Partendo da uno spunto del poeta americano Walt Whitman sull’intolleranza si raccontano quattro storie. La caduta di Babilonia: re Baldassare credendo ormai, dopo aver vinto sull’esercito della Persia, di essere al sicuro dà il via a una celebrazione fastosissima che però dà modo al nemico Ciro di sconfiggerlo. La passione di Cristo racconta tre momenti dell’esistenza di Gesù. La notte di San Bartolomeo, tratta di una storia d’amore poco prima dell’eccidio degli Ugonotti. La madre e la legge: un povero operaio, dopo uno sciopero sanguinoso, viene ingiustamente condannato a morte per omicidio. L’uomo si salverà in extremis per via della confessione dell’assassino. Uno dei film più importanti della storia del cinema.
Un film di David Wark Griffith. Con Mae Marsh, Henry Walthall, Violet Wilkey Titolo originale The Birth of a Nation. Storico, Ratings: Kids+16, b/n durata 38′ min. – USA 1915. MYMONETRO Nascita di una nazione valutazione media: 3,42 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Si tratta di materiale stampato dalla Library of Congress intorno al 1970 a partire dai negativi originali. I due rulli consistono in materiale di ripresa e in immagini non utilizzate nel film. Le scritte a mano su alcuni fotogrammi indicano che le scene riguardano i rulli 2, 7, 10, 23, 28 e 29 nella loro numerazione prima del montaggio. Verso la fine della seconda bobina di questa raccolta, nel provino dei costumi e del trucco per Lillian Gish e Walter Long, si intravede ogni tanto il celebre cappello di paglia utilizzato da Griffith: lo si può scorgere nell’angolo in basso a destra dell’inquadratura
Broken Blossoms è il più complicato tra tutti i film di Griffith; anzi, probabilmente è il film americano muto dalla maggiore complessità di disegno in assoluto. La complessità formale non è una virtù in sé, naturalmente. Ma le perfezioni formali di Broken Blossoms si conformano in modo ideale alle esigenze narrative di Griffith. Roger Shattuck, parlando di pittura moderna, associa il piacere che deriva dall’osservazione della pittura astratta alle proiezioni personali sulle forme non rappresentative della realtà. I piaceri che ci derivano da Broken Blossoms sono del genere opposto: in esso, possiamo andare oltre la descrizione griffithiana di un mondo naturale per trovare una bellezza formale nascosta.Innanzitutto dobbiamo considerare i rischi che Griffith si assunse con questa nuova storia. E non mi riferisco alle incognite del box-office – anche se, nel 1919, chiedere 3 dollari a biglietto per un film a basso costo di 6 rulli richiedeva una discreta dose di temerarietà. Ma l’aspetto più straordinario riguarda la volontà di Griffith di inoltrarsi in un terreno inesplorato e psicologicamente rischioso. In Broken Blossoms, Griffith abbassa la guardia. Attività ovviamente tabù o aspramente criticate in The Birth of a Nation e Intolerance – incrocio di razze, autoerotismo, voyeurismo, masticatura d’oppio e omicidio per vendetta – vengono trasformate in attività sensoriali gratificanti che creano pericolose risonanze di anticonformismo. Gli scarsi riferimenti del film alla cultura postbellica dell’America del 1919, lungi dall’assecondare la rampante xenofobia nazionale o il diffuso sentimento di autocompiacimento, riguardano il lato più oscuro del provincialismo americano. Per la prima volta nell’opera di Griffith, il fanatismo razzista diventa bersaglio di aspre critiche. Né appaiono meno straordinarie le fugaci allusioni del film agli operai delle fabbriche di munizioni, ai marinai americani e alla prima guerra mondiale, che, in contrasto col consueto idealismo utopistico di Griffith, descrivono una società triste e autodistruttiva guidata dalla violenza e dall’ignoranza.Questo piccolo film, girato in 18 giorni e con un modesto budget di 92.000 dollari, era stato pensato come un programmer di routine e quando Griffith avanzò la proposta di distribuirlo a sé, e a prezzi speciali, Adolph Zukor gli oppose un netto rifiuto, a quanto pare dicendogli: “Mi presenti un film come questo e pretendi anche di guadagnarci? Ma se muoiono tutti!”. Infine, su insistenza dei suoi principali consulenti finanziari, Griffith ricomprò il film e lo fece distribuire nel circuito di sale di Klaw ed Erlanger organizzandogli una elegante tournée. Fu un successo clamoroso. Poi il film raggiunse le normali sale di programmazione, come prima distribuzione della nuova United Artists Corporation. Sfruttando la scia della sontuosa campagna pubblicitaria orchestrata da Griffith, Broken Blossoms divenne uno dei tre maggiori successi commerciali della United Artists. Ancora oggi, Broken Blossoms continua a ricevere una notevole attenzione critica; e negli ultimi 10 anni ha ricevuto un numero di contributi probabilmente superiore a quelli dedicati a Intolerance e a The Birth of a Nation. Stimolanti disamine che hanno riguardato la narrazione o le poco ortodosse strategie di commercializzazione e presentazione adottate da Griffith, le relazioni tra il film e gli stereotipi anti-asiatici contemporanei, la sua promozione come film d’arte e la sua rappresentazione della struttura di classe, tutte con risultati di notevole interesse.Ma il film è interessante anche per le sue modalità di racconto. Al contrario dei suoi sovraccarichi e prolissi predecessori, The Birth of a Nation e Intolerance, Broken Blossoms è caratterizzato da uno stile narrativo ingannevolmente semplice e lineare solo in apparenza. E forse proprio per questo motivo l’organizzazione interna del suo racconto è stata in genere trascurata. Eppure, questa apparente semplicità rivela una padronanza del mezzo che, per sottigliezza di sfumature, non mi sembra meno affascinante della più vistosa sperimentazione di Intolerance. Broken Blossoms è un film che si contraddistingue soprattutto per la sua straordinaria compressione. La concentrazione di tempo e spazio dà ai personaggi, agli oggetti, alle scenografie un intenso potere metaforico che non viene mai dissipato. Griffith ricorre agli elementi tradizionalmente usati per illustrare gli aspetti deteriori della vita a Limehouse: una fumeria d’oppio, una casa da gioco, un negozio di curiosità, il tugurio dei Burrows. Curiosamente, però, spoglia questi luoghi dei consueti dettagli prosaici e sordidi. La strada desolata in cui vive Cheng Huan è pulita e ben conservata; il porto su cui si affaccia l’appartamento di Lucy è immobile e semideserto. Il contrasto tra i bassifondi della terra d’origine e quelli di luoghi remoti si basa sulla contrapposizione tra vitalità e mancanza di vita piuttosto che sull’abusato stereotipo tra pulizia e sporcizia di Burke (il quale non fa che ricordare al suo lettore i “miasmi mefitici”, le “mani sporche” e il “viscidume che ricopre gli slum” di Limehouse). La fumeria d’oppio è vista letteralmente attraverso un velo romantico (grazie al filtro diffusore usato da Henrik Sartov), e i dettagli esotici (i musicisti, gli strumenti, una mangiatrice d’oppio sdraiata sul divano) sono definiti con grande nitidezza di contorni. Ovviamente, Griffith introduce la mescolanza tra razze come un esempio di turpitudine; e tuttavia nelle sequenze della fumeria d’oppio spira un’aria di ordine classico e di serenità che contrasta con qualsiasi idea di degenerazione. I vicoli dei bassifondi alla Hogarth di film quali Easy Street di Chaplin o Humoresque di Borzage qui lasciano il posto a spazi cittadini vuoti e dall’azione sospesa alla Hopper. I parallelismi che Griffith traccia tra Lucy e l’uomo cinese sono sostanziali, ma in ultima analisi sono più importanti le differenze delle similitudini. Lucy non apprezza né capisce l’amore che Cheng Huan le offre. I piaceri che le derivano dalla sua frequentazione sono quelli di una creatura maltrattata e immatura irresistibilmente attratta dal semplice richiamo delle cose materiali. Per lei, l’appartamento del cinese diventa una sorta di padiglione magico che si fonde coi regali della madre come raffigurazione della bellezza, anche se questa associazione non va mai oltre il suo splendore esotico. Lucy, che non sopporta di essere toccata (il che non sorprende, visto l’uso che fa della frusta il padre) si lascia sfiorare dalla mano di Cheng solo mentre è assorta nella contemplazione delle belle cose che le ha appena regalato (la veste, la guarnizione per capelli orientale che sostituisce i nastri). La bambola, sia letteralmente che figurativamente, diventa la fonte di quella espressione – l’attenzione di Lucy distolta da Cheng Huan verso il suo regalo.La possibilità di una soluzione positiva del loro rapporto viene costantemente prospettata, ma solo per essere sviata immediatamente dopo. L’espressione meravigliata che compare sulla faccia di lei mentre si guarda allo specchio, si tocca le labbra e gli sorride, sembra suggerire che stia scoprendo se stessa, e che tra i due possa nascere una possibilità di contatto. Ma subito dopo lei si limita a carezzargli la guancia come farebbe con un gatto e a chiedergli: “Perché sei così buono con me, cinese?”. Cheng risponde alla sua ingenua domanda con un sorriso, ma la barriera che Griffith eleva contrapponendo l’ignoranza e il pregiudizio della classe inferiore cui appartiene Lucy all’idealismo di alta casta dell’orientale allarga ulteriormente il divario creato dai sogni contrastanti e dalla diversa immagine che i due hanno l’uno dell’altro. In altre parole, il vero motivo che distrugge la loro relazione non è l’intervento di Battling Burrows. L’idillio stesso è basato su illusioni che impediscono ad entrambi gli innamorati di vedere l’altro nella sua luce reale; per questo la loro relazione non ha alcuna possibilità di sviluppo.Da lla nostra prospettiva, è interessante notare come gli sviluppi potenziali della loro relazione, ma anche le sue limitazioni, siano intimamente associati agli oggetti di scena e alle scenografie. La storia d’amore è costruita su continui riferimenti a una molteplicità di oggetti quali bambole, fiori, nastri, incenso e splendidi abiti; ma anche sulle diverse percezioni che di questi oggetti hanno due innamorati chiusi in sogni e aspirazioni individuali che difficilmente possono condividere.Riducendo gradualmente il repertorio degli elementi all’interno della sua mise en scène e riciclandoli in continuazione, Griffith crea un’abile mistificazione attraverso la quale i dettagli scenografici e i gesti appaiono rilevanti solo per la loro reiterazione pur senza avere uno scopo funzionale dimostrabile. Essi alludono ad affinità segrete, a ‘recondite armonie’; ma inducono a comparazioni ingannevoli che non conducono da nessuna parte. Allo stesso tempo, questa rigorosa compressione aiuta Griffith a fermare – o a contenere – la progressione narrativa. I costanti rimandi a questi dettagli, che sono praticamente disseminati e sepolti all’interno di tutto il racconto, ci incoraggiano a leggere il film come un mosaico – portandoci avanti e indietro mentre colleghiamo le nuove tessere con quelle che le hanno precedute pur se la narrazione ci spinge sempre in avanti. In questo contesto, anche la ripetizione delle avance di Cheng Huan verso Lucy appartiene alla profusione di paragoni che legano i tre personaggi e i loro diversi ambienti, ma potrebbe del pari non avere un significato proprio ma tendere unicamente a rafforzare un certo nitore formale. Se la vicenda solleva qualche momentaneo dubbio sull’eroismo di Cheng Huan, questo viene però ristabilito, e allo stesso tempo ridefinito, alla fine del film. Quando gli viene strappata Lucy, Cheng sa cosa deve fare. Dopo un iniziale collasso isterico (dove la sua posizione rannicchiata accanto al letto, mentre si stringe al volto la veste strappata, riecheggia la posizione di Lucy che stringeva la sua bambola nel letto), si alza e prende la sua pistola. Dopo aver perso la creatura amata e idealizzata, Cheng perde anche il suo pacifismo, e sposa la violenza come unica alternativa. Affronta quindi Battling Burrows, in una scena caratterizzata da sottile ironia e dal rovesciamento finale dei ruoli.L’assegnazione delle armi confonde tutte le associazioni convenzionali all’Asia e all’uomo bianco. Nella storia di Burke, Cheng Huan lascia un serpente come fatale “dono d’amore” per il pugile. Nel film di Griffith, l’immagine del serpente viene invece associata alla frusta che Battling Burrows usa per tormentare e percuotere l’indifesa Lucy. L’accetta brandita da Burrows ha perfino un’associazione ancora più diretta con l’Oriente, in quanto arma tradizionalmente usata per le esecuzioni capitali in Cina. La sei colpi di Cheng Huan, al contrario, non solo è un emblema della giustizia violenta dei western, ma è anche la prima arma che si discosti totalmente dalla abusata convenzione cinematografica dell’uomo orientale con accette “alla Fu Manchu”. La fine ricorda l’inizio, con la “giustezza” della decisione del cinese rivista in termini western. Cheng Huan stermina Battling Burrows con un atto di vendetta, e al “messaggio di pace” del Buddha si sostituisce il “la vendetta è mia” del Vecchio Testamento. Dopo la precipitosa serie di perdite, capovolgimenti e separazioni, l’unica soluzione possibile è l’auto-annientamento. Dopo essere sceso al livello di un killer vendicativo di stampo western, Cheng espia con un atto di harakiri di stile asiatico. Confondendo l’usanza cinese con quella giapponese, Griffith conclude il suo film intrecciando sofferenza poetica e misticismo orientale. Ma perfino il richiamo finale alla convenzione western, con il melodrammatico salvataggio all’ultimo minuto – pur amatissimo da Griffith – viene rovesciato e liquidato come irrilevante. La polizia locale, informata dell’assassinio di Burrows, corre alla volta del negozio di Cheng per arrestarlo. Griffith inizia il montaggio alternato tra la corsa della polizia e i preparativi di suicidio del cinese, come se intendesse mettere in scena l’ennesimo intervento salvifico. Ma, concentrandosi sulle attività rituali di Cheng, Griffith perde ogni interesse per l’avanzata dei poliziotti; e costruendo la scena del suicidio in un profluvio di campanelle da preghiera, incenso, candele, fiori, e icone dall’aspetto di bambole, la trasforma nella scena dei sogni frustrati e dell’amore infelice di Cheng. Di conseguenza, i “soccorritori” si riducono al ruolo di intrusi profani, e tutte le nozioni di “salvataggio”, con annesso arresto finale da parte dei poliziotti, vengono fatte apparire ingenue e grossolane. Le autorità, naturalmente, arrivano troppo tardi, e perfino il loro ruolo di spettatori inconsapevoli viene minimizzato. Quando arrivano nel negozio di Cheng Huan, come ha scritto Edward Wagenknecht, “noi li vediamo entrare ma non entriamo con loro” (Edward Wagenknecht e Anthony Slide, The Films of D.W. Griffith, 1975). Per la prima volta nella sua carriera, Griffith salta la scena clou dell’incontro tra gli aspiranti salvatori e il loro obiettivo. Nell’ultima sequenza, Griffith rimette al passo la forza propulsiva della narrazione lineare per completare il suo disegno simmetrico. Quando le autorità entrano nel negozio di Cheng, invece di mostrarci ciò che vedono, Griffith conclude il suo film come l’aveva cominciato: un monaco buddista percuote il gong del tempio e una nave esce dal porto di Shanghai.
Sally of the Sawdust è un film curioso per molti motivi. Infatti, pur non mancando di spettacolarità, non possiede la grandeur dei precedenti film epici di D.W. Griffith. Inoltre è una commedia, un genere che, fin dai tempi della Biograph, Griffith aveva sempre preferito lasciare nelle mani di registi quali Mack Sennett o Billy Quirk. Senza considerare che, oltre alla sua supposta mancanza di talento per la commedia, Griffith affidava le sorti di Sally of the Sawdust a una inedita coppia di protagonisti formata da W.C. Fields, un clown appena arrivato dalle Ziegfeld Follies, e da Carol Dempster, unanimemente ritenuta una delle luci meno brillanti nel grande firmamento di stelle che Griffith ha lasciato al cinema. L’artista aveva debutto come comparsa in una scena danzata di Intolerance (1916) e poi Griffith le aveva affidato parti di comprimaria o di protagonista in suoi film a partire da The Girl Who Stayed at Home (1919). Nondimeno, riferendosi alla prima attrice di Sally of the Sawdust, Frederick James Smith di Motion Picture Classic ammetteva che solo con Isn’t Life Wonderful aveva pensato che “Miss Dempster fosse in grado di recitare”.Ma, cosa ben peggiore, anche il grande lustro personale del regista cominciava ad appannarsi. Se da un lato il successo di pubblico di The Birth of a Nation (1915) aveva ampiamente contribuito a diffondere in pari misura la fama e l’infamia di Griffith, non gli aveva tuttavia assicurato l’indipendenza produttiva cui egli massimamente aspirava. Il fallimento dello studio Fine Arts era stato foriero di ulteriori difficoltà.
Way Down East si situa nella duplice linea di tendenza delle opere griffithiane dei tardi anni Dieci. Come True Heart Susie e A Romance of Happy Valley, è una nostalgica storia di vita rurale pre-conflitto mondiale, “una storia semplice di gente comune”. Anche Tol’able David ha pressappoco la stessa matrice; Griffith comprò i diritti della storia di Joseph Hergesheimer durante le riprese di Way Down East, rivendendoli in seguito al protagonista di Way Down East, Richard Barthelmess, per un film che verrà realizzato da Henry King nel 1921. Way Down East è il primo dei due estremamente popolari, e pertanto molto costosi, lavori teatrali di cui Griffith si assicurò i diritti cinematografici nel 1920. Romance, un dramma dell’americano Edward Sheldon, era andato in scena per la prima volta nel 1913, ma aveva riscosso un grande successo solo in Inghilterra, con Doris Keane e Basil Sydney nei ruoli principali. Il contratto Griffith/Keane, che Richard Schickel ha definito “senza precedenti per l’epoca”, stabiliva un pagamento anticipato di 150.000 dollari più una partecipazione agli utili. Way Down East si rivelò perfino più costoso, giacché Griffith dovette sborsare 175.000 dollari al produttore William Brady, oltre a dover pagare i diritti d’autore della storia originale alla scrittrice Lottie Blair Parker e a Joseph Grismer, il quale aveva riadattato per Brady il copione di Parker e scritto un romanzo ispirato alla stessa pièce. Il film tratto da Romance, e diretto dall’assistente di Griffith Chet Withey, si rivelò un fiasco, mentre Way Down East ebbe un successo enorme, tanto da ispirare a Griffith un terzo adattamento da un testo teatrale nel 1921, ovvero Orphans of the Storm, basato sul dramma The Two Orphans di Adolphe d’Ennery e Eugène Cormon (1874).
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