Regia di Wang Bing, Titolo originale: Feng Ai, Hong Kong, Francia, Giappone, , Genere: Documentario, durata 220′
50 uomini vivono per 12 mesi all’interno di un manicomio isolato, passando le loro giornate in un unico piano e avendo pochi contatti con l’equipe medica. Ognuno degli internati si trova lì non per problemi di salute mentale ma per aver ucciso qualcuno o commesso qualche reato contro i funzionari pubblici.
People’s Hero is a 1987 Hong Kong thriller film written and directed by Derek Yee and starring Ti Lung. The film was nominated for three Hong Kong Film Awards, where Tony Leung Chiu-wai and Elaine Jin won the Best Supporting Actor and Best Supporting Actress awards respectively, while Ronald Wong was nominated in the former category as well.
Two dangerously incompetent youths Sai and Boney attempt to rob a bank at closing time.Unknown to them experienced criminal Sunny Koo (Ti Lung) also has plans of his own as he attempts one last heist before he flees to the Philippines.
Gu-nam fa il tassista a Yanji ed è un Joseonjok, ossia un sino-coreano che parla entrambe le lingue, sostanzialmente visto come uno straniero dai primi e come uno schiavo dai secondi. Gu-nam deve infatti ripagare un debito enorme, contratto in seguito all’acquisto di un visto da parte della moglie, tornata in Corea. Approfittando della sua disperazione, il sordido Myun Jung-hak gli propone un modo per riappropriarsi della sua libertà: tornare in Corea per uccidere un uomo. Per Gu-nam si presenta l’occasione duplice di affrancarsi e di ritrovare la moglie.
Attingendo all’ultima pellicola di Bruce Lee, rimasta inaccessibile per 28 anni, John Little crea una straordinaria panoramica sulla sua vita, in parte documentario (contenente scene inedite girate dallo stesso Lee) e in parte esperienza cinematografica (grazie alle scene tratte dall’inedito).
Billy Lo, esperto di arti marziali, è un’affermata action-star di Hong Kong all’apice della carriera. Quando il giovane attore rifiuterà l’offerta di una potente organizzazione che vorrebbe ‘curare i suoi interessi’, la sua vita diventerà un inferno: dopo inutili minacce e intimidazioni, sarà vittima di un grave attentato. Inscenerà così la propria morte per potersi poi vendicare, ed in un sanguinoso finale scalerà la ‘torre’ dell’organizzazione affrontando nemici sempre più pericolosi. A cinque anni da I Tre dell’Operazione Drago, nonchè dalla morte di Bruce Lee, la Golden Harvest decide di montare un’impalcatura improbabile sopra venti minuti scarsi di materiale inedito girato da Lee anni prima. Peccato che per arrivare a vedere gli epici combattimenti contro Danny Inosanto e Kareem Abdul-Jabbar, ideale trasposizione filosofico-marziale della dottrina dell’adattamento tanto predicata da Bruce Lee, ci si debba sorbire più di un’ora di pena assoluta. Le scene aggiunte sono infatti improponibili sotto ogni punto di vista. I due ‘imitatori’ ingaggiati per sostituire il vero protagonista danno all’intera pellicola il tono di una mascherata, portando costantemente giganteschi occhiali scuri e tentando goffamente di riproporre le singolari movenze di Lee, con esito ridicolo. Tutti i primi piani sono saccheggiati da precedenti film e, come se non bastasse, per il funerale sono state usate alcune immagini del vero funerale di Bruce Lee, feretro compreso, in un orripilante quanto ‘calcolato’ tentativo di omaggio. Sforzandosi di ignorare simili bassezze, rimane un agglomerato di sequenze buone solo per fare metraggio. Oggi i gloriosi combattimenti del finale si possono reperire sul documentario Bruce Lee – La Leggenda (2000), quindi nessuna pietà per questo scempio.
Un film di Chen Kaige. Con Leslie Cheung, Zhang Fengyi, Gong Li Titolo originale Bawang bieji. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 170 min. – Cina, Hong Kong, Taiwan 1993. MYMONETRO Addio mia concubina valutazione media: 3,38 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Il titolo è preso da un’opera cinese dei primi del Novecento, scritta da Mei Lanfang. Il regista cinese Chen Kaige vive a New York, trapiantato da vero intellettuale. E il film, un affresco politico nascosto sotto la patina del melodramma, media la cultura cinese con lo stile registico occidentale. Non è certo una pecca, specialmente se il risultato, come in questo caso, è lusinghiero. Due bambini diventano amici mentre apprendono la durissima arte dell’attore. Infatti in Cina per calcare il palcoscenico si deve sottostare a regole durissime. Una volta scelti come attori per una famosa opera con protagonisti un re e la sua concubina le loro vite cambiano. L’attore che interpreta il personaggio femminile si immedesima a tal punto da diventare geloso e pericoloso quando l’amico si innamora di una prostituta. Tra intrecci politici e sentimentali si giunge alla tragedia. Bravi tutti gli interpreti principali, soprattutto Leslie Cheung e Gong Li, e una lode al direttore della fotografia, Gu Changwei.
Hong Kong, 1962. I coniugi Chow e i coniugi Chan si trasferiscono lo stesso giorno in due appartamenti contigui. Sono il signor Chow e la signora Chan a rientrare più di frequente a casa ed è così che nel giro di breve tempo scoprono che i rispettivi consorti sono amanti. La volontà di comprendere le ragioni del tradimento subito li porterà a frequentarsi sempre più spesso e a condividere le sensazioni provate.
Il boss Anjo viene ammazzato da un misterioso killer in maniera estremamente truculenta, ma nessuna traccia viene lasciata. Per ritrovare Anjo, convinto che sia ancora vivo, il folle e sadico Kakihara, suo vice, accetta il consiglio dell’enigmatico informatore Jijii e per questo rapisce e tortura Suzuki, capo di un banda rivale, che si dimostra però estraneo all’accaduto. Per punizione Kakihara e il suo clan vengono estradati dal sindacato della yakuza di Shinjuku. La caccia non finisce.
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Uno dei migliori lavori di John Woo con citazioni da La magnifica illusione e Duello al sole. Il killer del titolo durante una sparatoria acceca per sbaglio una ragazza. Decide di rimediare all’errore proteggendola, all’insaputa di lei.
Fenyang, provincia di Shanxi, 1979-1989: una compagnia teatrale itinerante segue l’evoluzione politica della Cina, dalla rivoluzione culturale agli albori della globalizzazione, e passa dai musical didattici maoisti alla breakdance. Intanto, Mingliang corteggia Ruijuan malgrado l’opposizione del padre di lei, mentre Chang Jun e Zhong Pin vanno a vivere insieme pur non essendo sposati.
Lo straordinario film d’esordio di Jia Zhangke descrive, attraverso il personaggio complesso ed emblematico di un piccolo delinquente di provincia alla deriva di fronte a cambiamenti epocali, il faticoso ed alienante passaggio all’economia di mercato. L’affettuoso ma spassionato film di Jia Zhang-ke che narra la caduta di un incurabile perdente è uno dei film cinesi più suggestivi e compiuti degli anni Novanta. Realizzato con un budget ridotto e un cast composto interamente da attori non professionisti nella città natale di Jia, è un’ulteriore rivendicazione del cinema cinese indipendente e “underground” e il trionfo che ha lanciato la carriera del suo esordiente regista. Il film offre una osservazione fine e meticolosa delle superfici materiali e delle transazioni sociali per suggerire ciò che accade sotto quelle superfici.
La storia è molto semplice. I protagonisti si amano, emigrano in Argentina, si lasciano e si ritrovano fino a che uno dei due decide di fare ritorno ad Hong Kong. Ciò che rende interessante il film è che, nei panni dei due protagonisti, troviamo due attori divenuti famosi grazie a film d’azione. C’è poi la regia, sempre estremamente attenta all’uso del mezzo, di Wong Kar-Wai che ci trasmette l’inumanità di un mondo che non riesce ad accogliere l’umanità disperata che lo abita.
Ryuhei Sasaki è un tranquillo padre di famiglia finché non perde il posto di lavoro; la scelta di non rivelare nulla a moglie e figli lo porterà a conoscere un sottobosco crescente di disoccupati insospettabili, ma non lo aiuterà a tenere insieme i pezzi di una famiglia che si va sfaldando. La Crisi, così paventata, presagita, snobbata è qui tra noi. Dove “noi” non significa solo l’Occidente, ma pure il diametralmente opposto Giappone, ugualmente colpito al cuore. E non sarà un caso se sono saliti al governo i socialisti per la prima volta nella storia. Kurosawa Kiyoshi, con la sensibilità che lo contraddistingue – e che difficilmente pertiene a un regista puramente horror, come ancora qualcuno lo etichetta – parte dalla Crisi per mescolarla alle molteplici crisi che accompagnano l’uomo nel suo difficile cammino. Nel senso stretto ma pure in quello etimologico del termine, perché il mutamento radicale e sofferto, spesso spinto sino all’autolesionismo, è parte integrante di questo processo evolutivo. Che qui si abbatte sul nucleo famigliare con una violenza degna del Takashi Miike di Visitor Q, senza quel gusto pop di portare tutto all’estremo, ma senza tirarsi indietro di fronte agli esiti di una sostanziale discesa agli inferi. Ad essere messi in discussione sono i pilastri stessi della società: l’autorità – l’insegnante sbeffeggiato in classe, il pater familias a disagio per mantenere un ruolo di leadership sistematicamente messo in discussione – il vincolo nuziale, tenuto insieme solo da abitudine e necessità, ma pure la supremazia del lavoro serio rispetto all’insicurezza di professioni apparentemente più frivole, che vivono la propria rivincita grazie al talento del piccolo sognatore Kenji. Kurosawa osserva la famiglia con amore, forse, con comprensione, magari, ma con ben poca compassione, privilegiando la camera fissa per denudarne le fragilità: a volte il tavolo da pranzo, unica occasione di (finta) riconciliazione, è addirittura inquadrato dall’esterno, mediato da un vetro e da riflessi che dicono più di mille parole su quel che avverrà di lì a breve. Straordinaria la prova attoriale di Teruyuki Kagawa, calato perfettamente nel ruolo fantozziano del protagonista, incapace di liberarsi persino nel momento di massima ira, quando, seppur armato di bastone e con intento distruttivo, non rinuncia a sistemarsi goffamente il borsello, residuo di una divisa che per lungo tempo ha significato “classe media” e un determinato inquadramento sociale. Prima che lo tsunami della crisi rimettesse tutto in discussione, giocando con i destini di piccoli uomini indifesi come lui.
Un film di Wong Kar-wai. Con Andy Lau, Jacky Cheung, Maggie Cheung Titolo originale Mongkok Carmen. Drammatico, durata 95 min. – Hong Kong 1988. MYMONETRO As Tears Go By valutazione media: 2,75 su 2 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Al suo primo film Wong Kar-wai non è ancora autore ma è già protagonista. As Tears Go By è un mix di stili contrastanti ma vibra di tutta la passione che solo il cinema di Hong Kong degli anni ’80 sapeva regalare. Sorta di remake sotto mentite spoglie del Mean Streets scorsesiano, è la storia di Wah, un gangster squattrinato, disilluso e per nulla ambizioso tentato dall’amore per una lontana cugina ma prigioniero di questioni d’onore e del bisogno di proteggere l’avventato Fly, dotato di una propensione rara per cacciarsi nei guai ad ogni occasione. Wong Kar-wai si mantiene nei limiti del cinema commerciale e di genere, con musiche ad effetto – colonna sonora comunque strepitosa, tra il jazz-rock di Teddy Robin Kwan e il remake di Take My Breath Away dei Berlin – e rispettando il canovaccio del noir con tutti i suoi cliché, ma è stilisticamente che reinventa il tutto. Luci al neon, step framing per sbalestrare lo sguardo durante le scene d’azione, inquadrature suggestive e figlie della nouvelle vague (alternate ad altre ancora molto grezze), ossia quelle che diverranno le stimmate di un autore memorabile e che in As Tears Go By si mescolano con effetto inebriante alla spensieratezza del cinema popolare.
Chungking Mansions, Hong Kong, 1994. L’agente 223 (Takeshi Kaneshiro) non riesce a dimenticare Ah Mei, la ragazza che l’ha lasciato, e arriva ad abbrutirsi mangiando ananas scaduto. Incontra una donna misteriosa con una parrucca bionda (Brigitte Lin) e se ne innamora. L’agente 663 (Tony Leung) frequenta assiduamente un chiosco dove lavora Ah Fei (Faye Wong), la quale si innamora di 663 senza che questi se ne renda conto. Storie apparentemente parallele che parallele non sono, che in modo quasi impercettibile si toccano, o meglio si sfiorano, talora ingannando lo spettatore meno smaliziato. Per esempio quando Ah Fei compra il pupazzo di Garfield mentre la killer è fuori dal negozio, in un cortocircuito impossibile (dal momento che Ah Fei non può ancora aver conosciuto l’agente 663). Questo perché Wong Kar-wai – che col Tempo sin da Days of Being Wild ingaggia un duello che non troverà mai fine – distorce la continuity dell’intreccio nella stessa maniera in cui altera il senso di un’istantanea del presente, adottando a profusione lo step-framing, ovvero quella tecnica che permette, con un astuto trompe l’oeil, di congelare un singolo personaggio del frame mentre il resto della scena sembra muoversi a velocità doppia.
Strumenti che permettono a Wong di (sovra-)comunicare la sensazione di solitudine e di smarrimento di uomini (e donne, anche se il pdv è principalmente maschile) in una metropoli così spersonalizzante da ridurre le identità a meri numeri. Ma per quanto annullate nella massa queste identità anelano alla ricerca dell’altro da sé, del proprio completamento, comprendendo che la difficoltà, se non l’impossibilità, di un successo è parte del gioco, crudele e spesso inspiegabile, su cui si regge il sentimento d’amore. Se il quadro generale tocca temi cari a Wong Kar-wai e li eleva a un apice di compiutezza, sono i dettagli ad aver reso Hong Kong Express un oggetto di culto – per quanto esoterico: Tony Leung che dialoga con i suoi pupazzi e indumenti, California Dreamin’ dei Mamas & Papas suonata a massimo volume, la dissertazione di Kaneshiro sulle ore e i centimetri che separano da un incontro (e da un innamoramento). Tutto costruito con la perizia di uno stratega dei sentimenti, che sa di poter donare a ogni dettaglio vita propria, ma infonde una passione così sincera nella sua creazione che non si corre mai il rischio di intravedere la mano che muove i fili da lassù. Apprendendo che il film è stato girato nelle pause di lavorazione dell’interminabile Ashes of Timenon ci si crede, ma è anche così, nella fretta o quasi per gioco, che nascono opere fondamentali. Con la stessa apparente (e un po’ fatalista) casualità con cui, in Hong Kong Express, uomini e donne si amano o si lasciano e segnano così indelebilmente le loro vite.
Autumn Moon, Ping e Sylvester sono tre ragazzi difficili delle case popolari di Hong Kong: il primo è un mezzo delinquente abbandonato dal padre, la seconda ha una madre piena di debiti ed è affetta da un tumore che si diffonde rapidamente; Sylvester, invece, ha un ritardo mentale che lo rende sistematicamente lo zimbello dei bulli del quartiere. Moon diventa il capo di questo terzetto accomunato dall’insoddisfazione: quando i tre vengono in possesso della lettera scritta da una ragazza prima di suicidarsi, i loro destini cambiano irreversibilmente.
Un’unica lunga operazione antidroga, che inizia con la cattura di un gruppo di corrieri portatori di pacchetti di cocaina dentro il proprio corpo e mira ad arrivare fino alla cupola del narcotraffico. Tutto è visto attraverso le azioni di Lei, un funzionario di polizia sveglio e totalmente dedito alla causa (come il resto del suo team), e attraverso il rapporto che sviluppa con Ming, trafficante pentito che decide di fare il doppio gioco per la polizia tradendo i suoi sodali. L’ultimo film di Johnnie To è uno dei più rigorosi e obbedienti nei confronti delle regole della censura cinese e al tempo stesso uno dei più belli. Per poter trattare il complesso tema della guerra alla (e per la) droga in Cina, il regista è dovuto passare attraverso non poche difficoltà, in primis la serie di lunghi controlli sulla sceneggiatura e sull’esito finale da parte del governo. Il risultato è un film che abbraccia il manicheismo e mostra il trionfo della giustizia sulla criminalità senza appello o ambiguità.
Ou Yang Feng (L. Cheung), già spadaccino e sicario di professione, vive da eremita nel deserto. Gli fa visita una ragazza (C. Young) che vorrebbe vendicare la morte del fratello. Gli richiama alla memoria l’unica donna (M. Cheung) che ha mai amato, ora moglie di suo fratello. Ma anche il suo migliore amico (T. Leung) è innamorato di lei. Nel suo 3° e costoso film, Wong prende in prestito i personaggi di un romanzo di arti marziali di Jin Yong e li situa in mezzo a un deserto per analizzarne ossessioni e manie. “Incredibile apologo filosofico, film di kung-fu senza combattimenti, film in costume senza un tempo di riferimento, paradossale tentativo di ‘prendere sul serio’ le storie di fantasmi e di eroi mitologici cinesi” (G. Manzoli).
A differenza della versione REDUX che dura 93 minuti questa ne dura 98
A causa della perdita delle stampe originali, Wong ha rimontato e riscritto la colonna sonora del film nel 2008 per le future versioni cinematografiche, DVD e Blu-ray con il titolo Ashes of Time Redux . La durata del film è stata ridotta da 100 a 93 minuti. Sia la versione originale che quella Redux possono ancora essere trovate sui mercati asiatici, mentre solo la versione Redux è disponibile sui mercati occidentali. Sono state notate diverse critiche alla versione Redux, come la scarsa qualità dell’immagine e la padronanza del colore dal materiale originale, il ritaglio e la rimozione di parti dell’immagine in basso, le scarse traduzioni in inglese e la riscrittura del punteggio.
In un mitologico jianghu al di là dello spazio e del tempo, Ouyang Feng è un maestro di spada decaduto che vive ritirato nel deserto fra cinismo e solitudine. Abbandonata la spada, svolge ormai solo il ruolo di tramite fra spadaccini mercenari e uomini desiderosi di vendetta. In un ciclo completo delle stagioni dell’Almanacco cinese, passano dalla sua casa l’affascinante cavaliere errante Huang Yaoshi, i due ambigui fratelli Yin e Yang del Clan Murong, uno spadaccino tradito dalla moglie sulla via della cecità e il rozzo e affamato guerriero Hong Qi. Il loro passaggio dà luogo a sanguinosi combattimenti, ma per Ouyang Feng segna soprattutto una diversa prospettiva sul valore dei ricordi, la precarietà dei sentimenti e il suo amore perduto di un tempo.
Giovane portatore di risciò in bicicletta alle prese con il lavoro, la fatica, la dura lotta per la sopravvivenza. Siamo a Saigon, ma potrebbe essere qualsiasi metropoli del Terzo Mondo. Quando gli rubano il cyclo il protagonista entra nell’universo della violenza, del crimine, della prostituzione, della droga. Sono le vie d’uscita dalla miseria. In un incalzante susseguirsi di invenzioni ora potenti, ora ridondanti e formalistiche, il film rivela le radici della violenza contemporanea. Leone d’oro e premio Fipresci alla Mostra di Venezia 1995 dove il suo regista lo definì “una via di mezzo tra Ladri di biciclette e Taxi Driver “.
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