Tony D’amato (Pacino) allenatore di football americano, viene ritenuto ormai al tramonto. La nuova “boss” della dirigenza (Diaz) vorrebbe mandarlo via, ma non è facile, perchè Toni è molto amato dalla squadra. Entriamo così in quel mondo: la violenza nel campo, le ambizioni e le crisi dei giocatori, gli intrighi di tutti. Alla fine vince Pacino – anche perché la squadra continua a vincere – e non trascura di prendersi la sua vendetta finale. Il solito ultimo, e penultimo, Stone: non può che affidarsi alla forma e al linguaggio, coi quali riesce ancora, parzialmente, a nascondere la scarsa ispirazione. Il film è comunque aggressivo e spettacolare e tutti quei divi, aiutano.
De Niro è il bandito Neil, Pacino il poliziotto Vincent. I due si conoscono da tempo. Neil, nevrotico, crudele, non vuol tornare in prigione, preferirebbe uccidere e morire. Vincent, estroso, intelligente, vessato da moglie ed ex mogli, è uno che non molla. A complicare ci si mettono lo psicopatico Chris (Kilmer) e un paio di dark. Ci si confronta, si spara, ci si insegue in macchina in una Los Angeles mai così protagonista di un film. Produzione di grande budget e di grandi talenti, con due fra i massimi e ormai storicizzati attori del cinema internazionale. De Niro e Pacino (tre Oscar in due), diversissimi e complementari, funzionano. E come potrebbe essere altrimenti? Sono solo due le sequenze in cui si confrontano direttamente e il regista Mann è riuscito, con dei controcampi e senza farli incontrare sul set, a tenere a bada la loro voglia di competizione. Da sottolineare l’intenzione realista del film, dove niente è ricostruito o girato in studio. Grande, completo successo.
Scritto da Paul Attanasio e basato sul libro My Undercover Life in the Mafia di Joseph D. Pistone. Pistone, agente dell’FBI si infiltra in un’organizzazione mafiosa di Little Italy come Donnie Brasco, ricettatore di gioielli, e conquista la fiducia di Lefty, anziano mafioso e manovale del crimine. Tra i due nasce un’amicizia impossibile, destinata a una tragica fine. Ha fatto centro il neozelandese M. Newell, attivo dal 1976 nel cinema britannico, con questo suo 1° film hollywoodiano: dopo il successo di Quattro matrimoni e un funerale si cimenta con un mafia movie diverso dagli altri, privo di sangue e violenza (se si toglie una sequenza verso la fine, fulminea e atroce), di ammirevole definizione psicologica, accurato nei particolari e nelle sfumature. L’epilogo è di una malinconia struggente, ma anche uno dei più lucidi dell’ultimo cinema americano: entrambi i personaggi sono strumenti e vittime delle istituzioni cui appartengono. Straordinario Pacino, ottimamente doppiato ancora una volta da Giancarlo Giannini; Depp (con la voce di Riccardo Rossi) si conferma a 33 anni come l’attore più duttile ed espressivo della sua generazione.
Dall’omonimo capolavoro del gangster-movie anni ’30, un remake che rende onore al proprio ispiratore, qui magistralmente attualizzato ed ampliato nei contenuti. Ambientato a Miami, l’intreccio si dipana tra il mondo degli immigrati cubani e quello dei signori della droga della east-coast. Tony Montana, lo sfregiato, è uno tra i tanti “rifugiati politici” in territorio statunitense, sbarcati sulle coste della Florida in seguito all’apertura delle carceri cubane. Per i profughi la via più veloce per abbandonare la degenza economica è darsi al crimine, e Tony, non certo uno stinco di santo, non ci penserà due volte. Comincerà così per il gangster una rapida ascesa, che arriverà a vertiginose quanto pericolose altezze. Oliver Stone stende una sceneggiatura cruda, ritratto di un mondo fatto di polvere bianca e potere, pupe da sballo e disco-music elettronica: il mondo dei gangster anni ’80, insomma. Grazie all’elegante mano di De Palma, l’opera danza sul ribaltamento del punto di vista: ci si scoprirà a simpatizzare per la mina vagante Tony, selfmade-boss scaltro e ligio al proprio, seppur deviato, codice d’onore. Montana, rozzo cubano di umili origini, incarna gli ideali del ghetto portandoli all’estremo, costruendo dal nulla un impero economico basato sull’illegalità. Un titanismo incurante di qualsiasi limite umano plasma la sfolgorante parabola del protagonista, vittima della propria fremente volontà di potenza. Il prodotto finale, lontano dalle ovattate atmosfere de Il padrino, è una feroce rilettura del capitalismo, dove il sogno americano si rivolta contro se stesso e la cultura del dollaro si affianca ineluttabilmente all’eccesso, preludio in tale contesto all’autodistruzione. Affiancato da una splendida Michelle Pfeiffer agli esordi, Al Pacino regala l’anima ad un antieroe leggendario, contribuendo a creare un’opera che traccia nuove e nette linee guida per il futuro del genere (e non solo). Sulle note di una emblematica “Push it to the limit”, lo spirito del cinema si rinnova incarnandosi in un monumentale dramma corvino, serio candidato al titolo di gangster-movie stradaiolo definitivo.
Angels in America è una miniserie televisiva prodotta dalla HBO nel 2003, tratta dall’opera teatraleAngels in America – Fantasia gay su temi nazionali di Tony Kushner. La serie vanta un cast all-star (tra gli altri Al Pacino, Meryl Streep ed Emma Thompson) e tratta, in modo perlopiù onirico, la condizione degli omosessuali negli Stati Uniti d’Americareganiani, focalizzandosi sulle reazioni a seguito del diffondersi dell’AIDS. Con pesanti riferimenti biblici (gli angeli, la colpa e la condanna), ma con un tono anche sdrammatizzante, Angels in America vuole porre — conservando lo spirito della pièce originale — difficili interrogativi esistenziali e sociali. Le stesse apparizioni dell’angelo, nel loro essere catastrofiche, non rinunciano a una certa dose di ironia; ad esempio tramite le erezioni del protagonista o il suo rapporto sessuale con l’angelo. La miniserie consta di due parti, a loro volta divise in capitoli: Il nuovo millennio si avvicina (Millennium Approaches) e Perestroika.
Dai romanzi Carlito’s Way (1975) e After Hours (1979) di Edwin Torres. Ambientato nel 1975 a Harlem, il ritratto di Carlos Brigante, malavitoso portoricano che tenta invano di cambiare vita, la traiettoria di un destino che ha per traguardo una morte violenta. Almeno 4 sequenze di rilievo in questo opus n° 22 di B. De Palma, uno dei suoi migliori, tutto narrato in flashback; 2 forti interpretazioni di A. Pacino (doppiato benissimo da Giancarlo Giannini) e S. Penn, una sapiente sceneggiatura di David Koepp. Unico difetto di questo film neoromantico, vicino al noir più che al gangster: il convenzionale tema nostalgico della malavita che “non è più quella di una volta”.
Tre balordi assaltano una piccola banca di Brooklyn. Due vi rimangono intrappolati con gli ostaggi: lungo sarà l’assedio della polizia. E sanguinoso. Calibratissima ricostruzione di un fatto di cronaca nera del 1972, sostenuta da una suspense che soltanto verso la fine ha qualche smagliatura, da un sagace equilibrio tra pathos e umorismo, da un’attenta cura dell’ambientazione. Film d’azione, ma anche di critica sociale (polizia, mass media, intolleranza): insomma un Lumet di buona annata. Pacino da affissione in ottima compagnia. 5 nomine agli Oscar, vinse la statuetta Frank Pierson per la sceneggiatura.
Quando nel 1945, dopo aver dominato per due generazioni un clan di mafia italoamericana, Don Vito Corleone muore, suo figlio Michael accetta con riluttanza di occuparsi degli affari di famiglia. Imparerà presto. Da un romanzo (1969) di Mario Puzo che l’ha sceneggiato con il regista, è la storia di un sistema familiare e di clan con sottofondo nostalgico per la forza di quei legami che nell’America di oggi sembrano svalutati (come fu letto dalla maggioranza del pubblico), ma possiede anche una profonda e fertile ambiguità. C’è il parallelismo mafia-politica che diventa equivalenza nel Padrino-Parte II; c’è la magistrale ricostruzione di un’epoca e di una morale del crimine, di una struttura patriarcale più italiana che americana. Coppola sa di cosa parla e ne sa le ragioni anche se non le condivide: il suo sguardo è più distaccato che affascinato. Spaccò la critica in due ed ebbe ovunque un grande successo. 7 nomine e 3 Oscar: film, sceneggiatura e M. Brando.
Jack Gramm è uno psichiatra forense a disposizione dell’FBI. Insegna all’Università ed è dotato di un indiscutibile fascino che attrae l’altro sesso. Ne facciamo la conoscenza proprio nei giorni in cui Jon Forster, un serial killer che lui ha contribuito in maniera determinante a far condannare a morte, sta per essere soppresso. L’uomo proclama con ancora maggiore forza la sua innocenza perché è avvenuto un delitto che ha le stesse caratteristiche di quelli a lui attribuiti. La vittima è una studentessa di Gramm il quale è convinto che si tratti di un caso di pura e semplice emulazione. Ma riceve un avvertimento da qualcuno che sembra conoscere ogni sua mossa: ha ancora 88 minuti di vita. Da quel momento ogni secondo diviene prezioso e Gramm deve cercare di capire chi, tra i giovani studenti che ne incrociano il percorso, è dalla sua parte e chi no. Jon Avnet è noto da noi in particolare per quel gioiellino che è stato Pomodori verdi fritti alla fermata del treno. Questo film ne è distante anni luce tanto che, realizzato in una Vancouver fatta passare per Seattle ma con quotidiani che a Seattle non si vendono, l’uscita negli States è ancora vaga mentre in altre nazioni è uscito direttamente in dvd (brutto segno). Avnet, che ha sostituito alla regia James Foley, si avvale della sceneggiatura di un esperto di film d’azione come Gary Scott Thompson (The Fast and the Furious, Timecop 2)
Proprio qui sta il problema. Se in quei film la verosimiglianza e le concatenazioni narrative contano ben poco, in un thriller sono tutto. Perché altrimenti il povero spettatore comincia a chiedersi in quale dimensione parallela sia finita una vicenda in cui il killer può permettersi di scrivere sull’auto del malcapitato Gramm quanti minuti gli restano da vivere (potendo quindi prevedere con precisione assoluta in che istante lui la raggiungerà). Però, c’è un però. Ci sono attori come De Niro che fanno di tutto per buttarsi via e talvolta ci riescono. Pacino ci ha provato a sua volta ma, nonostante tutto, non ce la fa. Anche in un film come questo i suoi sguardi, le sue pause, il suo ascoltare l’interlocutore non facendo nulla ma offrendo comunque il senso dell’attenzione provano che ci sono grandi attori costituzionalmente incapaci a non essere tali. Nonostante tutto. Le due stelle sono per il film perché Al ne merita di più.
James Clayton si fa notare per la sua intelligenza e per i suoi metodi non tradizionali tra i nuovi agenti CIA. In particolare il veterano Walter Burke decide di dargli una mano per far sì che entri a far parte dell’agenzia. Finisce così che il nuovo agente si veda assegnare un incarico importante: scoprire una pericolosa infiltrazione. Siamo alle solite: il veterano gioca al gatto col topo con il nuovo arrivato e gli fa comprendere a sue spese che la vecchia regola del diffidare nella CIA vale in modo particolare. Il genere viene rispettato con qualche variante. Il protagonista, va da sé, è efficace. Ma può bastare? Forse no.
Incaricato di travestirsi da omosessuale masochista per individuare uno psicopatico che batte il mondo dei sadomasochisti gay del West Greenwich Village di New York, un poliziotto finirà per domandarsi se sia ancora eterosessuale come all’inizio. Tratto liberamente da un romanzo di Gerald Walker, è un film che sostanzialmente non funziona. Il difetto sta in A. Pacino, che voleva ripetere il colpo di Serpico ma ha avuto paura di distruggere la sua immagine di star con un personaggio troppo negativo, e nella sceneggiatura che, dopo mezz’ora di indubbio impatto descrittivo, si avvita su sé stessa e diventa ripetitiva. Scatenò le ire delle associazioni gay degli USA.
È l’una di notte quando Harry Levine bussa alla porta di Jake Manheim. Ha un dollaro e mezzo in tasca e un cappotto talmente logoro che la gente per strada lo scambia per un barbone. Vorrebbe che l’amico gli desse i soldi che gli deve, ma vorrebbe anche sapere cosa ne pensa del manoscritto del suo ultimo romanzo. Ci si è impegnato a fondo, scrivendo ogni sera fino a tardi in un caffè di Chinatown, e Jake è la prima persona a cui l’ha mostrato, perché è il suo mentore. Dapprima Jake sostiene di non averlo aperto, di non averne avuto il tempo, poi, mentre la notte si fa profonda e costringe alla sincerità, arriva la confessione, amara e disperata: non solo ha letto il manoscritto ma ne è rimasto travolto e turbato. È il romanzo che avrebbe dovuto scrivere lui, se solo non fosse il fallito che è, un uomo ormai incattivito dalla frustrazione al punto da voler trascinare l’amico nella fossa, quando è ad un passo dal successo.
Turk e Rooster sono detective nel Dipartimento di polizia di New York. Veterani pluridecorati sono a un passo dalla pensione e dal serial killer che celebra i suoi cadaveri con sonetti in rima. Collabora alle indagini l’affascinante Karen Corelli, agente della squadra CSI e amante volubile di Turk. Karen ha una dipendenza dal sesso e da pratiche erotiche non convenzionali, che consuma con Turk e con il più giovane agente Perez, convinto che il serial killer sia proprio un poliziotto. Tra l’omicidio di uno spacciatore e quello di un protettore e contro i metodi della coppia junior, Turk e Rooster proveranno a fare luce sul caso e sui confini della legge.
Il famoso poliziotto nato dalla penna di Chester Gould trasportato dai fumetti al cinema. Già interpretato negli anni Quaranta da Morgan Conway e Ralphy Byrd, questa volta Dick Tracy viene impersonato da Warren Beatty che è anche regista e produttore. Volutamente girato come un cartone animato il film è un giocattolo molto suggestivo. L’interpretazione del protagonista è quasi piatta al contrario dei comprimari che sono più emotivi, fino ad arrivare alle comparse di lusso che sono sopra le righe. Beatty dà il meglio di sé nella regia, Madonna è sufficientemente efficace, mentre il migliore in campo è il cattivissimo Al Pacino. Altre comparsate le fanno Paul Sorvino, Dustin Hoffman e James Caan ben camuffati mentre Charles Durning è un simpatico poliziotto.
Un giovane, dotato, spregiudicato avvocato della Florida (K. Reeves) accetta un’allettante proposta di uno studio legale di New York, guidato da John Milton (A. Pacino) e si rende conto di aver venduto l’anima al diavolo. Letteralmente. Da un romanzo di Andrew Neiderman _ con la fotografia del polacco Andrzej Bartkowiak, le scene di Bruno Rubeo, gli effetti visivi di Richard Greenberg e i demoni disegnati da Rick Baker _ è uscito un filmone difficile da catalogare: horror giudiziario? farsa orrorifica? parabola faustiana? Nel suo toccare antichi e nuovi temi religiosi (con frequenti citazioni dell’Apocalisse giovannea) la materia del film è ambiziosa e rischiosa: il sublime confina col ridicolo, e spesso ci sprofonda. Non bastano gli effetti speciali per fare un buon film fantastico. Vien voglia di leggere il romanzo: i dialoghi sono forse la componente più interessante del film, e Pacino _ doppiato da Giancarlo Giannini _ li dice con un potente istrionismo ben temperato.
Un giovane poliziotto, ingenuo e onesto, rivela ai suoi superiori di aver scoperto le attività illegali di alcuni colleghi. Respinto e isolato, consapevole che la sua vita è appesa a un filo, rifiuta di legarsi sentimentalmente e si salva a stento da una missione mortale. Poco dopo, rivelate pubblicamente le sue scoperte, si dimette e si ritira in Svizzera.
Un film di Christopher Nolan. Con Al Pacino, Robin Williams, Hilary Swank, Nicky Katt, Maura Tierney. Thriller, durata 118 min. – USA 2002. MYMONETRO Insomnia valutazione media: 3,34 su 34 recensioni di critica, pubblico e dizionari. L’agente Dormer (Pacino) del dipartimento di Los Angeles viene chiamato in un paese dell’Alaska per indagare sulla morte di una ragazza. Lo accompagna un collega. Collabora con lui la giovane poliziotta locale Ellie, che considera Dormer una vera leggenda. Rincorrendo nella nebbia l’ assassino, Dormer uccide incidentalmente il collega e non è nella condizione, per una certa indagine avviata dal suo dipartimento, di assumersi quella responsabilità. Dà la colpa all’assassino, che però ha visto tutto e ritiene di avere in pugno il poliziotto. I due sarebbero dunque legati dalla complicità. Si incontrano, sono costretti a proteggersi a vicenda. Ma Dormer è troppo onesto per reggere il gioco, e poi la poliziotta comincia a capire. Finisce come deve finire. Da rilevare Robin Williams che ormai si diverte nei ruoli di cattivo, come in One Hour Photo, (è lui lo psicopatico scrittore di gialli che ha ucciso la ragazza) e poi la solita performance di Pacino grande e tollerabilmente sopra le righe. L’insonnia è dovuta alla sua angoscia e al fatto che da quelle parti, in quella stagione, è sempre giorno. Il film parte meglio di come poi arrivi. Un po’ anche per il tributo al talento un po’ invadente del protagonista. E’ magnifico che l’indagine si svolga con gente che ragiona, parla e cammina, e non solo al computer. Sopra la media.
The Merchant of Venice (1596-97) di Shakespeare conta 15 trasposizioni sullo schermo nel muto. Il 1° fu un Méliès (1901): 150 secondi. Col sonoro c’è il silenzio, se si toglie il mediocre film italo-francese di P. Billon. Almeno dopo il 1945 la presenza di un antagonista come Shylock lascia spazio al sospetto, se non alle accuse, di antiebraismo. Perciò l’inglese Radford, anche sceneggiatore, prende le sue precauzioni. Come tutti, anche a teatro, lavora di sottrazione sul testo originale, ma aggiunge una sequenza iniziale (senza dialoghi) ambientata nel ghetto. Shylock è un malvagio o un custode della legge, vittima del ruolo (l’usura) in cui la borghesia mercantile lo ha incastrato? Shylock ricambia con un odio che nasce dall’orgoglio ferito il disprezzo che Antonio, il protagonista del titolo, gli dimostra: l’ostilità tra i due non nasconde una forma di affinità? Non sono entrambi – l’uno ebreo, l’altro omosessuale (come qui Irons suggerisce con dolente malinconia) – “diversi” e in qualche misura capri espiatori di un sistema sociale? Radford non risponde o lo fa con reticenza. Confeziona un film in costume filologicamente corretto e lascia recitare a briglia sciolta un appassionato Pacino (doppiato da Giancarlo Giannini) che ha il suo momento di gloria (matt)attoriale nella famosa tirata del 3° atto. Esterni: Venezia e due ville venete; interni in Lussemburgo.
Anni ’70. Patrizia Reggiani conosce a una festa Maurizio Gucci, rampollo della dinastia Gucci, una tra le piu` celebri nel mondo della moda. Nasce una storia d’amore, dapprima osteggiata dal patriarca della famiglia, Rodolfo Gucci, ma poi arriva il matrimonio e la prole. La sfrenata ambizione della donna, che vorrebbe indirizzare le politiche aziendali del marchio Gucci, la porterà a tessere spericolate strategie, come quelle con lo zio del marito, Aldo Gucci, che incrineranno i rapporti familiari, innescando una spirale incontrollata di tradimenti, decadenza, vendette.
Le richieste di reupload di film deve essere fatto SOLO E ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.
Visto il poco spazio su Mega (2 terabyte) NON caricherò più serie tv e fumetti.
Se interessati a serie o fumetti contattatemi via email che vi spiego un metodo alternativo