione dell’esistenza. La madre potrà vedere le immagini e morirà. L’evento scatena alterne reazioni tra chi era presente all’esperimento. Ciascuno oppresso da un diverso destino e con un futuro carico di incognite. Costato 23 milioni di dollari, il film è un kolossal dell’anima. Wenders lo dissemina di inidizi e personaggi che conducono in un vicolo cieco. La prima parte è un rompicapo nel quale ogni sequenza non è la conseguenza della precedente. In seguito tutto sembra assumere un tono più solenne e nobile. Ma l’ermetismo delle metafore di Wenders ha come traguardo la sua ossessione per l’olocausto che attende l’umanità. Tuttavia una fastidiosa scenografia di stampo teutonico dà l’impressione che il film sia stato realizzato in un grande magazzino tedesco. La colonna sonora raccoglie il meglio della scena musicale rock (U2, R.E.M., Lou Reed, Talking Heads e molti altri). William Hurt si aggira per il film con aria assente facendo forse rimpiangere che Wenders non sia riuscito a convincere Sam Shepard e Willem Dafoe, ai quali il regista aveva chiesto di interpretare il ruolo.
L’aborigeno Sam vive nella fattoria del “bianco” Fred, in relativa armonia, insieme alla moglie Lizzie. Ma intorno a loro, nell’Outback australiano qui narrato come il corrispettivo del Far West, gli aborigeni sono gli indiani: privati della propria terra, dei propri diritti e della propria libertà, e ridotti ad una schiavitù identica a quella (di esportazione) che opprimeva gli africani importati negli Stati Uniti. Quando nella zona si trasferisce Harry, un reduce di guerra gonfio di rancore e di aggressività repressa, il fragile equilibrio fra i proprietari terrieri anglosassoni e i loro servi aborigeni salta
Una multinazionale vuole intraprendere ricerche petrolifere in una landa desertica australiana. Gli aborigeni si oppongono, sia pure in maniera non violenta. Quella terra è da secoli sacra, per loro. I loro sit-in non fermano i cacciatori di petrolio. Ma i difensori dell’ambiente l’avranno egualmente vinta.
Insieme a Mad Max e Walkabout, Wake in Fright è ampiamente riconosciuto come uno dei film più importanti nello sviluppo del moderno cinema australiano. Diretto da Ted Kotcheff (Rambo), il film racconta il declino morale di un insegnante inglese.
Un film di Baz Luhrmann. Con Paul Mercurio, Tara Morice Titolo originale Strictly Ballroom. Musicale, durata 94 min. – Australia 1992. MYMONETRO Ballroom – Gara di ballo valutazione media: 3,20 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un asso del ballo (tango, rumba, cha-cha-cha, flamenco, paso doble) non riesce a sfondare perché troppo originale finché trova la compagna ideale (e l’amore). Tema conduttore: la contrapposizione polemica dei sensuali ritmi latini contro il potere conformistico delle convenzioni ballettistiche anglosassoni. Ritmo trascinante, coreografie suggestive, ballerini valenti riscattano gli stereotipi di vicenda e personaggi.
Tratto dai primi 3 libri della saga (15 volumi) letteraria I guardiani di Ga’Hoole di Kathryn Lasky. Il giovane gufo Soren sogna di potersi unire un giorno ai guardiani di Ga’Hoole, di cui suo padre gli narra le imprese, i mitici guerrieri alati che hanno combattuto per salvare tutti i gufi dai perfidi Puri. La gelosia di suo fratello maggiore Kludd che, al contrario, pensa solo a cacciare e volare per conquistarsi il favore del padre, li fa finire entrambi nei loro artigli. Prodotto dalla Warner, è un fantasy di animazione – con i notevoli effetti digitali di Aidan Sarsfield e Ben Gunsberger – educativo e retorico, diretto ai ragazzini ma con l’utilizzo di un linguaggio per adulti. Snyder si è concesso una pausa con un film per famiglie, ma non sa allontanarsi da 300 e mette troppa carne al fuoco.
Tre poliziotti a cavallo inseguono un fuggitivo nell’outback australiano. Siamo nel 1922 e a guidarli è una guida aborigena. Nel gruppo pian piano serpeggiano i dissidi anche in seguito ad episodi violenti e nascono domande mai poste prima: cosa divide bianchi e neri e chi ha diritto di comandare? Rolf de Heer abbandona le ‘diversità’ singole (l’handicap in particolare) che erano state al centro dei suoi tre film precedenti e affronta un tema più vasto come quello della persecuzione degli aborigeni nei primi decenni del secolo scorso. Può farlo solo agli inizi del nuovo millennio perché prima questo era un tema da evitare in Australia. Riesce a fondere spettacolarità e messaggio coadiuvato anche da un attore aborigeno che, terminate le riprese di questo ed altri film, torna nella sua baraccopoli
1986, bimbo indiano di 5 anni si addormenta in una stazione e poi, cercando il fratello maggiore che sta lavorando, sale su un treno che percorre 1600 km prima di fermarsi a Calcutta. Il piccolo non sa dove viveva, non parla bengalese e non sa dare indicazioni sulla sua famiglia. Dopo vane ricerche, è adottato da una coppia australiana. 25 anni dopo, sulla base di vaghi ricordi, si mette in cerca della sua famiglia. Sembra incredibile, ma è una storia vera e Davis la racconta con emozione e senza facili stratagemmi strappalacrime, coinvolgendo lo spettatore, portandolo a riflettere sulle problematiche dell’adozione (e a conoscere meglio come funziona) e sull’incontro di 2 culture tanto diverse.
Anomala biografia del pianista David Helfgott – australiano di nascita, ebreo e polacco di origine, oggi cinquantenne, sposato e ancora in giro a dar concerti – che, stritolato da un padre-padrone oppressivo, sprofonda per un decennio in un tracollo nervoso che lo fa entrare e uscire da cliniche psichiatriche fino all’incontro e all’amore di una gentile signora di quindici anni più vecchia di lui. Da una sapiente e intelligente sceneggiatura di John Sardi, diretta con brio da S. Hicks, il racconto procede con una struttura a mosaico, non cronologica, e percorre il tormentato itinerario di David fino alla sua “resurrezione”. N. Taylor (David adolescente) e G. Rush (David adulto), che ha preso l’Oscar, sono in gara di bravura. Memorabile la scena in cui David crolla suonando il concerto n. 3 di Rachmaninov.
Quando il sospetto diventa ossessione o forse realtà. Sophie è un’illustratrice di successo, è felicemente sposata con Craig da dieci anni, ha due educatissime e biondissime figlie e vive in una casa visibilmente ricca e confortevole. Questa vita apparentemente realizzata inizia a perdere pezzi del puzzle, perfettamente incastrati, quando Cragi comincia a lavorare a stretto contatto con Mara, una giovane e attraente collaboratrice.
Lo scienziato e inventore dr. Plonk che vive nel 1917 con un assistente sordomuto, la moglie, un cane e una cameriera quasi invisibile, scopre che il mondo finirà nel 2008, ma non ha le prove per dimostrarlo. Fabbrica una macchina del tempo e, per uno sbaglio, si ritrova 10 000 anni prima in una tribù di cannibali. Riesce a tornare. Dopo vari tentativi approda nel 2007 e, vedendo la tv, crede di aver trovato le prove: è un trailer di un film catastrofico. Tornato nel 1917 convince il Primo Ministro a viaggiare con lui e finisce in carcere nel futuro. Stravagante, dinamico come un balletto, conciso, non parlato con didascalie, questo film di uno dei più talentuosi registi australiani rischia di essere ripetitivo nel vorticoso susseguirsi di gag buffe, ma ha una graziosa originalità nel parafrasare il cinema comico muto di Chaplin, Keaton, Lloyd, ispirandosi anche alla primitiva magia di Meliès. Scomponibile in 3 parti: la vita di Plonk (con la mimica arguta di N. Lunghi) fino al primo viaggio, i continui spostamenti avanti e indietro nel tempo, la finale condizione di esule forzato.
Su un treno per Vienna giovane giornalista americano di ritorno a casa incontra studentessa francese che va a Parigi. Le propone di scendere con lui a Vienna e di passare l’ultima notte insieme. Lei accetta. Finale aperto. Un film di parole sullo sfondo di una città: una Vienna che, nonostante le intenzioni, non diventa il terzo personaggio. È, ovviamente, un film di attori: grazioso, ma senza la grazia. A Berlino vinse il 3° premio, quello della regia.
Bella infermiera scopre a sue spese che un giovanotto, ricoverato in coma dopo aver ucciso la madre e il suo amante, possiede poteri telecinetici con cui può uccidere chi gli è antipatico. Poco originale nella storia, con personaggi poco interessanti, giocato sugli effetti speciali e sull’angosciosa claustrofobia dell’immobilità. Premiato al Festival di Avoriaz.
L’ultima ufficiale rimasta in una remota base di difesa missilistica lotta contro i terroristi che minacciano gli Stati Uniti con le loro 16 armi nucleari trafugate.
Dal libro Follow the Rabbit-proof Fence di Doris Pilkington Garimara, adattato da Christine Olsen. Dagli anni ’20 al 1970 i bambini meticci australiani, figli di donne aborigene e uomini bianchi, venivano sottratti con la forza alle famiglie di origine e portati in colonie speciali per essere rieducati alla vita nella società bianca. Si racconta qui la storia vera di tre ragazzine di sangue misto – due sorelle e una cuginetta – che nel 1931 evadono dal centro di rieducazione per fare ritorno al villaggio natio con un viaggio a piedi (nudi) di circa tremila km lungo il recinto “a prova di conigli” (selvatici), costruito per difendere pascoli e terreni coltivati. È Molly, la maggiore delle tre fuggitive, oggi novantenne, a raccontare la storia. Cresciuta, Molly sposò un aborigeno dal quale ebbe due figlie. Una delle due è l’autrice del libro, fonte del film. Dopo il lungo intervallo di convenzionali thriller hollywoodiani, la rimpatriata ha giovato a Noyce. La cronaca della straordinaria fuga assume toni fiabeschi, mitici, quasi onirici, giustificati dall’ottica di Molly. A livello figurativo il regista punta sulla potenza suggestiva dei paesaggi australiani (fotografia del compatriota Christopher Doyle, prezioso collaboratore di Wong Kar-wai), ma altrettanto espressivo è il piano sonoro con le musiche di Peter Gabriel. Nella parte, prosaica e di basso profilo, che riguarda le scene dei burocrati governativi, affiorano gli schemi rigidi e semplicistici della denuncia. Ne risente specialmente il personaggio di Branagh.
Un film di Peter Weir. Con Rachel Roberts, Dominic Guard, Helen Morse, Jacki Weaver, Vivean Gray, Kirsty Child Titolo originale Picnic at Hanging Rock. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 115 min. – Australia 1975. MYMONETRO Picnic ad Hanging Rock valutazione media: 4,20 su 40 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Australia, inizio secolo. Le ragazze del collegio di Appleyard si recano in gita ad Hanging Rock, una suggestiva formazione rocciosa, vanto della zona. Tre delle fanciulle scompaiono misteriosamente, e a nulla valgono le ricerche cui partecipano tutti gli abitanti del paese. Dopo una settimana, una ragazza ritrova una delle scomparse. La giovane non è in grado di dare alcuna spiegazione. Viene alla luce il losco passato della direttrice, ma l’episodio rimarrà sempre avvolto nel mistero.
Un giovane avvocato di Sydney accetta la difesa di un aborigeno accusato di aver ucciso un bianco. Intanto strani fenomeni naturali annunciano, secondo l’interpretazione tribale, la fine di un’era e l’inizio di un’altra. Dopo Picnic ad Hanging Rock , P. Weir riprende il tema delle antiche civiltà aborigene in chiave fantastica, puntando su una atmosfera di attesa e di angosciosa inquietudine che verso il finale scade nell’artificioso. Suggestivi effetti speciali, ottima fotografia di Russell Boyd.