Il deputato Dubaye uccide Serrano, un suo disonesto collega, e prega l’amico Maréchal di fornirgli un alibi. Non è che l’inizio di una sanguinosa catena di delitti: molta gente teme il ritrovamento di un compromettente taccuino di Serrano. Maréchal si trova suo malgrado coinvolto nella vicenda: sarà egli stesso a risolvere l’enigma.
Napoleone trasforma la Repubblica di Francia in Impero poco dopo aver dichiarato guerra all’Inghilterra che a sua volta ha chiesto aiuto all’Austria e alla Russia. La gigantesca armata austriaca e russa affronta l’esercito francese sicura di vincere, ma l’abilità strategica di Napoleone capovolge la situazione.
Dalla commedia (1897) di A. Schnitzler: a Vienna all’inizio del ‘900 una ragazza di strada si dà a un soldato che seduce una soubrette. La quale si lascia corteggiare da un ragazzo di buona famiglia che poi si prende per amante una donna sposata. Il marito fa una scappatella con un’ingenua sartina, ispiratrice di uno scrittore di successo che ama un’attrice. La quale gli preferisce un giovane conte che si ritrova nella camera della ragazza di strada. Inizio della 2ª carriera francese del tedesco M. Ophüls, è un film di squisitaeleganza in cui il geometrico meccanismo narrativo è esibito in modo tale che diventa il soggetto stesso di una narrazione senza intrigo né personaggi, fatta di assenza e di vuoti come il cuore dei suoi protagonisti. Bello come una bolla di sapone attraverso la quale s’intravede una concezione desolata dell’esistenza. Nel 1989 in Francia fu distribuita una copia restaurata di 110 minuti. Dimenticabile remake di R. Vadim nel 1964.
Dal romanzo La vie extraordinaire de Lola Montès di R. de Cecil Saint-Laurent, adattato da Jacques Natanson, Annette Wademant e Ophüls. Maria Dolorès Porriz y Montez, contessa di Lansfeld, rievoca in 7 momenti i suoi prestigiosi amori (Liszt, Luigi I di Baviera ecc.) e le sue pene. È il capolavoro (e una sorta di testamento) dello squisito, geniale M. Ophüls, l’opera dove – sullo sfondo di una sfarzosa scenografia di teatro nel teatro – sono riassunti i suoi temi al cui centro campeggia la donna-spettacolo. In un giuoco tragico e simultaneo di presente e passato, di finzione e vicende reali, di esibizionismi scandalistici e doloroso martirio, dietro il sontuoso apparato decorativo c’è la realtà di un personaggio, la sua verità interiore, come in ogni autentico spettacolo barocco. Ha una debolezza di fondo: la scelta di M. Carol. Nel dicembre 1955 a Parigi dà scandalo, spacca la critica in due fazioni, rischia di rovinare i produttori che ne riducono di 30′ la durata. Ripreso nel 1968 e accolto, quasi all’unanimità, come un trionfo. In originale girato in 3 lingue (francese, inglese, tedesco). Fotografia (Cinemascope, Eastmancolor): Christian Matras. Restaurato dalla Cinémathèque di Parigi grazie al digitale, e ridistribuito in Francia nel dicembre 2008.
Nella Parigi anni ’90 il 20enne Paul rinuncia a laurearsi per fare il DJ. Lancia il genere garage e per alcuni anni ha successo e se la spassa tra donne, alcol e droghe. Poi la musica cambia. Scritto dalla regista insieme al fratello Sven, ex DJ, ritrae in stile realistico, fino a sconfinare nel documentario, l’utopia giovanile dei baby boomers dei ’70, ma si può leggere anche come una versione attuale – con la madre al posto del padre che non c’è – della parabola del figliol prodigo. Benché prolisso, auto compiaciuto e a tratti noioso, seduce con la sua originale forza visiva, potenziata dalla camaleontica fotografia di Denis Lenoir, e con il glamour nostalgico della onnipresente colonna sonora.
Un film di Agnès Varda. Con Phillippe Maron, Edouard Joubeaud, Jacques Demy Titolo originale Jacquot de Nantes. Commedia, Ratings: Kids+16, durata 118 min. – Francia 1991
La regista francese di Senza tetto né legge rende omaggio al marito Jacques Demy con questa pellicola che è un atto d’amore verso il cinema. Si narra dell’adolescenza di Demy che attraversa il periodo 1938/1949. Ciò che interessa la Varda sono gli avvenimenti personali.
Giornalista afghana esule in Canada, Nafas decide, passando dal confine con l’Iran, di tornare a Kandahar. Il suo difficile viaggio nel deserto ha per tappe principali un campo profughi, una scuola coranica talebana, la dimora di un medico afroamericano, un centro di assistenza della Croce Rossa. Il caso ha voluto che le immagini di un film di finzione (girato in Iran) dessero finalmente significato, concretezza e verità all’irrealtà retorica delle vacue immagini televisive “dal vero” che per mesi, dopo l’11 settembre 2001, furono trasmesse in mezzo mondo. Tra finzione e realtà, mostra e racconta come il fondamentalismo islamico abbia umiliato la dignità delle donne, cercato di livellare la diversità degli uomini e di indottrinare i bambini col Corano, ridotto a strumento di propaganda. Intriso di dolore, descrive fino a che punto una lunga guerra possa devastare un Paese. Nonostante un’eclisse, chiara metafora dell’oscuramento della ragione, e il buio indotto dal burqua, è ricco di luce e di colori. Ingiustamente accusato di estetismo e di speculazione sui mutilati dalle mine da chi non capisce come la bellezza delle immagini possa essere un’apertura verso la speranza.
Tre racconti di Guy de Maupassant ridotti dal raffinato regista tedesco con l’apporto di un cast eccellente. In La maschera, un medico che assiste un ballerino svenuto durante la rappresentazione fa una sconvolgente scoperta. In Casa Tellier, la tenutaria di una casa di tolleranza porta le sue ragazze in campagna perché assistano a una commovente cerimonia. In La modella, infine, vengono narrati i patetici amori di un pittore e della sua collaboratrice.
Nel ridurre drammaturgicamente – con Sergio Citti e Pupi Avati – Le 120 giornate di Sodoma (1782-85) del marchese De Sade, P.P. Pasolini ricorre alla ripetizione del numero 4. Durante la Repubblica di Salò 4 signori (il Duca/Bonacelli, il Monsignore/Cataldi, S.E. il presidente della Corte d’Appello/Quintavalle, il presidente Durcet/Valletti, che rappresentano i 4 poteri) si riuniscono insieme a 4 Megere, ex meretrici, e a una schiera di ragazzi e ragazze, partigiani o figli di partigiani in una villa isolata e protetta dai soldati repubblichini e dalle SS. Per 120 giorni sarà in vigore un regolamento che permette ai Signori di disporre a piacere delle loro vittime. Lo schema temporale corrisponde a 4 gironi danteschi: l’Antinferno, il girone delle Manie, il girone della Merda, il girone del Sangue. Dopo il massacro, l’epilogo è in sospeso, con un barlume di residua speranza (Pasolini ne aveva girati altri due). In tutto il cinema pasoliniano il sesso è uno strumento per parlare di “qualcosa d’altro”. Qui ha un significato direttamente politico: il rapporto sessuale sadico è una delle tante forme dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. È anche una denuncia, per via di metafora, dell’attuale società dei consumi in cui il sesso è un allegro aspetto della mercificazione dell’uomo nella società capitalistica. Film estremo, è attraversato da due costanti che ne scandiscono il ritmo: la ripetizione ossessiva dei cerimoniali e l’accompagnamento musicale della pianista (S. Saviange). Nel suo cinema all’insegna della congiunzione Marx-Freud il tema della morte – e dei suoi legami con l’Eros – è dominante. Qui trova, attraverso l’accumulazione di fatti sadici, la sua ultima espressione con la maniacale e furiosa tetraggine di un quaresimalista, anche se venata, in contraddizione con Sade, da un pietoso intenerimento per le vittime e gli innocenti. Presentato a Parigi il 22 novembre 1975, 3 settimane dopo la morte di Pasolini, uscì sul mercato italiano nel gennaio 1976 e venne subito sequestrato. Le sue traversie giudiziarie – dall’imputazione di oscenità a quella di corruzione di minori – durarono con fasi alterne sino al 1978. La versione circolante del film è priva di 589 metri (21′) rispetto all’originale.
Liberamente tratto dall’ Idiota di Dostoevskij, narra di un rapinatore, Mickey, che conosce Léon, un transfuga ungherese che s’innamora della sua donna, Marie, costretta a fare la mantenuta nella gang dei quattro loschi fratelli Venin. I due amanti vengono coinvolti in una serie di crimini. Léon, sempre un po’ candido, viene travolto dagli eventi.
È il film – il 4° di Cantet – che vinse la Palma d’oro a Cannes 2008, giuria unanime. Nel 2006 il libro Entre le murs di Bégaudeau – qui protagonista e cosceneggiatore – aveva vinto il premio France Culture/Télérama. In settembre Cantet gli chiese di trasporlo in un film da girare nel 2007. Decisero di farlo nel collegio Françoise Dolto, sito nel 20° Arrondissement alla periferia di Parigi, vicino alla scuola dove per 4 anni aveva insegnato. Racconta i difficili rapporti tra un prof. di francese e una classe 4ª (l’ultima) mista e plurietnica (francesi, nordafricani, europei dell’Est, cinesi), chiamati a parlare “la stessa lingua” con le sue insidie (in francese il computer si chiama “ordinateur”). Come nel libro il titolo – Tra i muri , quello della Mikado italiana è debole e ambiguo – indica che nel sistema scolastico francese la scuola è uno spazio di segregazione, non di integrazione: le differenze linguistiche e culturali diventano diseguaglianze, si aggravano invece di essere superate. In Francia discusso, attaccato da sinistra e da destra. Straordinario esempio di docufiction sociologica, girato da Cantet con un largo margine di improvvisazione, è un film onesto e autentico, sincero e coinvolgente. Pone molte domande senza pretendere di dare risposte anche nel doloroso finale in cui la finzione prevale sul documentario.
Sull’orlo della bancarotta per le manovre del suo concorrente Gundermann (Abel), il banchiere Saccard (Alcover) punta tutto su Hamelin (Victor), aviatore che, messo a punto un nuovo carburante, vuole organizzare una trasvolata oceanica di 7000 km fino alla Guyana dove esistono ricchi terreni petroliferi da sfruttare. La falsa notizia della morte di Hamelin in volo provoca il panico in Borsa e una serie di manovre, speculazioni, intrighi e drammatici avvenimenti. Saccard e, al suo rientro, Hamelin vanno sotto processo, mentre Gundermann risolve la situazione, facendo, nello stesso tempo, un’ottima figura e i propri interessi. Ultimo film muto di M. L’Herbier che lo produsse e liberamente adattò, aggiornandolo, il romanzo (1891) di Émile Zola, uscì alla vigilia del crollo di Wall Street, mentre già erano in distribuzione i primi film sonori: il che spiega in parte il suo insuccesso commerciale, causato anche dall’incomprensione della critica, incapace di apprezzarne le qualità stilistiche, frutto di una geniale rielaborazione dell’avanguardia filmica degli anni ’20. Soltanto negli anni ’60 se ne compresero l’importanza, la novità, l’attualità: l’audace commistione di un montaggio corto (1952 inquadrature per 130′, ossia in media 6 secondi e mezzo per inquadratura) con i frenetici movimenti della cinepresa, commistione che esprime l’onnipotenza del denaro sui luoghi, la società, gli individui. Il punto più alto o almeno più spettacolare di questa frenesia è raggiunto nella famosa sequenza della Borsa (2000 comparse, 15 cineprese, un marchingegno meccanico che permette a una delle 15 di piombare da un’altezza di 22 metri). A questo virtuosismo tecnico si aggiunge la sobrietà nella direzione degli attori, dominati dal dinamismo delle cineprese mobili che li braccano. La denuncia polemica dello strapotere del denaro e della speculazione finanziaria “ha tolto al racconto ogni sentimentalismo, ogni magniloquenza per lasciare il posto a un’allegoria ardente e gelida, a un grande affresco astratto e intemporale…” (J. Lourcelles). Sulla lavorazione del film Jean Dreville girò il documentario Autour de “L’argent” che fece epoca. Il romanzo di Zola fu riportato sullo schermo nel 1936 da Pierre Billon.
L’infermiera Marie-Jo ama due uomini: intensamente il marito Daniel, piccolo imprenditore; appassionatamente l’amante Marco, pilota di rimorchiatori di porto. Una notte dice al marito che il tradimento non consiste nel nuovo amore, ma nell’impossibilità di fargli condividere la sua felicità, ma Daniel dorme. E segarsi le vene non è una soluzione. Al suo 11° film il marsigliese Guédiguian, cineasta anomalo nel panorama di Francia, si tiene lontano dal natio quartiere dell’Estaque e lascia sullo sfondo la tematica socio-economica per concentrarsi sulla straziante dialettica contraddittoria dell’amore e dell’innamoramento. Scritto col fido Jean-Louis Milesi, ne è uscito un film un po’ prolisso, ripetitivo e compiaciuto, ma ancora una volta caldo e suggestivo, che non a caso approda a “Je suis malade” di Serge Lama, cantata dalla sua attrice preferita, l’ottima Ascaride. La fotografia di Renato Berta esalta l’azzurro del cielo e del mare che circonda l’estate a Marsiglia.
Anna è un cardiochirurgo di successo con una figlia adolescente, un marito premuroso e un padre orgoglioso, Barsam, a cui diagnostica una patologia. Barsam rifiuta di operarsi, vuole che il suo cuore smetta di battere in Armenia, la sua terra natale a cui fa ritorno lasciando per sempre la Francia. Anna, preoccupata per le sue precarie condizioni di salute, si imbarca sul primo aereo diretto a Erevan. È l’inizio di un lungo viaggio dentro la storia del popolo armeno, dentro una storia privata, dentro se stessa.
Bello, profondo, di intenso spessore morale e culturale è il film che il regista marsigliese R. Guédiguian ha dedicato agli ultimi mesi di vita del socialista François Mitterrand (26-10-1916/8-1-1996), eletto presidente nel 1981 e nel 1988, soprannominato “ultimo re di Francia”. Scritto con Gilles Tourand e con il giornalista Georges-Marc Benamou e basato sul libro Le dernier Mitterrand in cui Benamou raccolse i colloqui avuti col presidente tra il ’92 e il ’95. Amareggiato dalle accuse di essersi compromesso nel ’42 col regime collaborazionista di Pétain prima di entrare nella resistenza antinazista, Mitterrand si confida col giovane giornalista Antoine Moreau, gauchiste moderato, in conversazioni nell’appartamento presidenziale e in giro per la Francia. Ne esce il ritratto poliedrico, pubblico e privato, di un vecchio di grande statura politica e di segreta fragilità umana, piegato dalla malattia (cancro alla prostata), ambiguo nel respingere le accuse più infamanti per il suo passato. È desideroso di immortalità come politico di potere, ma coraggioso, come uomo, nel confessare la mancanza di illusioni davanti alla morte. Grazie anche a M. Bouquet (1925, cioè nell’età del personaggio), attore completo per virtù di sobrietà e concentrazione, è un ritratto indimenticabile che la voce italiana dell’ottimo Omero Antonutti non tradisce (Franco Mannella doppia il suo interlocutore J. Lespert). La regia invisibile di Guédiguian concorre a fare un film rispettoso, ma non agiografico, impregnato di un’inquieta e dolorosa simpatia che conserva un dialettico distacco.
A Méjan, una cala marina tra Marsiglia e Carry, tre fratelli si ritrovano per vegliare il padre. Angèle, attrice con un lutto nel cuore, Joseph, professore col vizio della rivoluzione, Armand, ristoratore di anime, misurano la loro esistenza davanti all’ictus che ha colpito il genitore. Intorno alla sua eredità, la casa, il ristorante, la coscienza politica e quella sociale, fanno i conti col proprio passato che per Angèle non sembra mai passare. L’irruzione improvvisa di tre bambini, naufraghi sulle sponde del Mediterraneo, sconvolge la loro riflessione e segna un nuovo inizio.
Ambientato a l’Estaque, quartiere nord di Marsiglia, dove il regista è nato, cresciuto e girato molti suoi film. Il sindacalista Michel (Darroussin) inserisce anche il proprio nome nella lista degli operai da licenziare: è tra i 20 estratti. Perplessa ma combattiva come lui, sua moglie Marie-Claire acconsente. La prima mezz’ora descrive con serenità fin troppo compiaciuta il clima di solidarietà e affetto della loro vita, circondati da figli, nipotini, amici. Giorni dopo sono aggrediti e derubati in casa da due uomini mascherati. Michel scopre che uno dei due è uno dei giovani operai licenziati che, abbandonato dalla madre, vive con 2 fratellini da mantenere. Difficile distinguere nel cinema di Guédiguian dove finisce l’amore per i personaggi e dove comincia quello per gli attori. Il trio Ascaride/Darroussin/Meylan è invecchiato con lui: avevano 25 anni in Dernier été , 40 in Marius e Jeannette (1997) e qui sono 50enni a confronto con una generazione di giovani che a torto li tratta come piccoli borghesi. Ispirati al poema di Victor Hugo Les Pauvres Gens (in La leggenda dei secoli , 1883), è un film di sinistra in cui il regista/autore fa convivere l’impegno politico di Brecht col cinema di Jean Renoir e Marcel Pagnol. Per lui nella società d’oggi non c’è più coscienza di classe né classe operaia: c’è soltanto la povera gente. Distribuisce Sacher di Nanni Moretti. “Les neiges du Kilimandjaro” è il titolo di una canzone di Pascal Daniel, amatissima dai 2 protagonisti.
Due ladruncoli scalcagnati, con tre amici e due ragazze organizzano un grosso colpo. Per difficoltà tecniche affidano il furto a un professionista che dovrebbe poi essere derubato da loro. Ma non tutto va come dovrebbe. È un film a risvolti caricatural-umoristici di gusto francese, di spirito sottile e intelligente, pieno di trovate. L’ottimo cast di caratteristi contribuisce al divertimento.
Un film di Jean Renoir. Con Jean-Louis Barrault, Jean Topart, Michel Vitold, Teddy Billis, Teddy Bilis, Sylviane Margollé, Jacques Dannoville, André Certes, Jean-Pierre Granval, Céline Sales, Ghislaine Dumont, Madeleine Marion. Titolo originale Le testament du Docteur Cordelier. Horror, b/n durata 100′ min. – Francia 1959. MYMONETRO Il testamento del mostro valutazione media: 4,08 su 13 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Noto psichiatra parigino cerca di ottenere la materializzazione della psiche e trasforma sé stesso, a comando, in Opale, libero dai condizionamenti della morale borghese. Gravi conseguenze. Contrariamente a Stevenson (Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, 1886) e alle precedenti trasposizioni filmiche, la simpatia di Renoir va a Opale (come si dice esplicitamente nella bella scena finale della confessione) più che al rispettabile Cordelier di cui, anzi, si sottolinea l’immonda ipocrisia.L’aver risolto in cadenze di pantomima il malefico “doppio” di Cordelier non è soltanto un divertimento in chiave figurativa, ma ha una precisa corrispondenza etica e metaforica: il modo con cui il grande Barrault/Opale esprime la propria emancipazione dalle regole con inquietanti passi di danza e in frenesia ballettistica non manca di ironia e sconfina nel grottesco, evidente anche nel personaggio dello psichiatra ostile (Vitold). Realizzato per la prima volta in Francia in coproduzione con la TV (ORTF) e girato in parte con l’impiego contemporaneo di diverse macchine da presa.
Pelissier è un commissario sulle tracce di una banda di rapinatori. Per incastrarli circuisce l’amica del capo, una prostituta di origine tedesca. La donna s’innamora e senza volerlo dà modo a Pelissier di prendere in trappola i malviventi. Ma anche il commissario s’è preso la cotta.
Tutti i link Easybytez sono andati persi, con calma cercherò di ricaricare più materiale possibile.
Le richieste di reupload di film deve essere fatto SOLO E ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.
Visto il poco spazio su Mega (2 terabyte) NON caricherò più serie tv e fumetti.
Se interessati a serie o fumetti contattatemi via email che vi spiego un metodo alternativo