Un investigatore privato che si crede Philip Marlowe e un ex giocatore di football con la carriera stroncata da una storia di droga si alleano – malvolentieri – per porre fine a un giro di scommesse e di partite truccate. Commedia avventurosa di puro intrattenimento con la violenza corretta dall’umorismo e la tipica coppia bianco-nero (Willis, Wayans) che, a suon di battute spiritose, funziona. Corse voce che Shane Black, autore del soggetto e della sceneggiatura, fu pagato 1 750 000 dollari dalla produzione (Warner-Geffen-Silver).
Frank Moses è un ex agente della CIA in pensione, che vive in una villetta uguale alle altre cercando di fare una vita uguale alle altre. Purtroppo per lui e per Sarah, la ragazza ingenua e sognatrice che ha conosciuto al telefono, i segreti di stato in possesso di Frank lo hanno trasformato da strumento di morte a bersaglio dell’Intelligence: qualcuno da eliminare e in fretta. Inizia così quella che può apparire come la fuga di Frank Moses ma altro non è che il giro di reclutamento dei vecchi compagni: il vecchio Joe, il folle Marvin, il russo Ivan, lady Victoria, dopo di che la canna della pistola compie un giro di 180 gradi e la fuga si fa vendetta, la diaspora riunione, la pensione una nuova missione. Tratto dal breve fumetto DC Comics scritto da Warren Ellis e illustrato da Cully Hammer, Red è stato completamente reinventato nella sceneggiatura dei fratelli Hoeber, responsabili dell’inserimento dei compagni di ventura del protagonista e del tono divertito e alleggerito del film. Non è, infatti, come uno dei più significativi adattamenti da un fumetto che si fa apprezzare e ricordare questo film, ma piuttosto come una riuscita composizione di quadri, personaggi e situazioni provenienti da spezzoni di pellicole diverse e originalmente e gradevolmente assemblati. I film come materiali di partenza e il racconto come risultato, dunque, anziché viceversa. Ecco allora che nel bel prologo con Bruce Willis, ex supereroe in vestaglia, che prende a pugni il sacco dopo colazione, non c’è solo l’eco del suo Butch in Pulp Fiction (il pugile, la colazione, il mitra) ma c’è anche mister Incredibile e Léon (la piantina), mentre arrivati alla scena del ricevimento di gala, vien da chiedersi quando ci siamo già stati, se in un episodio cinematografico della saga di Danny Ocean o in uno televisivo di Alias. Eppure non sono citazioni soffocanti, forse non sono neppure citazioni, e c’è spazio per molto altro, compreso il sublime personaggio di John Malkovich, un panzone paranoico con un maialino di peluche sotto braccio dal quale estrarrà l’arma con cui umiliare una signorotta col bazooka, in una sequenza emblematica dell’operazione nel suo insieme, quanto a connubio tra ironia e spettacolarità. Ma Willis e Malkovich non sono i soli a portare un valore aggiunto al proprio ruolo: a loro modo lo fanno anche “la regina” Helen Mirren, con il richiamo sornione alla passione tutta inglese per il giardinaggio, e Brian Cox, con la trilogia di Bourne nel curriculum. In assoluto, oltre a qualche buona battuta e a qualche ambientazione più originale del solito, è essenzialmente a quest’alchimia tra attore e personaggio che si deve il piacere della visione. Da segnalare, in coda, un motivo di interesse anche nella figura di Sarah che, nel campionario dei caratteri femminili cinematografici, si può ascrivere come appartenente alla categoria della “palla al piede”. Con i romanzetti rosa in testa e le manette alle mani (quando non la pistola alla tempia), pretende ed ottiene di essere portata in prima linea e salvata ogni volta, contribuendo a fare del consenziente Bruce Willis un gentleman come pochi altri.
Estate 1965. Su un’isola del New England vive la dodicenne Suzy, preadolescente incompresa dai genitori. Sulla stessa isola si trova in campeggio scout il coetaneo Sam, orfano affidato a una famiglia che lo considera troppo ‘difficile’ per continuare ad occuparsene. I due si sono conosciuti casualmente, si sono innamorati e hanno deciso di fuggire insieme seguendo un antico sentiero tracciato dai nativi nei boschi. Gli adulti, ivi compreso lo sceriffo Sharp, si mettono alla loro ricerca anche perché è in arrivo una devastante tempesta. È indispensabile prestare attenzione all’ouverture di Moonrise Kingdom e non abbandonare la sala prima della fine dei titoli di coda per comprendere il senso profondo del film di Anderson che, altrimenti, rischia di essere letto superficialmente come un’ulteriore esibizione di genialità narrativa infarcita di gag e di trovate visive senza però che si vada oltre. Non è così. Chi era bambino nella prima metà degli Anni Sessanta ha molto probabilmente nella propria raccolta di vinili la suite didattica “Young Person’s Guide to the Orchestra” di Benjamin Britten in cui si presentavano i diversi strumenti che compongono l’orchestra basandosi su un tema di Purcell in cui l’ensemble si riuniva per eseguire una fuga. Una fuga è esattamente ciò che mettono in atto Suzy e Sam. Una fuga che serve apparentemente a scomporre ma in realtà ha come meta la ricomposizione dei frammenti di due vite che rischiano la dissoluzione. Alla fine del film Anderson gioca con questo fil rouge sonoro di nuovo ‘scomponendo’: questa volta tocca alla musica di Desplat, autore del soundtrack originale del film. Ci ricorda così, al contempo, che fare cinema (stanno scorrendo i titoli di coda non dimentichiamolo) è ‘orchestrare’ varie e quasi innumerevoli professionalità ma riesce anche a fare di più. Sottolinea che il suo cinema più recente è orientato a cercare le radici del comportamento adulto in accadimenti che hanno marcato gli anni giovanili. Così era per i fratelli de Il treno per il Darjeeling, così è stato per Fantastic Mr.Fox (un ritorno alle proprie origini con il portare sullo schermo il primo libro che Anderson ricorda di aver letto), così accade ora. Suzy e Sam sono non dei disadattati ma dei ‘disadatti’ a un mondo adulto che si sta spegnendo nell’indifferenza (la famiglia della ragazzina) o sopravvive grazie a regole applicate puntigliosamente che pretendono di imbrigliare l’avventura (il campo scout per Sam). Nel prologo, dalla casa di bambola in cui vive con i genitori e i fratelli, Suzy osserva il mondo grazie alla distanza del suo binocolo ma, per un istante, guarda in macchina interrogandoci. Siamo ancora capaci di emozionarci per un bacio? Sappiamo capire fino a che punto un essere umano in formazione abbia bisogno del nostro aiuto per togliersi il costume nero da corvo (e viene in mente “Blackbird”, masterpiece dei Beatles) e quanto invece possa e debba affrontare il piacere dell’avventura della vita con quel tanto di libertà che gli permetta di dipingere un mondo nuovo? Sono quesiti che ogni tanto gli adulti dovrebbero porsi. Anderson fa bene a riproporceli.
Il Nuovo Testamento racconta di una battaglia definitiva tra Bene e Male, uno scontro catastrofico che potrebbe porre fine a tutte le cose. Oggi la disgrazia, nota anche come Armageddon, sta arrivando dal cielo. Mentre la minaccia di un meteorite grande quanto il Texas si avvicina inesorabile verso il pianeta Terra, la Nasa intuisce che c’é un solo modo per distruggere l’asteroide: atterrare sulla sua superficie e farlo esplodere dall’interno. Gli unici capaci di riuscirci sono dei trivellatori americani, rozzo manipolo di eroi improbabili, abituati ad estrarre petrolio, adesso costretti ad iniettare speranze e coraggio nel mondo.
Questo film ha ottenuto ovunque un enorme successo di pubblico. Una giovane donna americana, consulente fiscale, è incinta ma il padre del bambino, che è sposato, dopo aver fatto delle promesse si fa scoprire nelle braccia di un’altra. Lei lo lascia e nasce il bimbo. Si innamorerà contraccambiata di un tassista che da baby-sitter del piccolo ne diverrà padre ufficiale. Poco riuscito, ma con una buona trovata, far sentire i pensieri del bimbo (fin da quando è nella pancia della mamma) attraverso una voce: Bruce Willis nell’originale e Villaggio-Fantozzi nella versione italiana. Travolta con questo lungometraggio ha riconquistato una certa popolarità
Sin City è una città nera, dove la notte non tramonta mai, abitata da una schiera di personaggi più cupi della notte stessa. Tutti cattivi, ognuno a modo suo: Marv, tenero bestione con un talento creativo per la sofferenza altrui; Kevin, ragazzo emotivo che ritrova la serenità divenendo uno spietato divoratore di esseri umani; la sua abietta guida spirituale il cardinale Roark, padrone della città; Dwight, fascinoso criminale che asseconda il suo destino e dispensa morte a piene mani; Gail, sua amata e regina delle prostitute che governano la città vecchia, donne che danno grande piacere, se si paga bene e si sta alle regole, o grande dolore, se si va oltre il seminato; un bastardo giallo, che violenta e mangia bambine impunito, coperto dal mostro suo padre che è anche Senatore della città, e contrastato solo da Hartigan, uno sbirro sul viale del tramonto disposto ad una carneficina per fermarlo e salvare Nancy, timida ballerina di lap dance. Esseri che hanno poco di umano, anime nere che anneriscono il già nero skyline della città del peccato. E in mezzo a tutto questo nero, ogni gesto fuori dal piano regolatore che la morte stessa sembra attuare, brilla di un vivido accecante: il grande cuore rosso di Goldie, il sangue scarlatto versato in olocausto e quello giallo per la catarsi di Hartigan, occhi verdi, azzurri e d’oro che sono l’unica traccia di un’anima dietro le armi. Dopo alcuni mezzi e mal riusciti adattamenti da lui supervisionati, Frank Miller si decide finalmente a mettere il suo nome a corredo di una sua storia trasposta dal fumetto alla pellicola. Per chi conosce Miller, questa è la fine di un’attesa durata vent’anni; per chi non sa chi sia, perché magari pensa che i fumetti siano roba da bambini, basti dire che Frank Miller è, semplicemente, indiscutibilmente, il re del noir degli ultimi venti anni, a prescindere da ogni disciplina artistica, artigianale o d’intrattenimento che si voglia considerare. Se questo film fosse uscito nel 1991, quando cioè è nato, con stile molto cinematografico, sulle pagine della Dark Horse Comics, oggi il linguaggio cinematografico sarebbe diverso da come lo conosciamo: per esempio, non sarebbe affatto doveroso fare una citazione dietro l’altra, ma si racconterebbero storie che iniziano coi titoli di testa e finiscono coi titoli di coda. Oggi Miller, che da qualche anno non sforna più capolavori di carta, si è fatto dei compagni di merende: Tarantino e Rodriguez, due tipi in gamba che sanno benissimo quanto grande sia il debito che hanno col maestro. Dal primo si è fatto spiegare un po’ di marketing, dal secondo come si accende la macchina da presa, ha ripescato uno dei tanti suoi soggetti eccelsi del passato e ne ha fatto un film magnifico. Se la prossima volta il signor Miller avrà il coraggio di fare tutto da solo, e avrà premura di scrivere come sa fare, potremmo davvero trovarci di fronte ad un nuovo Anno Zero del cinema d’azione. Altro che Pulp Fiction…
Questa volta, il nostro eroe OZ (Matthew Perry), sta facendo la bella vita a Beverly Hills con la sua bellissima moglie, incinta, Cynyhia (Natasha Henstridge). Cinthya viene rapita da Franckie Figs (Michael Clarke Duncan), che non era veramente morto nel primo episodio. Frankie esegue gli ordini del boss criminale di Chicago Lazlo Gogolak (Kevin Pollack). La ragione del rapimento è di spingere Oz a contattare il suo amico Jimmy The Tulip Tudeski (Bruce Willis), per fargli restituire i 10 milioni di dollari, rubati da Jimmy a Lazlo . Jimmy non vuole aiutare Oz perché sa che in realtà Lazlo vuole ucciderlo… Se certe volte la scelta di realizzare un determinato film lascia perplessi, ancora più spesso non ci si può fare a meno di domandare perchè, di pellicole di successo appena discreto come questa, i produttori hollywoodiani decidano di varare un sequel non richiesto. F.B.I Protezione testimoni 2 fa pienamente parte di questa inquietante categoria e tutti, dal regista agli attori, ce lo ricordano ad ogni inquadratura. Lo script banale e quasi mai divertente non aiuta di certo Willis (che non fa ridere nemmeno vestito da donna) e Perry, entrambi svogliati e poco in forma. Spiace vedere un cast altrimenti valido e impreziosito dalla presenza di ottimi caratteristi, al servizio di una storia così noiosa e priva di mordente. Niente riso, niente suspance…un film vacuo, stupidino e sostanzialmente inutile, sconsigliabile anche ai più accaniti fans del divo Willis.Vade retro.
Lui (Perry) è un dentista detestato dalla moglie (cerca anche di farlo uccidere) l’altro (Willis) è un killer che si nasconde alla mafia. Nella circostanza si alleano. Più un film comico che un thriller. Superfluo.
Jackal (sciacallo) è il nome in codice di un killer (Willis) assoldato da un capo della mafia russa per assassinare un importante politico statunitense. Chi? In collaborazione con Koslova (Venora) dei servizi segreti di Mosca, il direttore dell’FBI (Poitier) recluta Mulqueen (Gere), ex terrorista dell’IRA in carcere, specialista in travestimenti, che ha i suoi motivi per odiare Jackal. Caccia difficile. La sceneggiatura di Chuck Pfarrer è liberamente ispirata a quella che Kenneth Ross cavò per F. Zinnemann dal romanzo Il giorno dello sciacallo di F. Forsyth, ma, come il film, gli rimane nettamente inferiore, più convenzionale, privo della sua fredda concisione. Si salva, comunque, il grintoso e ironico Willis.
Evasi insieme dal carcere, Joe e Terry diventano rapinatori di banche con dolcezza: ne sequestrano i direttori la sera prima del colpo, cenano e pernottano in casa loro e il mattino dopo li accompagnano sul posto di lavoro. Diventano famosi, ma la situazione si complica quando a loro si unisce la vivace Kate. Scritto da Harley Peyton secondo il manuale del perfetto sceneggiatore senza mai scivolare nella denuncia critica del sistema, e diretto con disinvolta competenza, è una ben oliata macchina narrativa che contamina con calcolata leggerezza il cinema d’azione, un triangolo amoroso (con sorridente citazione di Jules et Jim ) e la commedia. Istrionesco come non mai, B.B. Thornton ruba spesso la scena a B. Willis, ma C. Blanchett non si fa mettere sotto.
Mike Banning è un agente della sicurezza al servizio del presidente degli Stati Uniti d’America. Brillante e intraprendente, è ben voluto dalla First Lady e da suo figlio, un ragazzino di pochi anni che sogna un giorno di servire il Paese. Alla Vigilia di Natale la donna muore in un tragico incidente, ‘sacrificata’ insieme a due agenti per salvare la vita del presidente. Sollevato dall’incarico e costretto dietro alla scrivania, Mike conduce una vita ordinaria a cui proprio non riesce ad abituarsi. L’attacco alla Casa Bianca da parte di un gruppo di estremisti nord coreani, che vorrebbero ‘detonare’ gli States, gli offre finalmente l’occasione di tornare operativo.
Il Presidente Clinton, dopo l’attentato al World Trade Center, promette durezza nei confronti dei terroristi. Si aprono due indagini parallele: da un lato il capitano Hubbard dell’FBI e dall’altro l’agente segreto della CIA Elise Kraft. Mentre le indagini proseguono altri attentati colpiscono New York e il generale Devereaux ha buon gioco nell’imporre le maniere forti facendo saltare le garanzie costituzionali. Sarà Hubbard a metterlo in condizioni di non nuocere riuscendo al contempo a fermare i terroristi. Ancora il ‘pericolo arabo’ in un film d’azione che si pone il problema della difesa della legalità senza dimenticare la sicurezza dei cittadini. Denzel ‘Buono’ e Bruce ‘cattivo’ a confronto.
Ispirato alla vicenda di Jesse James Hollywood che sconvolse la California, il film è ambientato nella periferia di Los Angeles dove Johnny, un giovane boss, spaccia droga, si diverte con gli amici, partecipa a folli festini. Una persona così ha certo anche dei nemici, soprattutto quelli che non gli pagano “la roba”. In un ambiente in crisi di esaltazione la tensione cresce e Johnny e il suo gruppo oltrepassano il limite. Una premessa: Alpha Dog ha sicuramente un pregio. È un film che racconta la piccola malavita losangelina di quartiere senza obbligatoriamente parlare degli afroamericani, di South Central, delle automobili che corrono a ritmo di Rap.
Ispirato al cortometraggio La Jetée (1963) di Chris Marker, sceneggiato da David e Jane Peoples. Nel 2035 i sopravvissuti a un virus, che nel 1997 sterminò cinque miliardi di persone, vivono sottoterra, mentre la superficie del pianeta è popolata soltanto da animali. Per capire il come e il perché della catastrofe si spedisce indietro nel tempo (nel 1917 per sbaglio, nel 1990 e nel 1996) un ergastolano intelligente. Macchinoso e sbretellato sul piano narrativo, il 6° film di Gilliam (l’unico americano del gruppo Monty Python) vale su quello figurativo per certe fulminee invenzioni registiche, i desolati paesaggi metropolitani, l’energia recitativa di Willis, l’istrionismo schizoide di Pitt. Raro esempio di un titolo che indica una falsa pista.
Russ Duritz (Willis, appunto) è un manager quarantenne di successo: ha tutto ciò che, secondo lui, occorre avere, denaro, tutti i giocattoli possibili, nessun condizionamento sentimentale. Un giorno, in un salotto, vede un ragazzino di otto anni, grassottello, che gli ricorda qualcosa. Poi, decisamente sconvolto, realizza: trattasi nientemeno che di Russ stesso a quell’età. I due vengono dunque in contatto, l’adulto si vede quando tutto doveva ancora succedere e il bambino quando tutto è successo. Entrambi sono a disagio e delusi, perchè il “grande” si rivede goffo e timido, sempre sfottuto dai compagni di scuola e il bambino, nel proprio futuro, non trova niente di ciò che sognava, a cominciare da un cane e da una donna. Occorre dunque iniziare a pensare alla compagna. Buon’idea, parzialmente mutuata da Frequency, ben condotta. Un’occasione, da parte degli adulti di ragionare sui valori e sul destino di questa civiltà.
A North Bath, cittadina vicina a New York, vive il sessantenne Donald “Sully” Sullivan (Newman) che “non ha fatto buon uso della vita che Dio gli ha dato”: irresponsabile come marito e padre, nonno fantasma, inaffidabile come cittadino, sospetto come americano (s’infischia del successo), ma generoso con gli amici e col prossimo: che cosa sarebbe la vita a North Bath senza di lui? Da un romanzo di Richard Russo, sceneggiato dal regista, un film insolito e controcorrente dove contano i personaggi più dell’intreccio, non risolve i conflitti, non offre consolazioni. Sceneggiatore esimio, ma regista diseguale di scrittura molle, Benton anche qui è incerto tra sentimento e retorica sentimentale, tra voglia di anticonformismo e ossequio ai codici. Dedicato a J. Tandy che, finite le riprese, lasciò vedovo l’amato Hume Cronyn.
Oz è un simpatico dentista di Montreal che deve convivere, in attesa del divorzio, con una moglie e una suocera infernali finchè non avrà la somma necessaria a pagare un grosso debito. Il suo vicino di casa, Jimmy “Tulipano”, è un killer professionista con una taglia sulla testa. Una cosa li unisce: qualcuno sta cercando di ucciderli.
Un film di Blake Edwards. Con Kim Basinger, Bruce Willis, John Larroquette, William Daniels, George Coe.Titolo originale Blind Date. Commedia, durata 95 min. – USA 1987. MYMONETROAppuntamento al buio valutazione media: 3,13 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Appuntamento fra un manager e una bella ragazza. Timida e adorabile quando non beve, scatenata ninfomane se si ubriaca. La serata pazza pazza finisce per sconvolgere (ma in definitiva positivamente) la vita d’entrambi.
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