Anni Sessanta. Molti lavoratori delle grandi città vengono inviati in provincia per sviluppare l’industria locale. La protagonista diciannovenne trova il primo amore ma anche la prima profonda delusione che la marcherà per la vita. Il ritorno a Shanghai non sarà portatore di speranza. Ci sono sempre, nei programmi dei grandi festival, uno o due film che fanno pensare che non siano stati “scelti” ma, in qualche modo, “imposti”. Da grandi produttori o da governi più o meno totalitari. Sembra essere il caso di quest’opera, presentata a Cannes 2005 dove si è inoltre aggiudicato il Premio della Giuria. Un melò di discreta fattura che cerca di mescolare nell’arco di due ore la rivisitazione di un periodo della storia cinese recente con una vicenda d’amore adolescenziale. Un Matarazzo orientale. Niente di più.
Giuseppe Tornatore ha collaborato col Maestro – definizione per una volta appropriata – in un arco temporale che va da Nuovo Cinema Paradiso (1988) a La corrispondenza (2016), frequentandolo per circa trent’anni. Nel 2018 ha scritto “Ennio. Un maestro” (Harper Collins), intervista fluviale e conversazione franca, a trecentosessanta gradi: in Ennio ne riprende argomenti, andamento cronologico e tono disteso, modesto, autocritico con cui Morricone si era concesso alle sue domande. Attorno a lui, nel film, una schiera di musicisti, registi, colleghi ed esperti portano testimonianze rilevanti e inerenti una carriera straordinaria, che supera il concetto di prolifico: centinaia le opere firmate, da Il federale (1961) all’unico Oscar vinto per una colonna sonora, The Hateful Eight nel 2016, a 87 anni.
Dall’oriente un terzetto di mediometraggi va a comporre un film solo per duri di stomaco. Cina: per combattere le rughe, la facoltosa signora Qing pranza spesso da zia Mei, specie di fattucchiera i cui ravioli sono un elisir di lunga vita. Il segreto è nel ripieno: carne di feti abortiti. Corea: un regista e sua moglie vengono rapiti da una comparsa psicopatica che li tortura. Il motivo è che l’uomo non riesce ad accettare che il regista oltre che bravo, bello e ricco, sia anche buono. Giappone: una giovane scrittrice è tormentata dal ricordo di un delitto commesso da bambina. Gli estremorientali sembrano essersi resi conto di essere le genti più allucinate del pianeta, al momento, e decidono di unire le forze e mettere insieme questa sorta di campionario dell’efferatezza. Scegliete dal catalogo l’episodio che più vi aggrada e tuffatevi nel maelstrom della follia pura.
Film in 3 episodi. “Il filo pericoloso delle cose” (scritto da Tonino Guerra – 29′). Un uomo litiga con la compagna e fa l’amore con una vicina di casa. Le due donne s’incontrano nude sulla spiaggia. Imbarazzante recupero di cascami anni ’60: “un pallido catalogo turistico di luoghi antonioniani” (A. Pezzotta). Induce a una domanda etica: c’è stata a monte una speculazione o una manipolazione a spese di un novantenne e del suo passato? Girato, si dice, nel 2002. “Equilibrium” (scritto da Soderbergh – 27′). Un uomo racconta i suoi sogni erotici a uno psicanalista distratto e guardone. Ma è tutto un sogno. Prolisso e pretenzioso, un giochino fuori tema, frettolosamente messo in immagini. Divertente. E allora? “La mano” (Scritto da Kar-wai – 42′). Un sarto s’innamora di una prostituta, sua cliente, e continua ad amarla in silenzio per anni. Quasi una protesi di 2046 : linguaggio, atmosfere, attori, ambienti, meccanismo narrativo sono i medesimi. Con masturbazione iniziale e finale. Per entrambi i film, il sospetto di manierismo autoriale è legittimo. Ha il vantaggio della breve durata.
Hark Tsui torna sul soggetto che gli diede il primo grande successo (Zu: Warriors from the magic mountain) dando vita ad un remake dal budget altisonante e dagli effetti esplosivi. Zuppo di digitale fino al midollo, The Legend of Zu è un’opera visionaria, mix di filosofia orientale, arti marziali (poche ma certificate Yuen Wo Ping) e leggenda popolare. Sulle montagne di Zu vivono dei guerrieri immortali che proteggono il genere umano dagli attacchi delle forze oscure. Un manipolo di eroi dai poteri sovrannaturali si uniranno nel tentativo di annientare le forze del male pronte all’attacco, in un crocevia di relazioni personali e lotte interiori. Una cornice visiva decisamente barocca si unisce ad un narrato dal ritmo piuttosto frammentato: la sensazione è che ogni 10 minuti inizi un nuovo film.
Manciuria, 1946. Il capitano 203 guida un manipolo di soldati dell’Esercito Popolare di Liberazione maoista, spossato dalla guerra civile, che arriva in un villaggio terrorizzato dall’egemonia dei banditi. Questi, guidati da Lord Hawk, hanno preso possesso di Tiger Mountain, un rifugio pieno di insidie, e di un arsenale appartenuto ai giapponesi. Inferiori numericamente e peggio armati, i soldati dovranno ricorrere a un’impresa eroica per sconfiggere i banditi e liberare il villaggio. Yang, inviato dal Quartier Generale del Partito, si offre volontario come infiltrato nella gang di Hawk per aiutare la missione.
Cina 1660. Con la sua banda di accoliti, Vento di Fuoco terrorizza la popolazione di diversi villaggi e semina morti, ruberie e soprusi. Per fermarlo vengono reclutati sette spadaccini – sei uomini e una donna – valorosi e imbattibili. Come in ogni western che si rispetti, alle varie fasi della riscossa segue un finale pirotecnico, vittorioso e aperto. Del romanzo di Liang Yusheng cui si è ispirato, T. Hark (nato in Vietnam ma laureato negli Stati Uniti e affermatosi a Hong Kong), cineasta rigoroso e insieme grande intrattenitore, ha ridotto all’essenziale le storie personali dei suoi 7 personaggi, privilegiando gli aspetti di romanzo popolare, di azione, di spettacolo. Il film – che aprì la Mostra di Venezia nel 2005 – è un epico avventuroso, storicamente ben documentato, con accenti realistici ed effetti speciali digitali, meravigliose imprese atletiche a base di arti marziali (con le impeccabili coreografie dello stesso regista) e risvolti fiabeschi, musiche sentimentali e paesaggi emozionanti. Anche se, soprattutto per noi europei, per una parte dei 144 minuti è difficile distinguere gli attori l’uno dall’altro; molto famosi in patria, riescono a disegnare personaggi realistici ed “eroici” nei loro ideali di onore e giustizia.
Un uomo, una donna, due figli e le loro difficoltà economiche. Dormono dove capita, si lavano nei bagni pubblici, vivono come possono, ai margini della metropoli di Taipei. Sempre più rarefatto, tanto nella frequenza delle sue opere che nella successione di avvenimenti all’interno delle opere stesse, Tsai Ming-liang muta con il mutare dello Zeitgeist. Inevitabile, forse, ma uno dei registi-chiave del passaggio di millennio può permettersi di togliere le briglie residue della propria poetica e lasciarsi andare alla libertà dell’astrazione, come se dalla provocazione delle bandiere invertite di Johns si passasse alle bicromie imperscrutabili di Rothko. Il cinema del regista taiwanese era iniziato sotto le luci al neon di Rebels of the Neon God o nella sessualità scandalosa de Il fiume: oggi, benché ancora contraddistinto dal volto di Lee Kang-shek e da un inconfondibile e ineguagliabile gusto per l’inquadratura perfetta e per i silenzi di Antonioni, Tsai è quasi irriconoscibile. Il regista si spoglia di ogni orpello e di ogni riferimento esterno: niente più strizzate d’occhio al musical (The Hole), alla cinefilia (Goodbye Dragon Inn), alla nouvelle vague (Che ora è laggiù?) o al porno (Il gusto dell’anguria). Cinema come inevitabilità della messa in scena, autosufficiente e incontaminato. Stanco del cinema a parole, Tsai ne è più che mai posseduto nei fatti. Forse Stray Dogs è l’epilogo e l’atto definitivo di una carriera, forse il suo film più libero e puro nella matta disperazione con cui racconta la Ferocia della miseria, di una vita ai margini che spegne lentamente ogni residuo di umanità.
La giovane protagonista di Che ora è laggiù? (2001) torna da Parigi a Taipei, afflitta da una grave siccità, e incontra per caso il venditore d’orologi, suo ex innamorato, che per campare fa l’attore di pornofilm. Con lui ha un rapporto passionale, ma senza sesso, esclusa la fulminea fellatio conclusiva. Si comincia con un lungo e grottesco coito per interposta anguria, fonte del titolo italiano (BIM), che entrerà sicuramente in una futura antologia del cinerotismo. Coerente al suo passato, il malese e prolifico Ming-liang (un film all’anno in media) non perde tempo nel dare una struttura al racconto. Bifronte e ibrido, il film dovrebbe interessare a chi sostiene che nelle belle arti, specialmente audiovisive, il sesso dovrebbe essere comico o tragico, o far ridere o far tremare. Qui sconvolge, disgusta, respinge. Non a caso quasi tutte le scene erotiche spinte avvengono durante le artigianali riprese ravvicinate in pornovideo. Il regista prende le distanze dalla materia, alleggerendo la tetraggine lenta e muta delle scene realistiche con 7 siparietti musicali cantati e danzati di esibito gusto Kitsch o camp tra cui spiccano l’irriverente danza a struscio sul monumento di Chang Kai-shek, padre della patria, quella con gli ombrelli ad anguria e quella dell’orinatoio tra festoni di carta igienica che, insieme con le bottiglie di plastica, sono due ossessivi Leitmotiv plastici. Raro divieto ai minori di 18 anni in Italia.
In concorso a Venezia 2010, secondo gli esperti è all’altezza dei film più celebrati del rinomato Tsui Hark per la forza visionaria di una immaginazione libera e sovversiva e di una tecnica sapiente che tendono alla meraviglia e allo stupore degli spettatori giovani e adulti. Nel 690 d.C. una congiura vuole impedire che salga sul trono la prima donna imperatrice della Cina. È lei a incaricare il giudice investigatore Di Renjie per far luce sulle enigmatiche morti per autocombustione di potenti cortigiani. Aiutato da un guerriero albino e da una vispa e combattiva giovane, Di Renjie scopre il colpevole. In bilico tra ragione e magia, arti marziali ed erotismo, fantasia scatenata e pragmatismo da intrigo poliziesco, menzogne del potere e oscillazioni dell’identità sessuale, il film non cade quasi mai nel virtuosismo formalistico. Coadiuvato dalle tecnologie digitali e dal coreografo Sammo Hung Kam-bo (già al servizio di Jackie Chan), Hark si conferma maestro dello spazio e dell’azione. Distribuisce Tucker.
Cantore della solitudine urbana, con I don’t want to sleep alone, Tsai Ming-Liang costruisce un’opera densa e inquietante. Girato a Kuala Lumpur, in Malesia, paese d’origine del regista, il film segue le traiettorie dei suoi personaggi: un senza tetto cinese pestato a sangue, ospitato da un lavoratore del Bangladesh, e una cameriera di un coffee shop. Privati di qualsiasi caratterizzazione psicologica, i protagonisti si muovono in uno spazio urbano indefinito e sospeso, lasciandosi trascinare in un’esistenza anonima e incolore, ribelli donchisciotteschi di una società postmoderna, malsana e contaminata: il loro grido è muto e disperato, almeno quanto lo sono gli spazi nei quali si muovono.
Un film di Zhang Yimou, Yang Fengliang. Con Gong Li, Li Boatian, Wei Li, Li Baotian, Zhang Yi, Li Wei, Zhen Ji-an Yang Drammatico, durata 95′ min. – Cina 1990. MYMONETRO Ju Dou valutazione media: 3,54 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Dal racconto Fuxi Fuxi di Liu Heng. Cina, anni ’20. Ju Dou (Gong), bella e giovane contadina, è comperata in sposa dall’anziano Jin-Shan (Wei), proprietario di una tintoria, che spera, benché semimpotente, di avere da lei un erede. Maltrattata dal dispotico consorte, s’innamora del giovane nipote che lavora come garzone per lo zio. Nasce un bambino, ma il vecchio rimane paralizzato e i due amanti decidono di eliminarlo. Cresciuto, il bambino muto si trasforma in uno spietato “angelo della morte”. È lui il vero motore dell’azione sul versante nero di questo melodramma rusticano con risvolti sociali e grotteschi passaggi da horror. Dal décor della tintoria all’impiego creativo della luce e del colore (giallo e rosso specialmente), usati per suggerire la tragica energia della vicenda e dei personaggi, tutto è di un’ammirevole coesione narrativa. Il coregista è un funzionario del ministero della Cultura, messo al fianco di Yimou come inutile garante dell’ortodossia di un film che, postprodotto a Tokyo, non fu mai distribuito in Cina.
Nei commenti ho aggiunto una versione migliore solo ita senza hardsub
Ou Yang Feng (L. Cheung), già spadaccino e sicario di professione, vive da eremita nel deserto. Gli fa visita una ragazza (C. Young) che vorrebbe vendicare la morte del fratello. Gli richiama alla memoria l’unica donna (M. Cheung) che ha mai amato, ora moglie di suo fratello. Ma anche il suo migliore amico (T. Leung) è innamorato di lei. Nel suo 3° e costoso film, Wong prende in prestito i personaggi di un romanzo di arti marziali di Jin Yong e li situa in mezzo a un deserto per analizzarne ossessioni e manie. “Incredibile apologo filosofico, film di kung-fu senza combattimenti, film in costume senza un tempo di riferimento, paradossale tentativo di ‘prendere sul serio’ le storie di fantasmi e di eroi mitologici cinesi” (G. Manzoli).
Tra il giovane erborista Xu Xian e il Serpente Bianco, demone millenario, nasce una storia d’amore improvvisa quanto intensa. La sincerità del legame è però messa in dubbio dal monaco-stregone Fa Hai, intenzionato a imprigionare tutti i demoni che interferiscono nelle faccende degli umani. Pur vantando una carriera senza eguali nel campo del cinema spettacolare e di arti marziali, avendo contribuito alle coreografie di tutti i capisaldi del genere, il nome di Ching Siu-tung nell’immaginario collettivo resta legato a Storia di fantasmi cinesi, inarrivabile esempio di incontro tra fantasy e wu xia, tra ghost story e melò. Ed è proprio a quello spirito e a quelle atmosfere che si riallaccia idealmente The Sorcerer and the White Snake, ancora una storia d’amore che unisce il mondo degli umani e quello degli spiriti. L’intento è chiaramente quello di realizzare, con le spaventose potenzialità che la CGI può offrire, ciò che all’epoca di Storia di fantasmi cinesi (e in special modo dei seguiti, più concentrati sul lato spettacolare che sull’intreccio) non era neanche lontanamente immaginabile.
Un film di Zhang Yimou. Con Gong Li, He Caifei, Cao Cuifeng, Jin Shuyuan Titolo originale Dahong Denglong Gaogao Gua. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 126′ min. – Cina 1991. MYMONETRO Lanterne rosse valutazione media: 4,21 su 19 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Tratto dal romanzo Mogli e concubine di Su Tong, ambientato nella Cina del Nord dei primi anni ’20, è la storia di una studentessa povera che interrompe gli studi per diventare la quarta moglie, dunque concubina, di un ricco signorotto. Situata in un bellissimo edificio di articolata struttura architettonica, è una dolente sinfonia in rosso minore sulla condizione femminile, il rapporto dei sessi, le logiche del potere dove lo splendore formale si coniuga col rigore morale e l’asciuttezza narrativa. Leone d’argento a Venezia, non distribuito nella Cina Popolare.
Ritratto di una donna in piedi con cui, al suo 3° film, il regista cinese di origini mongole vinse l’Orso d’oro a Berlino 2007 tra il dissenso sbigottito o irritato tra i più dei giornalisti e critici, alcuni dei quali non l’avevano nemmeno visto. È la storia della mongola Tuya e della sua famiglia, un anziano marito invalido e due figli. Per sopravvivere a una situazione grama (lontananza da un centro abitato, gregge di pecore da pascolare, acqua lontana da portare a casa), la volitiva Tuya decide di divorziare. Poiché è anche giovane e bella, quando la notizia si sparge, i pretendenti ricchi non mancano, ma quasi tutti si arrendono: chi vuole sposarla, deve farsi carico anche del marito invalido. Unica attrice tra le facce trovate sul posto, già interprete dei film precedenti di Wang Quanan ( Lunar Eclipse , 2000; Jing Zhe , 2003), è Yu Nan che dà l’acqua della vita a questo film neorealista, limpido e concreto, scritto da Lu Wei: pur infagottata in abiti per il sottozero, rivela lentamente il suo muliebre fascino. Messo in immagini con una scrittura semplice e sobria, ha due virtù: la leggerezza del tocco anche nei momenti più gravi e l’affetto per i personaggi.
4 ragazzini dai 4 angoli del mondo – Jackson in Kenya, Zahira in Marocco, Carlos in Argentina e Samuel in India – devono affrontare un lungo cammino per raggiungere le rispettive scuole. Ore e chilometri macinati a piedi, a cavallo, sulla sedia a rotelle nella speranza di raggiungere un futuro migliore. Plisson documenta la partenza da casa e i percorsi per arrivare a scuola, lo fa con attenzione, empatia e ottimismo. Aggiunge solo qualche drammatizzazione naturale (l’insidia degli elefanti), o accidentale (la foratura di una gomma), che non intaccano l’intensità di fondo. Distribuito da Academy 2.
Kitty, una giovane donna della borghesia inglese in età da marito, sposa Walter Fane, un medico specializzato in batteriologia che nutre per lei un sentimento profondo. Dopo il matrimonio, contratto per compiacere la madre, Kitty si trasferisce con Walter a Shangai, dove, annoiata, cede alle lusinghe di sir Charles Townsend, vice console maritato e padre di due figli. L’adulterio viene presto scoperto da Walter che, ferito, decide di rivalersi conducendo la moglie al villaggio di Mei-tan-fu colpito da un’epidemia colerica. L’isolamento forzato e le condizioni di morte e miseria in cui versa la gente del villaggio, costringono Kitty a un esame di coscienza che getta sul marito una luce nuova. Commossa dall’amorevole dedizione con cui Walter giorno e notte assiste i malati, Kitty decide di appoggiare la sua missione e di rendersi utile in ospedale. In quel luogo sperduto impareranno ad amarsi e a perdonarsi. I romanzi di Maugham, scrittore britannico morto nel 1965, sono stati per anni la magnifica ossessione di Edward Norton. La sua scelta è poi ricaduta su “Il velo dipinto”, già trasposto sullo schermo nel 1934 da Richard Boleslawski e interpretato, nello splendore del bianco e nero, da Greta Garbo. Il risultato è un film delicato che restituisce allo spettatore l’esperienza di una lettura diretta del libro, a cui rimane fedele, almeno nelle atmosfere e nei dialoghi. A cambiare, fino a stravolgere il senso della storia, è l’epilogo, per il quale lo sceneggiatore Ron Nyswaner sceglie la più facile soluzione della riconciliazione spirituale e fisica della coppia. Se il punto di osservazione, assunto dal romanziere e dallo sceneggiatore, è lo stesso (quello di Kitty), la differenza sta nel modo di intendere il suo personaggio, che nel film viene indagato non tanto per le sue caratteristiche psicologiche e sociali, ma in base alla funzione che svolge nello sviluppo del racconto. La Kitty letteraria, calata perfettamente nella Cina inglese degli anni ’20, è portatrice inquieta di una drammatica disparità, è un “accessorio” di famiglia da emancipare attraverso il matrimonio. I suoi viaggi, quello geografico e quello interiore, la condurranno principalmente alla scoperta di sé. La rivelazione del suo essere, niente affatto consolatoria, non fa che riconfermarle la sua vocazione all’egoismo e all’individualismo. La Kitty di John Curran, certamente più moderna e meno greve del suo doppio letterario, risolve a letto i veleni coniugali e certi vizi morali. Il regista canadese conferma Naomi Watts e torna a “giocare coi grandi” all’adulterio come conseguenza del tedio esistenziale e della caducità della passione coniugale. Su una cosa regista e scrittore sono d’accordo: l’infedeltà non comporta necessariamente la rovina. Basta s-velarsi e trovare la strada del perdono.
Regia di Liang Zhao. Un film Da vedere 2015 Titolo originale: Bei xi mo shou. Genere Documentario – Cina, Francia, 2015, durata 95 minuti. Consigli per la visione di bambini e ragazzi: +13 Valutazione: 4,00 Stelle, sulla base di 1 recensione.
Nel mezzo del cammin della sua vita un uomo nudo giace ripiegato su se stesso in posizione fetale nella Cina di oggi, al confine fra due mondi: un paradiso agreste che fa già parte di un passato irreversibile e un inferno minerario creato seguendo l’istinto distruttivo della mitologica bestia Behemoth. La terra è profanata da ruspe che scavano come artigli e viene trasportata lontano dai “giocattoli del mostro”, non prima di essere stata scandagliata da mani febbrili alla ricerca di qualcosa di prezioso che non dà gioia a chi lo trova. I minatori che popolano questo girone dantesco sono sproporzionatamente piccoli rispetto a ciò che producono, e facilmente rimpiazzabili, nel caso venissero spazzati via dalle esplosioni che sventrano le montagne, o fatalmente intossicati dal fumo e dal debris che esala dalle pareti violate, o arrostiti dalla lava che scorre dalle viscere stuprate come sangue incandescente. È una Divina Tragedia la cui guida non è un compositore di endecasillabi ma un uomo comune con uno specchio appoggiato sulle spalle che riflette il disastro a ritroso, e cerca segni di vita nel deserto.
Jack Malik è un musicista di scarso successo. In lui crede solo Ellie, manager, amica e forse qualcosa in più, benché inespresso. Finché una sera, dopo che ha deciso di smettere con la musica e cercare un lavoro più regolare, Jack ha un incidente e perde coscienza durante un blackout planetario. Quando si sveglia, scopre che il mondo è stato privato delle canzoni dei Beatles e che lui è rimasto il solo a ricordarle.