Vittorio, amico d’infanzia dell’industriale Nicola, lavora per lui come portavalori e prestanome. Ferito nel corso di una rapina, Vittorio viene sostituito (come portavalori) da un ex poliziotto. Frattanto impara a sparare molto bene con la pistola e vince diverse gare di tiro.
Un vecchio e decrepito palazzo romano a fitto bloccato è di proprietà di Amedeo Pecoraio e di sua sorella Ofelia, maturi zitelli. Una società immobiliare offre loro una grossa somma a condizione che tutti gli inquilini siano sfrattati. La morte per veleno del loro soriano offre ai due proprietari il pretesto per spiare la vita degli inquilini resistenti. Come in Lo scopone scientifico , soggetto e sceneggiatura (con Augusto Caminito) sono di Rodolfo Sonego: il tono generale è più cupo e crudele, ma eccede nella tensione verso la metafora a scapito della verosimiglianza. È uno dei film degli anni ’70 che segnano, all’insegna del pessimismo, la fine della commedia italiana, egemone nel decennio precedente. Infallibile duo Tognazzi-Melato. Musica: Ennio Morricone. Prodotto da Sergio Leone.
Regia di Albert Hughes. Un film con Kodi Smit-McPhee, Jóhannes Haukur Jóhannesson, Marcin Kowalczyk, Jens Hultén, Natassia Malthe. Genere: Avventura, Drammatico – Anno di produzione USA, 2018, durata 96 minuti. – Voto su IMDb: 6.6 Età consigliata: da 10 anni
Trama: Durante una battuta di caccia 20.000 anni fa, un giovane uomo viene separato dalla sua tribù e si ritrova da solo e ferito. Incontra un lupo solitario, anch’esso allontanato dal suo branco. Insieme, i due improbabili compagni imparano a fidarsi l’uno dell’altro e affrontano i pericoli di un ambiente selvaggio e spietato per trovare la strada verso casa prima dell’arrivo del rigido inverno.
Commento: “Alpha” offre una storia di sopravvivenza toccante e visivamente suggestiva. Il legame che si sviluppa tra il giovane e il lupo è il cuore del film, esplorando temi universali come l’amicizia, la lealtà e la resilienza di fronte alle avversità. Le ambientazioni preistoriche sono ricreate con grande cura, immergendo lo spettatore in un mondo tanto affascinante quanto ostile.
I personaggi parlano una lingua artificiale chiamata “Beama”
Nel Bengala, sulle rive del Gange, due ragazze inglesi s’innamorano di un ufficiale americano, mutilato di guerra, che, piuttosto di scegliere, se ne va. La vita continua. 1° film a colori (fotografia del fratello Claude) di Renoir e opera di transizione dal realismo sociale alla ricerca di narrazione “classica”. Ingiustamente rimproverato di essere un documentario lirico mancato e di mancata critica al colonialismo, è una favola esotica (il romanzo della scrittrice Rumer Godden da cui è tratto risulta poco più di un pretesto) sul rapporto tra uomo e natura nel quadro di un panteismo pagano intinto di misticismo orientale. Ampio e solenne, chiede allo spettatore adesione contemplativa più che coinvolgimento emotivo. Vi lavorò come assistente il futuro grande regista Satyajit Ray.
Kaveh Nariman è un medico legale che lavora in obitorio. Una sera investe accidentalmente con la sua auto una famiglia che viaggia in moto. Il bambino cade e batte la testa in modo apparentemente privo di conseguenze. A distanza di poche ore arriverà il suo cadavere. La diagnosi dell’autopsia parla di avvelenamento per botulismo ma il medico ha il dubbio che la causa possa addebitarsi all’incidente. Avrà il coraggio di chiarire la situazione?
Ritratto in piedi del divo Giulio Andreotti (1919) all’epilogo paludoso della prima Repubblica, dal 1993, inizio del suo 7° e ultimo governo, al 1996, quando comincia il processo di Palermo. È un grottesco il 4° film di Sorrentino? In parte. Non è neanche satirico, se non verso i fedeli della sua corrente. È un dramma, questo ritratto di un personaggio blindato in cui il volto e la maschera sono inscindibili. Di un politico che si assume la responsabilità di praticare il Male per difendere e promuovere il Bene in favore dei cittadini – sudditi? – ignari. Di qualcuno che chiude in sé la forza simbolica del potere, quella reale di chi ha segnato 50 anni di storia italiana e una complessità psicologica tale da renderlo enigmatico e inquietante. Con qualche forzatura espressionista Servillo lo impersona in questa direzione in bilico tra realtà e mito, tra l’immaginario popolare e il giudizio impietoso che ne dà il Moro in disparte di Graziosi. Persino le ciniche battute che snocciola a ripetizione sono enigmatiche: frutto d’intelligenza, ma non di pensiero. Escluso Aldo Moro, non a caso solo due personaggi sono rispettati in quanto umani, la moglie (Bonaiuto) e la segretaria (Degli Esposti). È un dramma dissonante: diverte in superficie, ma in profondità impaurisce. Premio Speciale della giuria a Cannes 2008. 4 Nastri d’argento: regia, sceneggiatura (Sorrentino), attore protagonista e produzione; 7 David di Donatello: attore protagonista, attrice non protagonista (Degli Esposti), fotografia, musica, trucco, acconciatore, effetti visivi.
L’attraente moglie francese di uno sceneggiatore italiano disprezza il marito, troppo arrendevole ai compromessi con il produttore americano che l’ha scritturato per salvare un film diretto da un regista tedesco, Fritz Lang. Tratto dal romanzo (1954) di Alberto Moravia e maciullato nell’edizione italiana dal produttore Carlo Ponti, è un film imperniato sul rapporto classicità-modernità. Godard stravolge Moravia, criticandolo. Il suo talento lampeggia e s’impone, nonostante i tagli.
In un ristorante francese di Londra si consuma, con la complicità dello chef, l’adulterio tra la moglie di un volgare e ricco mafioso e un bibliotecario. Scoperta la tresca, il marito uccide l’amante. La moglie si vendica, costringendolo a mangiarne il cadavere, e poi l’abbatte. Esaltato dalla fotografia del vecchio Sacha Vierny (1919) e dalla musica genialmente semplice di Michael Nyman, fondato sul trinomio cibo-sesso-violenza, è il film più sarcastico, feroce e divertente di P. Greenaway. Anche il più politico. La ripetitività del racconto, scandito in dieci giornate (e pranzi) può indurre a sazietà, ma l’assiste l’angelo custode di un umorismo nero.
Una materna signora immigrata in Francia da tanti anni, un uomo non più giovane, ammaccato dalla solitudine e un delizioso adolescente impertinente vivono nella stessa casa popolare. Sono in un’attesa inconsapevole di qualcosa o qualcuno che li distragga e li faccia evadere dalla loro routine. L’esistenza di queste tre anime esce dall’anonimato e viene appagata, allietata, arricchita da persone speciali che entrano nelle loro vite: un astronauta americano precipitato sul tetto del palazzo, una dolce infermiera di notte con un’innata e timida compassione, una famosa attrice degli anni ’80 in cerca di un soggetto per tornare alla ribalta. Benchetrit, in ottima forma per questo suo 5° lavoro, dirige un film tratto da un suo libro di racconti Cronache d’asfalto (perché non intitolare anche il film così?). Le storie affondano la loro intimità nelle radici sociali e si sviluppano in ironici episodi/vignetta fatti di situazioni surreali e tragicomiche ed elementi anacronistici. Personaggi eccentrici di un deserto urbano periferico interagiscono amabilmente, infantilmente, cinicamente tra di loro. La malinconia si coniuga con il sorriso. La solidarietà si concilia con il riscatto sociale. Titolo internazionale: Macadam Stories , traduzione del titolo della raccolta di racconti da cui ha origine.
Sean Penn, al suo terzo lungometraggio, dimostra la stoffa dell’abile confezionatore di film di buon livello capaci (ed è già molto) di tenere desta l’attenzione dello spettatore. Il film si ispira al romanzo omonimo dello scrittore svizzero Friedrich Durrenmatt, anche se ben poco resta dello spirito tipicamente centroeuropeo di un autore che affermava la prevalenza del ‘gioco’ sul ‘messaggio’. L’ispettore di polizia Jerry Black è giunto al giorno della pensione. Arriva però la notizia del ritrovamento del cadavere straziato di una bambina e Black si offre per l’avvio delle indagini. Queste hanno breve durata perché il presunto colpevole viene catturato e sembra ‘firmare’ la propria confessione sottraendo una pistola a un poliziotto e sparandosi in bocca. Il caso è chiuso ma Black non è convinto: ha promesso solennemente alla madre di prendere l’assassino. Riesce così a scoprire un’area in cui il killer di bambine (tutte con le stesse caratteristiche) ha agito negli ultimi anni. Vi si installa rilevando un piccolo negozio di articoli vari e ottenendo la fiducia della barista locale che ha una figlia che per età e caratteristiche fisiche assomiglia alle uccise. Jerry è fermamente deciso a tutelare la piccola ma anche a prendere il killer. Penn gira con grande tatto anche se manca quel salto di qualità che è proprio dei grandi registi.
È la storia di un’educazione sentimentale: Eddie non insegna a giocare al biliardo a Vincent, ma a mettere a frutto il suo talento, cioè a trasformarlo in denaro, con tutti i mezzi. Seguito, 25 anni dopo, di Lo spaccone (1961) di Robert Rossen. Prima parte splendida all’altezza di Fuori orario , ma poi il racconto si avvita un po’ su sé stesso. Con la sua adolescenziale arroganza da Bruce Lee della stecca, T. Cruise è perfetto ma, come eccitato dal confronto, P. Newman trova un’infallibile grinta. L’atmosferica fotografia di Michael Ballhouse (che ha avuto una nomination all’Oscar come Boris Leven scenografo) fa il resto. 1° Oscar per Newman. Sceneggiatura di Richard Price, basata su un altro romanzo di Walter Tevis che morì 8 giorni dopo la sua pubblicazione nel 1984.
Mancano sette giorni al 2000. A Taiwan, dove piove a cielo rotto in continuazione, si diffonde un’epidemia misteriosa. I malati si comportano come scarafaggi. In un grande edificio – dove per intero si svolge la vicenda – un ragazzo e una ragazza non lasciano le loro abitazioni. Nell’appartamento sovrastante lui spia lei attraverso un buco, lasciato aperto da un idraulico. Quando lei s’ammala, attraverso il pertugio lui si allunga a porgerle un bicchiere d’acqua. Poi si tende, lei si aggrappa e viene tirata su. Non sono più soli. “Metafora sulla solitudine e sull’inquinamento terminale del mondo” (L. Tornabuoni), il 4° film del quarantenne e premiatissimo regista cinese è quasi muto, cupo, narrato in cadenze lente e ossessive, sostenute da una radicalità di sguardo che qui, grazie al supporto narrativo, si libera quasi completamente del suo decadentismo estetizzante. Realizzato per una serie TV ( Il 2000 visto da … ), il film durava in origine 58 minuti. Con un espediente produttivo che è diventato un originale e sagace contrappunto espressivo, le desolate ore vuote dei due personaggi sono intervallate da una mezza dozzina di luccicanti videoclip cantati e danzati alla maniera del musical americano. I 2 interpreti sono i protagonisti di Vive l’amour (1994).
Tra anziano camionista lombardo e giovane autista siciliano nasce una società “in proprio” e un’amicizia. Le impennate bizzarre in un contesto umoristico greve non giovano alla riuscita del film. Giannini ripete in pratica il personaggio di Mimì metallurgico.
Berlino, anni Quaranta. Bruno è un bambino di otto anni con larghi occhi chiari e una passione sconfinata per l’avventura, che divora nei suoi romanzi e condivide coi compagni di scuola. Il padre di Bruno, ufficiale nazista, viene promosso e trasferito con la famiglia in campagna. La nuova residenza è ubicata a poca distanza da un campo di concentramento in cui si pratica l’eliminazione sistematica degli ebrei. Bruno, costretto ad una noiosa e solitaria cattività dentro il giardino della villa, trova una via di fuga per esplorare il territorio. Oltre il bosco e al di là di una barriera di filo spinato elettrificato incontra Shmuel, un bambino ebreo affamato di cibo e di affetto. Sfidando l’autorità materna e l’odio insensato indotto dal padre e dal suo tutore, Bruno intenderà (soltanto) il suo cuore e supererà le recinzioni razziali. La drammaticità della Shoah, di un inferno voluto dagli uomini per gli uomini, è inarrivabile e di fatto non rappresentabile ma questo non ha impedito al cinema di provare e riprovare a misurarsi con quella tragedia. L’approccio cinematografico di Mark Herman, regista e sceneggiatore, è diretto e il punto di vista assunto è quello di un bambino, figlio di un gerarca nazista, la cui innocenza (davanti all’orrore) trova corrispondenza soltanto in Shmuel, coetaneo internato all’inferno. A differenza di La vita è bella e di Train de vie, Il bambino con il pigiama a righe non è una favola dove ognuno ha un proprio e preciso ruolo, al contrario nel film di Herman i due universi, quello del Bene e quello del Male, si lambiscono fino a confondersi e a sconvolgersi. Nel Bambino col pigiama a righe è l’inadeguatezza e la debolezza degli adulti, anche di quelli buoni, a obbligare i bambini a prendere in mano il proprio destino e a determinarlo. I padri e le madri non fanno “magie” come il Guido Orefice di Benigni e il Male che li circonda finisce per inghiottire i loro figli e renderli all’improvviso consapevoli. Il regista inglese è abile a evitare gli stereotipi della storia “cattiva” e della contrapposizione tra infanzia idealizzata e abiezioni del mondo adulto, analizzando la durezza di un’epoca (la Germania nazionalsocialista) e di un’età (l’infanzia). Muovendosi tra trappole d’apparenza ed eludendo clichè, sentimentalismi e scene madri, Herman mette in scena le ingiustizie e i rapporti di forza che si definiscono già nell’età più verde. Attraverso il minimalismo di episodi quotidiani, immersi nella severità dei colori freddi, Il bambino col pigiama a righe svolge la memoria, rivisitandola con soluzioni e libertà che rendono la storia intollerabile e lancinante. Per questa ragione, l’autore “chiude la porta” sulla camera a gas, interponendo fra gli spettatori e il volto della Medusa la pietas di un narrare artistico che consenta di guardarla senza soccombere impietriti, atterriti. Tratto dal romanzo omonimo dell’irlandese John Boyne, Il bambino con il pigiama a righe è un film evocativo di un’epoca nera e tragica, rivista attraverso la psicologia di un’amicizia infantile e di una (pre)matura scelta di campo, complicate da una realtà storica di discriminazioni e di selezioni razziali. Immagini che richiamano per tutti la necessità di frequentare (sempre) la Memoria e di non considerare mai risarcito il debito con il nostro passato.
In Germania, a Wisborg, nel 1838, Thomas Hutter, novello sposo della bellissima Ellen, viene inviato dall’agenzia immobiliare per cui lavora, in una remota residenza dei Carpazi. Appena arrivato nella regione è tormentato da incubi e assiste a barbariche pratiche locali, inoltre a portarlo nel castello del conte Orlock arriva una carrozza misteriosamente senza cocchiere. Il conte pretende che lui firmi un contratto in una lingua antica e incomprensibile. Solo troppo tardi Hutter ne scopre la natura di non-morto ma, incapace di contrastarlo, si rifugia nella propria camera. Quando la creatura lascia il maniero per la città, per avvicinarsi a Ellen dalla quale è ossessionato già dall’adolescenza di lei, Hutter rischierà la vita pur di fuggire. Nel mentre Orlock ha scatenato una pestilenza a Wisborg, che gli permette di agire indisturbato. Darà a Ellen tre giorni di tempo per cedere alla sua mortale corte.
Remake dell’omonimo capolavoro di Murnau del 1922, Nosferatu – già rifatto da Herzog avvicinandolo però al romanticismo del Dracula di Stoker – il film di Eggers torna alla variante più animalesca del vampiro, rileggendone il mito in una chiava sottilmente femminista.
A prima vista potrebbe sembrare che Ellen sia la causa stessa dell’arrivo della mortifera presenza in città perché, come vediamo nel prologo e come poi viene ribadito dallo stesso Nosferatu, è stato il suo desiderio a risvegliare il non-morto e attirarlo a Wisburg. D’altra parte quel desiderio non è che il riemergere di una repressione sociale, di qualcosa che viene costantemente negato e punito. Persino quando Ellen manifesta evidenti problemi il dottor Sievers, che pure è un personaggio con diversi tratti positivi, non può esimersi dal consigliare un corsetto più stretto. Quella che può allora sembrare un contraddizione inconciliabile tra la natura di sirena e di santa di Ellen, è in realtà lo specchio di una femminilità in sé positiva e potente, tanto da sconfiggere il mostro, ma afflitta dalla condizione che la società impone. Del resto il tema era questo anche nel film d’esordio di Eggers, The Witch: anche se là il finale andava in una direzione diversa, la scaturigine di un pericolo femmineo era nella condizione femminile.
Servissero altri esempi basterebbe dire che se pur Ellen aveva sognato il vampiro durante la pubertà, entrando in contatto con lui, quegli incubi erano poi tornati sotto controllo e il pericolo ritorna solo quando suo marito decide di ignorarla e lasciarla a casa – va detto che è un uomo affettuoso e lo farà controvoglia, a sua volta vittima di condizioni sociali che cerca di migliorare. C’è poi anche una prospettiva formale molto chiara nel film: il desiderio è invincibile quando confinato nell’ombra, nella notte, quando dunque viene costretto in una sfera repressa, mentre è solo accettandolo e portandolo alla luce che cessa di essere un pericolo. Una lettura che viene rinforzata dal personaggio di Willem Dafoe, corrispettivo del Van Helsing di Bram Stoker ma piegato verso un esoterismo più visionario. Questi dice a Ellen che in altri tempi sarebbe stata una sacerdotessa di Iside, una figura venerabile per le sue doti spirituali e non obbligata a restare a casa a figliare.
Johnny torna dalla guerra insieme a due commilitoni e amici per la pelle. Arrivano a Los Angeles e predono alloggio in un albergo. Poi Johnny, senza grande entusiasmo, va a cercare la moglie in un residence. La vede mentre bacia un altro. I due litigano, lei gli rivela che il loro figlioletto era morto non di malattia ma a causa della sua ubriachezza, Johnny ha l’impulso di ucciderla, ma non lo fa e se ne va. La donna viene trovata morta. Johnny è il primo sospettato, fugge. Incontra una biondina misteriosa, moglie, guarda caso, dell’amante di sua moglie. Il tutto è complicato dal grande amico di Johnny, che ha delle crisi di amnesia. Alla fine Johnny arriva alla verità. È stato il detective del residence a uccidere. Anche il marito della biondina è morto. Forse c’è un futuro fra lei e Johnny. Uno dei classici del famoso genere noir. Film di ottima atmosfera grazie anche all’intervento di Raymond Chandler, il grande giallista padre del detective Marlowe. Ma soprattutto grazie alla bravura di Alan Ladd, un attore le cui attitudini non sono mai state riconosciute. La sceneggiatura di Chandler dava alla storia svolte imprevedibili e al dialogo un colore particolare. Funzionale era anche la presenza di Veronica Lake, triste e misteriosa come il suo partner. Da ricordare infine la prova di William Bendix, presente in molti noir dell’epoca, un grande caratterista. La dalia azzurra, girato senza grande profusione di mezzi, vive di pura storia e di interpretazioni, un piccolo capolavoro costruito con grande intelligenza e piccolo budget.
Mentre suo cugino diventa un ufficiale nazista, il nipote di un ricco ranchero argentino fa una doppia vita nella Parigi occupata: apparentemente snob, milita nella Resistenza antitedesca. Rifacimento del film muto con Rudy Valentino, quest’aggiornamento alla seconda guerra mondiale dell’indigesto romanzo di Vicente Blasco Ibañez è elegante, ma senza cuore. Può piacere a chi ama il melodramma irrealistico qui al culmine del suo raffinato decorativismo.
Dal romanzo di Willard Motley. Il figlio di un commerciante ingiustamente condannato e morto di crepacuore entra nell’ambiente della mala. È riportato sulla retta via da un avvocato, ma l’ingiustizia sociale lo induce di nuovo alla rivolta. Su un tema che gli era caro (rapporto padre-figlio) Ray ha fatto un film, prodotto da Bogart, onesto e sincero nella sua denuncia sociale, ma verboso e retorico, di strategia macchinosa. Seguito: Che nessuno scriva il mio epitaffio.
Tre racconti di illustri autori – Maupassant ( Il telefono), Tolstoj ( I Wurdulak) e Cechov ( La goccia d’acqua) – ridotti per lo schermo, e trasformati in tre vicende dell’orrore.
In un’isola della Polinesia vivono tre amiconi: un dottore, il proprietario di una taverna, un marinaio. La figlia del medico, che non conosce suo padre, arriva da Boston per stabilire se il genitore sia degno di ricevere un’eredità e il taverniere s’assume la paternità dei bambini che il dottore ha avuto da un’indigena. Quando la ragazza scoprirà la verità avrà già deciso di rimanere nei mari del Sud perché innamorata del taverniere.