L’ Eunuco dell’Impero ha ordinato la condanna a morte del comandante del suo esercito per tradimento e insurrezione. La famiglia del comandante è stata assassinata, ma i suoi due figli più giovani, un figlio e una figlia, sono stati esiliati dall’impero. Al fine di completare il piano, l’eunuco ha mandato il suo scagnozzo segreto ad assassinare i due bambini. Il piano fallisce, dando inizio a numerose battaglie.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Cina, IX secolo. Sotto la dinastia Tang il Paese vive e prospera. A minacciare la sua età d’oro si adoperano gli ambiziosi e corrotti governatori della provincia. L'”ordine degli assassini” è incaricato di eliminarli. Nelle sue fila serve e combatte Nie Yinniang, abile con la spada e sotto la chioma nera di inchiostro lucente. Rientrata nella sua città e nella sua provincia, dopo l’apprendistato marziale e un esilio lungo tredici anni, Nie Yinniang deve uccidere Tian Ji’an, governatore dissidente della provincia di Weibo. Cugino e sposo a cui fu promessa e poi negata.
Ou Yang Feng (L. Cheung), già spadaccino e sicario di professione, vive da eremita nel deserto. Gli fa visita una ragazza (C. Young) che vorrebbe vendicare la morte del fratello. Gli richiama alla memoria l’unica donna (M. Cheung) che ha mai amato, ora moglie di suo fratello. Ma anche il suo migliore amico (T. Leung) è innamorato di lei. Nel suo 3° e costoso film, Wong prende in prestito i personaggi di un romanzo di arti marziali di Jin Yong e li situa in mezzo a un deserto per analizzarne ossessioni e manie. “Incredibile apologo filosofico, film di kung-fu senza combattimenti, film in costume senza un tempo di riferimento, paradossale tentativo di ‘prendere sul serio’ le storie di fantasmi e di eroi mitologici cinesi” (G. Manzoli).
A differenza della versione REDUX che dura 93 minuti questa ne dura 98
Liberamente ispirato a un libro di racconti di Piu Sung-Ling (1640-1715), è un vasto affresco epico-avventuroso con risvolti fantastici la cui azione ha per sfondo un villaggio della Cina settentrionale nell’epoca Ming (1367-1643) e per personaggi principali la bella, valorosa e perseguitata figlia (Feng) di un ministro morto sotto le torture, che s’è nascosta in una casa infestata dai fantasmi; un giovane povero (Chun), pittore e letterato; un generale travestito da cieco e un pacifico monaco buddista, esperto in arti marziali, le cui ferite si rigenerano al sole e il cui sangue si tramuta in oro. Si può dividere in tre parti: la prima ha le cadenze di un racconto del mistero con risvolti ironici; la seconda mette in scena duelli all’arma bianca che si trasformano in fantasiosi e magici balletti; nella terza parte l’azione spettacolare lascia il posto a un misticismo visionario: vi si suggerisce come l’etica dello Zen – precisione, rigore, controllo di sé, ascetismo, efficacia, lealtà – si traduce in gesto e azione. 4° film di King Hu, raffinato scenografo e coreografo, pur non mancando di squilibri, di prolissità e di passaggi opachi, è uno splendido esempio di cinema come fonte di avventura, meraviglia, magia spettacolare, organizzazione del movimento nello spazio. In concorso a Cannes nel 1975, in Italia è stato visto soltanto sui teleschermi.
Li Mu Bai è un maestro di arti marziali la cui spada viene ritenuta dotata di poteri magici. Li Mu Bai ama la bella e coraggiosa Yu Shu Lien, ma non può rendere espliciti i suoi sentimenti perché la ragazza è stata fidanzata al suo fratello di sangue. Un giorno decide di consegnare la spada a Shu Lien perché la porti al signor Tè che dovrà custodirla. Ma il dignitario se la fa rubare. Shu Lien avrà però la fortuna di incontrare la figlia del governatore Yu, ormai promessa a un futuro sposo e desiderosa invece di percorre i sentieri dell’avventura. Ang Lee torna a casa e al proprio immaginario infantile e ritrova l’originalità che ne aveva contraddistinto gli esordi. A questo regista la trasferta americana non ha fatto bene: si è messo in testa (dopo i piacevolissimi Banchetto di nozze e Mangiare Bere Uomo Donna) di spiegare l’America agli americani e ha realizzato tre film come Ragione e sentimento, Tempesta di ghiaccio e Cavalcando col diavolo che finivano col risultare più manuali di storia e/o sociologia per immagini che film. Molto meglio va quando, come in questo caso, racconta Taiwan agli occidentali con quell’attenzione all’universo femminile che lo contraddistingue e che, anche in questa storia “marziale”, conquista lo schermo unendo agilità ed eleganza.
The Terrorizers (恐怖分子S, Kǒngbù fènzǐP) è un film taiwanese del 1986 diretto da Edward Yang.
Un mistero metafisico sulla vita di tre coppie a Taipei che continuamente si intersecano in un arco di diverse settimane.Il film mette in scena una Taiwan emergente, manipolata dalle forze del denaro e dalla globalizzazione. Apre la scena nel 1986, quando il Giappone era ad un soffio dalla bolla economica e gli affari andavano bene a Taipei. Ma in entrambe le città, Tokyo e Taipei, molti giovani erano disillusi nei confronti di un futuro che sembrava grossolanamente materialista. Yang in questo film raccoglie tali situazioni sociali e le inserisce in una misteriosa narrazione poetica.
Dopo il gradevole Il banchetto di nozze torna il regista taiwanese Ang Lee con un buon film. Un cuoco ormai anziano e pensionato vuole riconquistare le sue tre figlie. Così cucina di giorno in giorno molti cibi stuzzicanti. Le figlie, una piena di problemi, una testarda e disobbediente, una con una vita intensa, non gli danno soddisfazione. Successo negli Stati Uniti.
Un regista di Taiwan sta per girare la storia di Salomè all’interno del Museo del Louvre. Non conosce le lingue ma vuole assolutamente che il ruolo di Erode venga assunto dall’attore Jean-Pierre Léaud. Perché il film possa trovare una distribuzione la produzione affida il ruolo di Salomè a una nota top model. I problemi però aumentano quando la madre del regista muore. La produttrice deve volare a Taipei per i funerali mentre il regista cade in un sonno profondo in cui lo spirito materno sembra non voler abbandonare l’appartamento in cui la donna ha vissuto. Alla produttrice non resta che attendere che il film riparta mentre i protagonisti si aggirano nei sotterranei del Museo.
Mancano sette giorni al 2000. A Taiwan, dove piove a cielo rotto in continuazione, si diffonde un’epidemia misteriosa. I malati si comportano come scarafaggi. In un grande edificio – dove per intero si svolge la vicenda – un ragazzo e una ragazza non lasciano le loro abitazioni. Nell’appartamento sovrastante lui spia lei attraverso un buco, lasciato aperto da un idraulico. Quando lei s’ammala, attraverso il pertugio lui si allunga a porgerle un bicchiere d’acqua. Poi si tende, lei si aggrappa e viene tirata su. Non sono più soli. “Metafora sulla solitudine e sull’inquinamento terminale del mondo” (L. Tornabuoni), il 4° film del quarantenne e premiatissimo regista cinese è quasi muto, cupo, narrato in cadenze lente e ossessive, sostenute da una radicalità di sguardo che qui, grazie al supporto narrativo, si libera quasi completamente del suo decadentismo estetizzante. Realizzato per una serie TV ( Il 2000 visto da … ), il film durava in origine 58 minuti. Con un espediente produttivo che è diventato un originale e sagace contrappunto espressivo, le desolate ore vuote dei due personaggi sono intervallate da una mezza dozzina di luccicanti videoclip cantati e danzati alla maniera del musical americano. I 2 interpreti sono i protagonisti di Vive l’amour (1994).
That Day, on the Beach (cinese: 海灘的一天; pinyin: Hai tan de yi tian) è un film taiwanese del 1983 diretto da Edward Yang, alle prese con il suo primo lungometraggio. Il film, considerato da molti il primo della Nouvelle Vague taiwanese, è un discorso sul tempo, sul ricordo e sull’incisione che questi segnano nel cambiamento dell’uomo all’interno della società in divenire.
Tutto è incluso nel potere del tempo che, come dice il fratello sul letto di morte, si lascia ogni cosa alle spalle, e poi nel movimento della vita, confuso, impercettibile, avvolgente e alienante.
Ultima fatica di Tsai Ming-Liang, Goodbye Dragon Inn e un omaggio al cinema e, prima ancora, ai luoghi dove il cinema si consuma e si condivide. L’intero film si svolge all’interno di una sala che sta per chiudere definitivamente. Gli spettatori, poco piu’ che fantasmi, assistono alla proiezione di un kolossal degli anni sessanta, Dragon Inn. Mentre sullo schermo corrono veloci le sequenze di questo film d’azione, la sala si popola di fantasmi, di personaggi pirandellianamente in cerca del loro autore, che vagano lungo gli sterminati corridoi. Cultore di sequenze elegantemente confezionate, in cui per la maggior parte del tempo la presenza degli attori e’ fisicita’ pura, senza alcun dialogo – tanto la scrittura di Tsai riesce visivamente a caricare di senso il film -, il regista restituisce la consapevolezza struggente dell’unicita di un momento. Sospeso in una dimensione atemporale, in un cui non mancano momenti di humour, Goodbye Dragon Inn si chiude lasciando allo spettatore, quella stessa sensazione di smarrimento ed amarezza che sembrano provare i suoi personaggi.
In vacanza dal nonno[1] (冬冬的假期S, Dōng dōng de jiàqīP) è un film del 1984 diretto dal regista Hou Hsiao-Hsien.
Mentre la mamma è in ospedale, la giovane Dongdong e il fratellino passano un’estate dal nonno, osservando l’incomprensibile mondo degli adulti e le malefatte di un cugino che mette incinta una ragazza ed è amico di due rapinatori. Dopo I ragazzi di Feng Kuei, Hou prosegue il suo scavo nella memoria, affidandosi a un romanzo della sceneggiatrice Chu Tien-wen.
A time to live, a time to die (童年往事S, Tóngnián wǎngshìP) è un film del 1985 diretto dal regista Hou Hsiao-Hsien.
Taiwan, anni ’50 e ’60 del Novecento; Ah Hsiao, detto Ah Ha, cresce con i tre fratelli e la sorella nell’isola dove il padre (Tien) si è trasferito dalla Cina. La nonna sogna sempre di tornare in patria, il padre muore presto, poi toccherà anche alla madre e alla stessa nonna. Attingendo dichiaratamente all’autobiografia (il regista firma la sceneggiatura con Chu Tien-wen), Hou racconta un’infanzia e un’adolescenza come tante altre, in cui la storia di Taiwan scorre in modo solo apparentemente indolore. Una giovinezza punteggiata da bravate, lotte tra bande, innamoramenti platonici e momenti di tenerezza, segnata irrimediabilmente da tre morti che appaiono man mano più inaspettate, ma anche accettate sempre più fatalisticamente.
Un film di Edward Yang. Con Elaine Jin, Nien-Jen Wu, Issei Ogata, Kelly Lee Titolo originale Yi yi. Drammatico, durata 172 min. – Taiwan, Giappone 2000.
Il film di Edward Yang è ritenuto da molti un Magnolia orientale. Vi si narrano le vicende di più famiglie con la scansione della quotidianità problematica. Il padre di famiglia, socio di una ditta di computer in crisi, scopre una possibilità meno arida di lavoro (grazie, fatto eccezionale, a un giapponese) e ritrova l’antico primo amore. La moglie ha la madre in coma e scopre di non avere nulla da dirle: entra quindi in crisi esistenziale. La figlia adolescente scopre che l’amore non è facile sin dal suo primo presentarsi. Il piccolo di casa, di 8 anni, dileggiato dalle compagne a scuola ma capace di osservare il mondo e di “fotografarlo” sia con i pensieri che con la pellicola. E tanti altri personaggi. Siamo a Taiwan ma potremmo essere a Roma, Firenze, Milano. Ovunque nel mondo a chiederci se sia possibile trovare nella vita quei legami che le diano un senso. Potrete anche trovarlo un film lento, ma si tratta di una lentezza carica di sensibilità.
Cantore della solitudine urbana, con I don’t want to sleep alone, Tsai Ming-Liang costruisce un’opera densa e inquietante. Girato a Kuala Lumpur, in Malesia, paese d’origine del regista, il film segue le traiettorie dei suoi personaggi: un senza tetto cinese pestato a sangue, ospitato da un lavoratore del Bangladesh, e una cameriera di un coffee shop. Privati di qualsiasi caratterizzazione psicologica, i protagonisti si muovono in uno spazio urbano indefinito e sospeso, lasciandosi trascinare in un’esistenza anonima e incolore, ribelli donchisciotteschi di una società postmoderna, malsana e contaminata: il loro grido è muto e disperato, almeno quanto lo sono gli spazi nei quali si muovono.
Si tratta del primo film di Ymou ambientato al presente e senza la compagna Gong Li. Girato con la macchina da presa a mano mette in primo piano il bisogno del regista di rinnovarsi e di sperimentare. La storia è molto semplice, di sapore pirandelliano. Xiao Shuai è innamorato di una ragazza che ha rapporti con un riccone molto potente. Un giorno viene picchiato dagli scagnozzi del rivale. Durante il pestaggio il computer portatile di un passante viene rotto e questi vuole il risarcimento da Xiao Shuai. Lui invece vuole tagliare la mano del riccone e così si arma di mannaia. Grande ironia e qualche risata.
Un film di Chen Kaige. Con Leslie Cheung, Zhang Fengyi, Gong Li Titolo originale Bawang bieji. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 170 min. – Cina, Hong Kong, Taiwan 1993. MYMONETRO Addio mia concubina valutazione media: 3,38 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Il titolo è preso da un’opera cinese dei primi del Novecento, scritta da Mei Lanfang. Il regista cinese Chen Kaige vive a New York, trapiantato da vero intellettuale. E il film, un affresco politico nascosto sotto la patina del melodramma, media la cultura cinese con lo stile registico occidentale. Non è certo una pecca, specialmente se il risultato, come in questo caso, è lusinghiero. Due bambini diventano amici mentre apprendono la durissima arte dell’attore. Infatti in Cina per calcare il palcoscenico si deve sottostare a regole durissime. Una volta scelti come attori per una famosa opera con protagonisti un re e la sua concubina le loro vite cambiano. L’attore che interpreta il personaggio femminile si immedesima a tal punto da diventare geloso e pericoloso quando l’amico si innamora di una prostituta. Tra intrecci politici e sentimentali si giunge alla tragedia. Bravi tutti gli interpreti principali, soprattutto Leslie Cheung e Gong Li, e una lode al direttore della fotografia, Gu Changwei.
A partire dall’omicidio di una ragazza da parte di un adolescente, Edward Yang costruisce un film corale, ricco di storie e personaggi, ambientato nel passato taiwanese.
Radiografia di un malessere esistenziale che in un giovane nullafacente di Taipei si manifesta in forma di dolore e di una malattia del corpo, sintomo del deserto d’amore familiare in cui vive. Scena culminante e tremenda: il commercio sessuale tra padre e figlio inconsapevoli in una sauna per uomini soli (e gay). 3° film di un regista taiwanese, premiato con l’Orso d’argento a Berlino 1997, che punta sugli abituali temi della solitudine e della incomunicabilità, una narrazione ellittica, un metaforico microrealismo.
Un film di Doze Niu. Con Ching-Tien Juan, Mark Chao, Ju-Lung Ma, Rhydian VaughanDrammatico, durata 140 min. – Taiwan 2010. MYMONETRO Monga valutazione media: 2,00 su 1 recensione. È con indubbio coraggio che Doze Niu affronta un tema come quello del racconto di formazione in ambito gangsteristico, così oberato di cliché da risultare un campo minato per chiunque. Troppi i paragoni ingombranti, costante la sensazione di déja vu dietro l’angolo. Dove Monga costituisce una novità è nella rappresentazione delle specificità taiwanesi del jiang hu e del suo codice d’onore: i boss Geta e Masa che brindano assieme mentre i relativi scagnozzi se le danno di santa ragione, lo stile popolare e casereccio – che ai nostri occhi suona molto familiare – nella conduzione del business mafioso, il rifiuto delle “vigliacche” armi da fuoco, l’unione dei diversi clan nell’odio verso i temuti “cugini” continentali.
Confortata da queste note di colore, l’elegia estetizzante della vita da gangster – ricucita in parte dalla mattanza finale – raggiunge livelli inimmaginabili persino per gli Young and Dangerous e i Friend che furono; è la mafia a regalare a Mosquito il padre che non ha mai avuto, è la mafia a renderlo cool e temuto, è la mafia a fargli perdere la verginità (e forse a farlo innamorare). Proprio la vicenda collaterale sentimentale costituisce uno dei punti più fragili del film, una nota stonata all’interno di una sinfonia tutta maschile, in cui spesso l’amicizia virile sfocia in malcelato sentimento amoroso (nel caso della devozione di Monk nei confronti di Dragon, invece, si arriva ai limiti dell’outing). Monga rimane opera a suo modo coraggiosa, benché gravemente affetta da prolissità e da scelte stilistiche difficilmente sostenibili (specie il montaggio analogico tra gocce di sangue e fiori di ciliegio in cgi del finale). Un’occasione sostanzialmente mancata.
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