Nei primi anni ’30, ridotta in miseria dalle tempeste di sabbia e da rapaci proprietari terrieri, una famiglia di agricoltori dell’Oklahoma si mette in viaggio con un camion verso la fertile California.Un classico del cinema sociale, tratto da un romanzo (1939) di John Steinbeck. Un poema di solenne pietà, un gran capolavoro dei film su strada. Considerato politicamente un conservatore, Ford diresse uno dei film più progressisti mai fatti a Hollywood anche perché riuscì a far coincidere il tema della famiglia, a lui caro, con quello della gente: alla fine i Joad entrano a far parte della famiglia dell’uomo. Lo sceneggiatore Nunnally Johnson modificò, su indicazione del produttore D. Zanuck (che girò personalmente il monologo di mamma Joad), il finale senza speranza di Steinbeck, in linea con l’ottimismo del New Deal. Straordinario bianconero di Gregg Toland (che, come disse Ford, non aveva nulla di bello da fotografare). Oscar per la regia e la Darwell. Sdoganato in Italia solo nel 1951. Vergognosamente classificato dal Centro Cattolico “adulti con riserva” perché pessimista.
Maria Stuarda (1542-87) non vuole rinunciare al trono e affronta Elisabetta (1533-1603) regina d’Inghilterra, sua rivale gelosa. Accusata di cospirazione, viene imprigionata, processata e condannata. Primo dei tre consecutivi drammi in costume interpretati dalla Hepburn e sua unica esperienza con Ford, è un film elegante e misurato, sorretto dallo scenario di Dudley Nichols, emozionante, volutamente statico. “È un’opera impregnata di religiosità nel senso più ampio: sottomettendosi al proprio destino Maria vince, anche nel momento in cui perde tutto”.
Versione è più che buona e, soprattutto, “integrale”. Il film è quasi interamente doppiato in italiano, i pochissimi brani in lingua originale (quelli che probabilmente erano stati tagliati) sono stati più che opportunamente sottotitolati.
1881: un sergente nero è accusato di duplice omicidio: quello di una ragazza sedicenne e di suo padre. Il difensore è il comandante del suo reparto. Tutte le prove sembrano contro il sergente finché un colpo di scena permette di scoprire il vero responsabile del delitto. Un Ford minore.
Un temibile gangster s’installa a casa di un timido impiegato suo perfetto sosia sequestrandone la zia e la donna amata. Tratta da un romanzo di W.R. Burnett e sceneggiato da Jo Swerling e Robert Riskin, è una deliziosa commedia gangsteristica con un superlativo E.G. Robinson a due facce. L’ineffabile Ford dimostrò di essere capace di fare un film “alla Capra”. Suo commento: “Era tutto a posto. Non l’ho mai visto”.
È il racconto classico della sfida combattuta all’OK Corral di Tombstone il 26 ottobre 1881 tra lo sceriffo Wyatt Earp, i suoi fratelli e il giocatore-beone Doc Holliday da una parte e il clan dei fratelli Clanton dall’altra. Quando John Ford dirigeva i suoi western muti Earp era ancora vivo, capitava sul set e si ubriacava giocosamente con le comparse. Ford gli offriva il caffè e si faceva raccontare la grande sfida. Anni dopo ha riprodotto a memoria quelle schegge di vita di frontiera e la manovra militare che ebbe per teatro il Corral. È un western molto bello, un classico e il più accorato di Ford. I personaggi esprimono una sorta di “gentilezza dei prodi” e vivono nell’atmosfera d’una canzone di gesta carica di nostalgia. Ford è imbevuto dello spirito reale della vita di frontiera, riproduce fedelmente lo stile con cui cowboys e fuorilegge rischiavano l’esistenza in un crogiuolo arroventato come Tombstone. E il film è la più esatta – se non storicamente, come spirito – ricostruzione tra le molte che sono state fatte sull’episodio. Henry Fonda dipinge Wyatt Earp come un classico westerner onesto e crepuscolare: un personaggio quasi timido, il pistolero convertitosi in tutore della legge. La sua figura suggerisce i momenti più distesi del racconto: il riposo con un piede sulla seggiola inclinata e l’altro sulla balaustra della veranda, i colloqui intensi con Clementine, la memorabile scena del ballo. Ma la grande figura del film, un epico signore della frontiera degno di Francis Bret Harte, è “Doc” Holliday: un sorprendentemente bravo Victor Mature, medico con vocazione alla pistola, tubercolotico come nella miglior tradizione romantica, poeta maledetto che sa a memoria Shakespeare e che completa il monologo dell’ Amleto azzoppato dal patetico vuoto di memoria del vecchio attore. E deliziose, anche se un po’ in ombra, sono le figurine femminili: l’impetuosa, ardente Chihuahua di Linda Darnell, una sanguemisto dalla scollatura densa di profumo, e la magica Clementine, preziosa nella sua sommessa malinconia, tutta giocata su toni grigi poetici. Come quasi sempre in Ford la leggenda del West approda alla poesia e sfavilla in momenti di grande forza, anche se l’azione spesso cede alla descrizione lirico-nostalgica. Tra la storia e la leggenda Ford anche questa volta ha stampato la leggenda. Ma il vigore del sentimento dei personaggi, le figurine disegnate a tutto tondo, la ricchezza del racconto e la splendida descrizione dei paesaggi magistralmente fotografati nell’amata Monument Valley danno al film il tocco più prezioso dell’autenticità.
1868: la guerra civile è finita da tre anni ed Ethan (Wayne) torna a casa. Viene accolto dalla famiglia del fratello. Qualche giorno dopo, con un gruppo di coloni partecipa a una battuta contro una banda di indiani. Nel frattempo la famiglia di suo fratello viene trucidata, tranne una nipotina di pochi anni che viene rapita dagli indiani. Insieme al giovane Martin (J. H.) Ethan comincia la ricerca, che durerà dieci anni. Alla fine trova la ragazza che è diventata un’indiana. Ethan è sul punto di ucciderla, ma all’ultimo momento si ravvede e la porta a casa. Il film è considerato un capolavoro persino dalla grande critica ufficiale, che ha sempre ritenuto il western un genere minore e troppo popolare. Nella più recente classifica stilata da critici di tutto il mondo Sentieri selvaggi è addirittura al quarto posto. In realtà Ford aveva realizzato altri capolavori, più puliti e rigorosi, come Ombre rosse e Sfida infernale, ma Sentieri selvaggi presenta un versante “intellettuale” e spurgato del mito che lo fa preferire (da “quella” critica appunto) ai precedenti titoli, più ingenui e allineati a una morale più rassicurante e “bonariamente” manichea. Si tratta comunque di un grande film che dibatte i grandi temi fordiani e ne aggiunge altri. Wayne non era mai stato così negativo e isterico: l’attore si piacque tanto che diede a suo figlio, nato in quei giorni, il nome di Ethan. Wayne e il giovane compagno percorrono territori e stagioni, nel deserto, nella neve, fra gli indiani, i banditi, i piccoli e grandi paesi, guidati da una notizia, da un sentito dire. Ciclicamente tornano a casa, sempre più stanchi e delusi, ma ripartono e continuano a cercare la ragazza. Faticano a oltranza per la propria identità e coerenza.
Intorno al 1880 una diligenza parte con sette passeggeri da Tonto diretta a Lordsburg, nel Nuovo Messico, attraverso un territorio occupato dagli Apaches di Geronimo. Per la strada sale Ringo, ricercato per un delitto che non ha commesso. Dovrà vedersela con i fratelli Plummer, i veri responsabili del crimine di cui è accusato. Sceneggiato da Dudley Nichols sulla base del racconto Stage to Lordsburg di Ernest Haycox (ispirato a Boule de suif di Maupassant), è forse _ almeno in Italia per due generazioni di critici e di cinefili _ il western più famoso e amato di tutti i tempi. Questo “Grand Hotel” su ruote, come fu definito sul New Yorker, si presta a letture di ogni genere, come ogni classico. Ebbe 5 nomination agli Oscar e ne vinse 2: Mitchell (attore non protagonista) e la musica, che attinge al folclore americano. Il western precedente di Ford è del 1926.
Il colonnello Thursday prende il comando di un forte in territorio Apache e si porta con sé la figlia. La sua concezione della disciplina e i pregiudizi lo mettono in conflitto con il capitano York; la sua testardaggine lo porta a uno scontro con i pellerossa di Cochise e alla sconfitta. Primo western fordiano a occuparsi della Cavalleria, fa parte della trilogia militare con I cavalieri del Nordovest (1949) e Rio Bravo (1950). Attraverso la finzione romanzesca Ford e il suo sceneggiatore Frank S. Nugent alludono a Custer e alla disfatta di Little Big Horn. Delizioso nella descrizione della vita in un forte, dialettico nella contrapposizione ideologica dei vari modi di concepire l’onore, la disciplina e gli altri caratteri della vita militare. Armendariz doppiato da Alberto Sordi. Girato nella Monument Valley. Esiste in versione colorizzata.
Un film di John Ford. Con John Wayne, John Carradine, Edmond O’Brien, James Stewart, Lee Van Cleef. Titolo originale The Man Who Shot Liberty Valance. Western, b/n durata 119 min. – USA 1962. MYMONETRO L’uomo che uccise Liberty Valance valutazione media: 3,95 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Un giovane avvocato, Ransom Stoddard, diventa senatore degli Stati Uniti. Intervistato da un giornalista, rivela la realtà sul leggendario scontro di Shinbone con il temuto fuorilegge Liberty Valance, avvenuto nell’Ovest alla fine dell’Ottocento. Ma il vero protagonista della vicenda è Tom Doniphon, un valoroso pioniere del luogo, legato allo stile di vita del vecchio West: ottenere giustizia non con le leggi scritte, ma con il semplice ed efficace potere di una pistola. Sarà lui a cercare di far sopravvivere il fragile avvocato di città, salvandogli più volte la vita, insegnandogli a sparare, e consegnandogli le chiavi di un mondo destinato a cambiare. John Ford (regista tra gli altri di Ombre rosse, Massacro a Forte Apache, Sfida infernale, Sentieri selvaggi), con questo film esprime il suo nuovo rapporto con il mito del West. Attraverso l’utilizzo dei flashback, ritornando a un bianco e nero omogeneo, l’autore dà vita a una pellicola nostalgica e amara. Affronta il tema dei valori dell’Est contro quelli dell’Ovest (quei valori che trasformano il deserto in un giardino, che portano il progresso e cambiano la società) in un western in cui il protagonista (John Wayne) è un eroe stanco che conserva fedelmente i suoi genuini connotati. Ma che suggerisce attraverso di essi, una romantica rinuncia al suo stesso mito.
Un rapporto di sincera amicizia, oltreché il grande amore per il mare, lega un gruppo di marinai. Nonostante si imbattano in situazioni drammatiche e rischiose, troveranno la forza, una volta approdati sulla terraferma, di ricominciare una nuova avventura.
Un colorito e piacevole western dell’ultimo Ford che propone una situazione tipica del genere: come nel Fiume rosso di Howard Hawks, sono a confronto un vecchio e un giovane, il maturo sceriffo di Tuscosa, Guthrie McCabe, e l’impetuoso tenente Jim Gary. Insieme devono liberare i prigionieri bianchi della tribù indiana Comanches. Alcuni però si sono adattati alla vita dei pellerossa e preferiscono rimanere. Una donna, Elena, ritorna invece con loro a Tuscosa, dove sposerà McCabe.
Nel 1880, un colonnello della cavalleria americano è fustrato perché non può inseguire i predoni apache oltre il confine messicano. L’ufficiale è sposato e ha un figlio, ma da quindici anni non vede la famiglia perché durante la guerra civile è stato costretto a bruciare la piantagione della moglie, simpatizzante sudista, e questa non l’ha più perdonato. Ora, però, scopre che suo figlio si è arruolato nel reggimento e ben presto giungerà la moglie per riaverlo indietro. Il colonnello riuscirà infine a sconfiggere gli indiani, a riappacificarsi con la moglie e a scoprire che il suo ragazzo è diventato un uomo, mentre la banda suona Dixie, l’inno del Sud. Terzo film della Triologia della cavalleria di Ford. Nonostante alcuni lo ritengano il meno riuscito, costituisce un’indimenticabile rassegna di personaggi e un’ottima ricreazione dell’atmosfera militare come era stata dipinta dal pittore Frederic Remington. La pellicola è una specie di seguito de Il massacro di Fort Apache: il colonnello interpretato da Wayne si chiama infatti Kirby Yorke, come il personaggio da lui interpretato nell’altro film.
La giovinezza di Abraham Lincoln (1809-65), la perdita di Ann Rutledge, la scelta della professione di avvocato, come bloccò un linciaggio e dimostrò l’innocenza di un giovane accusato di omicidio. È il film più mitico di J. Ford, regista che spesso si è occupato della creazione del mito e dei suoi valori. Lincoln è visto come “una figura lontana e passiva, un personaggio mitico per il suo modo di essere e non per il suo divenire” (J.A. Place). “Esiste” già – nella Storia, nelle nostre conoscenze e nel mito – e alla fine è cambiato di poco. È l’uomo che sa, e non apprende. La sua presenza determina l’azione più che farne parte: è il grande unificatore e mediatore. Col suo passo lento e la puntigliosa rievocazione d’epoca, è un film ammirevolmente stilizzato. Una delle opere che restano.
Rio Bravo (Rio Grande) è un film del 1950 diretto da John Ford.Titolo originale: Rio Grande Lingua originale: inglese Paese di produzione: USA Anno: 1950 Durata: 105 min Colore: B/N Genere: western
Fa parte della trilogia della cavalleria di John Ford assieme a Il massacro di Fort Apache (1948) e a I cavalieri del Nord Ovest (1949). Nel 1879 (“15 anni dopo Shenandoah”) il colonnello York è al comando di un campo della cavalleria, sulla frontiera texana con il compito di sedare le continue scorribande indiane. Un giorno, in un gruppo di giovanissimi giunti per l’addestramento, arriva anche Jefferson York, il figlio che il colonnello non vede da 15 anni. Da quando, capitano dei nordisti, per ordini superiori, dette fuoco a molte fattorie sudiste, compresa quella della famiglia di sua moglie, con la quale da quel giorno non ha più alcun rapporto. Il ragazzo aveva provato la carriera del padre ma, non avendo superato le prove di matematica a West Point aveva ripiegato per la carriera da soldato semplice. Il padre lo accoglie con freddezza e col distacco che si addice ai rispettivi ruoli, ma poi ha istintivamente un atteggiamento protettivo.
Da alcuni racconti di Frank J. Wilstack e da Prince of Pistoleers di Courtney Ryley Cooper e Grover Jones. La storia della colonizzazione del West in 4 episodi, dal 1830 al 1890: i primi 2 (“Rivers”, “Plains”) e l’ultimo (“Outlaws”) hanno la regia di H. Hathaway, l’altro (“Railroad”), che vanta una spettacolare carica di bisonti, è firmato da Marshall. C’è anche un interludio diretto da J. Ford con la storica battaglia di Shiloh, magnificamente raccontata di scorcio, e un breve dialogo notturno tra i generali nordisti Sherman (J. Wayne) e Grant (H. Morgan). Girato in Cinerama e trasferito su Cinemascope, è un western miliardario All Star tradizionale e spesso convenzionale della M-G-M. Pur carica di molti debiti, la sceneggiatura di James R. Webb ebbe l’Oscar, insieme al montaggio e al suono. Fotografia di prim’ordine di W. Daniels, M. Krasner, C. Lang Jr. e J. La Shelle.
Dopo il massacro di Custer, i pellerossa si ribellano in tutto il Nord – Ovest. Un anziano capitano alla vigilia della pensione riduce a miti consigli una tribù, rubando e disperdendo i cavalli con un audace colpo di mano. Western militare di Ford (tratto dal racconto Sul sentiero di guerra di James Warner Bellah, autore che ha ispirato al regista tutte le sue opere sulla cavalleria), il film venne maltrattato alla prima uscita dalla critica, che lo considerò troppo sentimentale, troppo inferiore al precedente Massacro di Fort Apache. Oggi ci appare come uno splendido racconto d’avventure con un John Wayne quarantenne che fa ottimamente il sessantenne. Anche qui il titolo originale rimanda a un motivo folk: She wore a yellow ribbon (Lei indossava un nastro giallo). Lei è Joanne Dru; il sergente texano è Ben Johnson; l’indiano che cita la Bibbia è l’autentico navajo Chief Big Tree.
Un film di John Ford. Con Anna Lee, Walter Pidgeon, Maureen O’Hara, John Loder. Titolo originale How Green Was My Valley. Drammatico, b/n durata 118′ min. – USA 1941. MYMONETRO Com’era verde la mia valle valutazione media: 4,40 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Dal romanzo (1939) di Richard Llewellyn: vite di minatori in un paese del Galles nel 1890. Tipico melodramma a sfondo sociale nella Hollywood degli anni ’40 per il quale J. Ford ebbe a disposizione dalla M-G-M grandi mezzi che gli permisero di ricostruire in studio il villaggio gallese. Grande successo al botteghino, aiutato da 4 premi Oscar (film, regia, fotografia di A. Miller e D. Crisp attore non protagonista): raramente il regista s’era tanto spinto nel territorio turgido del sentimentalismo. Edificante e pomposo, ma impeccabile nel ritmo narrativo e a livello figurativo.
Ex pugile statunitense con un avversario morto sulla coscienza torna nella natia Irlanda per trovare la pace e una moglie. Deve affrontare un omerico pugilato per conquistare sul campo la donna amata. Da un racconto di Maurice Walsh, sceneggiato da Frank S. Nugent su un tema non lontano da La bisbetica domata, Ford ha fatto il suo 1° film in cui la storia d’amore è centrale con una struttura a flashback e voce narrante. Smargiassa e nostalgica, è una commedia armoniosa ricca di passaggi umoristici e di vigore nelle cadenze di un canto d’amore per la nativa Irlanda. Affiatata compagnia d’attori e 2 Oscar: regia e fotografia (W.C. Hoch, A. Stout.
Vedova americana va in India con la figlioletta, ospite del suocero, colonnello inglese. La bambina diventa la mascotte del reggimento, trova un secondo marito alla madre, è sequestrata dal capo dei ribelli, ma addolcisce anche lui. È il film più costoso di S. Temple. Vagamente ispirato a un racconto di R. Kipling, è un garbato film per famiglie, nonostante la verbosa sdolcinatezza della sua protagonista.
Epopea della tribù dei Cheyenne che, ingannati e abbandonati dai vincitori bianchi, iniziano una lunga e drammatica fuga verso il nord, cercando di sfuggire alla fame e di tornare liberi nella terra dei padri.
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