Tratto dall’omonima pièce di Bertold Brecht, un film per la televisione in cui Schlondorff tematizza la ribellione, aderendo in tal modo all’ideologia (sessantottina) che imperversava a quel tempo in Europa.
Tre poliziotti assoldano un reduce dal Vietnam, il tedesco-americano Ricky (K. Scheydt), per eliminare individui socialmente scomodi o emarginati. Ricky esegue i suoi omicidi in piena tranquillità finché, diventato troppo pericoloso, decidono di farlo fuori. E, tra la disperazione di suo fratello (K. Raab), lo ammazzano con il suo amichetto Franz. Uno dei 7 film prodotti e diretti da R.W. Fassbinder nel 1970, e l’ultimo di una trilogia “nera”. “Com’era in Vietnam?” domanda Franz. “Lo stesso che qui” risponde Ricky. È il senso del film, peraltro sciatto e frutto di una cinefilia giovanile.
Le peripezie – il calvario? – del marinaio Querelle (Davis) che sbarca a Brest e va incontro al suo destino di contrabbandiere d’oppio, sodomita, assassino. Ultimo film di Fassbinder, in concorso a Venezia nel settembre dello stesso anno e distribuito in Italia (dopo una bocciatura in censura) con 48 m (meno di 2 minuti) in meno e il titolo del romanzo (1947) di Jean Genet da cui è tratto. Sebbene la tematica della violenza e della sopraffazione che dominano i rapporti umani sia costante nel cinema di Fassbinder, anche nei suoi film di taglio omosessuale ( Le lacrime amare di Petra von Kant , Il diritto del più forte ), non sembra felice il suo incontro con Genet che tende a fare un’esaltazione mistica dell’abiezione e del delitto. Fassbinder non è mai stato un mistico. A livello figurativo il fascino del film è innegabile per la glaciale sapienza luministica (giallo, arancio, blu) e la stilizzazione teatrale della scenografia, ma forte è il sospetto che si tratti di un film manieristico e decorativo, sia pur di un manierismo di alta classe. C’è stilizzazione, non stile.
Gunther e Michael rincorrono l’utopia di partire per il Perù in cerca di un tesoro nella zona del Rio Das Mortes. Ma la fidanzata di Michael, si oppone.
Interno piccoloborghese in una cittadina della cattolica Baviera: padre tassinaro, madre casalinga e figlia sedicenne che si fa mettere incinta da un giovane operaio. Il padre lo denuncia per seduzione di minorenne. La sedotta induce il suo amante a ucciderlo. In secche cadenze da rapporto antropologico, senza demagogia polemica, il ventiseienne R.W. Fassbinder (già con 12 lungometraggi alle spalle) esplora la greve monotonia della banalità del male, di esistenze banali che rimangono intatte persino dentro a un delitto. La sua cinepresa scruta i volti dei personaggi per coglierne i segni di un’interiorità, il segreto di un’anima. La sequenza dell’uccisione è un momento alto di cinema. Da una pièce di Franz Xaver Kroetz. Distribuito in Italia nel 1980.
In una villa di campagna si trovano in otto, divisi in due squadre, a giocare alla roulette cinese: un crudele massacro verbale. Nel finale uno sparo. Non importa chi muore. Lo meriterebbero tutti. Comincia come una pochade, passa alla ferocia di Strindberg, termina come un dramma filosofico di Sartre. Tagliente commedia antiborghese dalla recitazione raffreddata. Non è tra i Fassbinder più felici: greve e manieristico.
Giornalista incontra una donna spaurita, scoprendo che si tratta di una famosa attrice dell’UFA ormai dimenticata, morfinomane e prigioniera di una donna senza scrupoli. Ispirato ai casi dell’attrice Sybille Schmitz, suicida nel 1955, è il penultimo film di Fassbinder, Orso d’oro a Berlino 1982. Calato in un clima neoespressionista che scenografia e fotografia (ora abbagliante di bianco, ora appoggiata a forti contrasti) sottolineano, è una storia malinconica dove si confondono stereotipi, fantasmi, ombre del passato, paure del presente, echi del cinema muto, tenebre del cinema noir. Chiude la tetralogia sulla Germania postbellica attraverso quattro destini di donne ( Maria Braun , Lili Marleen , Lola ).
Nel 1938 a Zurigo una giovane cantante tedesca ama un musicista ebreo. La guerra li separa. La cantante, tornata in Germania, diventa famosa grazie alla canzone “Lili Marleen”. A guerra finita si reca a Zurigo dove trova l’amato Robert sposato. Ispirato al romanzo autobiografico della cantante Lale Andersen Il cielo ha molti colori , il film apre idealmente la quadrilogia fassbinderiana sulla Germania in forma di un cinemelodramma in cui è difficile distinguere dove finisce il Kitsch nostalgico perseguito con voluttuoso accanimento e dove comincia la bischeraggine invereconda. La vera ragione di vederlo è la Schygulla. La famosa canzone (scritta nel 1916, musicata nel 1930 e registrata nel 1938) ha ispirato altri 3 film: 2 britannici (1952, 1970) e uno tedesco (1956).
Un gruppo di terroristi tedeschi sequestra un industriale dell’elettronica senza sapere che è il loro segreto finanziatore e che la polizia ha dato il suo beneplacito. Ignorano di essere le pedine di un gioco industriale-commerciale-poliziesco più grande di loro. Il fascino stridulo di questa “commedia in sei parti” sta nel suo dissonante impasto di sarcasmo e tristezza, di macabra comicità e serietà pietosa, di grand-guignol e tenerezza, di irriverenza beffarda e disperazione.
Franz (R.W. Fassbinder) che convive con Johanna (H. Schygulla) e la sfrutta, è attratto fisicamente da Bruno (U. Lommel) che lo spia per conto del racket, disposto persino a dividere con lui la donna. Lei rifiuta e informa la polizia di un loro piano per una rapina in banca. Bruno dà ordine di ucciderla. Ritroviamo i due personaggi in Dei della peste , girato pochi mesi dopo, ma distribuito nella primavera del 1970. È il 1° lungometraggio di Fassbinder dopo 2 corti girati nel 1965-66. È già presente, insieme con la struttura triangolare di base (due uomini e una donna), il rapporto di padrone e vittima, tipico del regista. Formalmente è un’ibrida contaminazione tra atmosfere da film nero hollywoodiano (e Melville) e vezzi stilistici in prestito da Godard e Straub.
Un’anziana donna delle pulizie vedova sposa un immigrato marocchino, di vent’anni più giovane. Doppio scandalo. Non è soltanto un film sul razzismo quotidiano e sulla normalità, ma anche sull’amore e la felicità. Il personaggio che più interessa non è Alì, trasparente e monolitico nella sua araba semplicità di cuore e di comportamento, ma Emmi cui l’amore non basta a farle superare i pregiudizi, l’educazione piccoloborghese, l’innata tedescheria. L’impasto di melodramma e di critica sociale funziona perché il primo è al servizio della seconda come la circolazione del sangue alimenta un organismo. Tenero, asciutto, un po’ schematico. Noto anche come Tutti gli altri si chiamano Alì . Premiato a Cannes 1974 da FIPRESCI e OCIC, a Chicago e in Germania (Brigitte Mira).
Il melodramma di una madre di famiglia il cui marito, improvvisamente, diventa un assassino. “Il viaggio in cielo di mamma Kusters” è un film freddo e gelido sui rapporti umani, che vengono descritti con cinismo ma anche con un po’ di pietà da parte di R. W. Fassbinder, che riesce a creare un personaggio reale, vivido e intenso.
In un istituto che produce previsioni sull’avvenire attraverso il computer Simulacron-3 il direttore si suicida in circostanze misteriose. Il suo vice inizia un’indagine, tra l’incomprensione di tutti, esclusa la figlia del morto che lo aiuta. Scopre che il mondo in cui crede di vivere è la proiezione di un altro calcolatore. Dal romanzo Simulacron-3 (1964) di Daniel F. Galouye, è un film TV in 2 puntate, uno dei 4 che Fassbinder diresse nel 1973. Ispirato a Il grande sonno (1946) per l’aggrovigliato intrigo, ad Alphaville (1965) per l’uso di scenografie in esterni contemporanei, è fassbinderiano per il sofisticato gioco dei ruoli e delle apparenze e per il riscatto finale in nome dell’amore e della speranza che lo distacca dal pessimismo del romanzo. Trasmesso in Italia da RAI2 nel settembre 1979.
Radiografia collettiva della Germania nell’autunno 1977 dopo il sequestro e l’uccisione dell’industriale Hans-Martin Schleyer; il dirottamento di un Boeing della Lufthansa a Mogadiscio con l’intervento di reparti specializzati che liberano gli ostaggi; la morte, nel carcere di Stammheim, dei terroristi Andreas Baader, Gudrun Esslin, Jan Carl Raspe e Ulrike Meinhof. Realizzato a ridosso della cronaca e già pronto nel febbraio 1978, mescola spettacolo e ideologia, analisi critica e indignazione civile, finzione e documentario. I racconti simbolici o metaforici si alternano con le testimonianze di taglio documentario. Per i temi che affronta – terrorismo, involuzione dello stato di diritto, crisi della sinistra, comportamento dell’opinione pubblica – riguarda anche gli italiani. Mandato in onda su RAI2 nel 1980.
Un melodramma poliziesco del primo Fassbinder. Ci sono quasi tutti i suoi attori preferiti. Franz è stato in carcere. Una volta in libertà decide di riprendere i rapporti con l’assassino di suo fratello. Quest’ultimo aveva tradito e ora Franz ha un piano.
Considerato un buono a nulla, vessato dalla madre e dalla moglie che lo tradisce, fruttivendolo ambulante si dà all’alcol, va alla ricerca della ragazza amata in gioventù, ora ricca e insoddisfatta, e si suicida bevendo. Ritratto di un patetico perdente, irrecuperabile ai valori della sua classe e ossessionato dal senso di colpa. Percorso da flashback, è un melodramma in cui Fassbinder trasforma in linguaggio personale la lezione di Douglas Sirk.
Dal romanzo (1895) di Theodore Fontane: sposata a 17 anni a un vecchio barone, si lascia sedurre da un ufficiale che il marito uccide; respinta dai genitori e ripudiata dallo sposo, invecchia e muore. È il film più delicato, spoglio, bressoniano di un regista incline al melodramma che, invece di drammatizzarlo, si è limitato a filmare il libro con una lettura sottovoce, costruendolo in brevi sequenze, quasi sempre a cinepresa ferma, e omettendo deliberatamente le scene d’azione, sostituite con la loro descrizione orale. Chiede allo spettatore, prima ancora che un occhio, un orecchio attento alla scrittura di Fontane: leggera, priva di violenza, attenta alle sfumature. Già portato 3 volte sullo schermo da Gustav Gründgens ( Il romanzo di una donna , 1939), Rudolf Jugert (1956) e Wolfgang Luderer (1968) nella Repubblica Democratica Tedesca. Il personaggio di Fontane è ispirato alla vera storia di Else (Elisabeth) von Ardenne, protagonista di uno scandalo clamoroso nella Berlino dell’ultimo ‘800. Morì a 99 anni.
Dal romanzo di Vladimir Nabokov, sceneggiato da Tom Stoppard e girato in inglese. Berlino, 1929: un fabbricante di cioccolata, emigrato russo da dodici anni, entra in una crisi d’identità e di sdoppiamento. Incontrato un uomo nel quale crede di vedere il proprio sosia, lo uccide, gli prende abiti e documenti e si rifugia in Svizzera. L’inganno dura poco. Tutto è di prim’ordine, ma è un film nato morto: un Resnais ( Providence ) mescolato con Sternberg e Ophüls e filtrato attraverso un bagno di cattivo teatro dell’assurdo di formalismo baroccheggiante, tedioso nel suo intellettualismo, affliggente nel suo gelido umorismo grottesco.