Pete St. John (R. Gere) è un professionista di campagne pubblicitarie elettorali, “capace di trasformare Gheddafi in Babbo Natale”. Cinico senza freni, ha per avversario il suo ex socio e maestro (G. Hackman), persuaso, invece, che non si può lanciare chiunque. Scritto dal giornalista David Himmerlstein, è un film politico sulla politica, interessante per le riflessioni che suggerisce sulla natura della democrazia politica USA, sullo strapotere di manipolazione dei mass media nella civiltà dello spettacolo dove l’immagine conta più che le idee, l’apparire prevarica sull’essere. Generoso, ambizioso, apprezzabile come testimonianza della coerenza di S. Lumet, vecchio liberal, ma troppo verboso e predicatorio, con personaggi che sono portavoci di idee.
Un film di Todd Haynes. Con Christian Bale, Cate Blanchett, Marcus Carl Franklin, Richard Gere, Heath Ledger. Titolo originale I’m Not There. Musicale, durata 135 min. – USA 2007. – Bim uscita venerdì 7settembre 2007. MYMONETRO Io non sono qui valutazione media: 3,50 su 144 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Profeta, cantastorie, contestatore. Anticonformista, folle, genio assoluto del novecento. Io non sono qui è un viaggio nel tempo di Bob Dylan, attraverso il ritratto di sei personaggi – colti ognuno in un aspetto diverso della vita artistica e privata del menestrello americano – che intrecciano le loro storie di protesta, disagio, erranza e solitudine in una performance evocativa diretta da Todd Haynes. Anche stavolta, in un’ambientazione che riecheggia gli anni sessanta – avvicinandosi con forza alle tematiche dei suoi film più noti come Lontano dal paradiso e Velvet Goldmine – il regista americano sperimenta una narrazione frammentata e psichedelica, utilizzando sei diversi stili di regia all’interno di ogni microcosmo narrativo. C’è Arthur, poeta simbolista che porta lo stesso nome di Rimbaud, interrogato e poi condannato da una commissione d’inchiesta per i suoi presunti legami con gruppi sovversivi e di estrema sinistra. C’è Woody (Guthrie) un bambino di undici anni scappato da un riformatorio e pronto a raggiungere il capezzale del morente omonimo, il cantante folk che ha influenzato per lungo tempo la musica di Dylan. Poi c’è Jack cantore della protesta al tempo della guerra in Vietnam, Robbie attore e motociclista, Jude l’androgino e cinico cantante folk, e per finire l’illuminato pastore John e il vecchio Billy (The Kid), ispirato al celeberrimo criminale. Quello di Todd Haynes è più di un mockumentary o di un omaggio al Dylan che più amiamo (non a caso è l’unico ritratto che lo stesso Dylan sembra aver davvero apprezzato), ma una miscela perfetta di musica, arte visiva, cinema. Fotografia rigorosa, sei registri narrativi che si intrecciano sul calare degli anni ’70, quando le illusioni e le utopie di un mondo migliore si infrangevano definitivamente sul campo di battaglia di una guerra infinita e inutile. C’è la musica, allora, a risollevare le sorti di un’umanità stanca, a dar voce ai poveri e ai diseredati, ma c’è anche il cinema – di Todd Haynes – che ogni volta restituisce la magia delle atmosfere magiche perse nei ricordi.
Il dottor Sully Travis è un ginecologo di successo a Dallas, adorato dalle sue clienti che cura con pazienza, dolcezza e competenza. Marito fedele, è un uomo che ama le donne, ma le capisce poco o niente. Si ritrova con una moglie in piena regressione infantile e una delle due figlie, lesbica ignara, che durante la cerimonia nuziale scappa con l’amica del cuore. S’innamora di una istruttrice di golf che si comporta come un uomo. È un’altra delle commedie corali di Altman, ma con una variante: un uomo solo in mezzo a un gineceo. Il rossiniano piano-sequenza iniziale (7 minuti circa) nella sala d’aspetto del suo studio offre la chiave stilistica di un film dove quasi tutto è semplificato, sovreccitato, esagerato, alla texana. L’ironia si alterna con il sarcasmo e il piede sul pedale del grottesco è fin troppo pigiato nella descrizione di questa società opulenta fino al punto di trasformarla in una macchina femminile celibe. La discutibile e qua e là furbesca sceneggiatura di Anne Rapp ( La fortuna di Cookie ) è riscattata in parte dalla gioiosa eleganza della regia, dalla leggerezza serena dello sguardo, dalla simpatia con cui il vecchio Altman accompagna i personaggi anche se negativi, compreso il dottor T. È forse il 1° film mainstream di Hollywood in cui si filma un parto a distanza ravvicinata.
Dopo un tentativo fallito nel 1994, i Fantastici Quattro, celeberrimi personaggi tratti dall’omonimo fumetto della Marvel Comics creati da Stan Lee e Jack Kirby nel novembre del 1961 in Fantastic Four n. 1, compiono un nuovo ingresso nelle sale cinematografiche in un film del 2005 diretto da Tim Story. Lo scienziato Reed Richards (Ioan Gruffudd), una delle menti più brillanti del XXI secolo, passa in affari con una sua vecchia conoscenza, Victor Von Doom (Julian McMahon), per organizzare un viaggio nello spazio insieme ai fratelli Susan (Jessica Alba) e Johnny Storm (Chris Evans) e Ben Grimm (Michael Chiklis) per scoprire le reali potenzialità di uno strano fenomeno, ovvero una sorta di nube cosmica. Qualcosa, però, non va come previsto e la nube avanza molto più rapidamente rispetto a quanto calcolato da Reed, investendo la stazione spaziale in pochi minuti. Le radiazioni cosmiche emesse dal fenomeno donano al team incredibili poteri: Reed/Mr.Fantastic è capace di allungare ed espandere il suo intero corpo, Susan/la Donna Invisibile scopre di poter diventare totalmente invisibile e creare campi di forza, Johnny/la Torcia Umana può generare fiamme ed avvolgere il suo corpo con il fuoco, potendo anche volare, mentre Ben/La Cosa viene rivestito da una specie di esoscheletro roccioso che gli garantisce una forza straordinaria e una resistenza fisica eccezionale. Victor, invece, si ritrova con il volto sfregiato, il potere di generare energia elettrica e una lega metallico-organica indistruttibile che si estende lungo varie zone del suo corpo. Arrivato a chiamarsi Dottor Destino, Victor terrorizza New York ed è pronto a conquistare il mondo. Sarà solo grazie all’intervento dei Fantastici Quattro, in nome del gruppo composto da Reed, Sue, Johnny e Ben, che il nemico potrà essere fermato. Caratterizzato da buoni effetti speciali, un’ottima interpretazione da parte degli attori principali, in particolare nel caso di Chris Evans e Michael Chiklis, un’orecchiabile colonna sonora e una trama a tratti divertente e tutt’altro che noiosa, il film è adatto ad un pubblico di tutte le età e a chi desidera passare circa due ore di puro intrattenimento.
A New York, emblema del mondo contemporaneo dilaniato dalla violenza, un giovane poliziotto idealista si scontra con la dura realtà e provoca involontariamente la morte di una giovane collega.
Saga sull’America gangsteristica attraverso la storia di un famoso cabaret di Harlem (New York) tra il ’28 e il ’35 e due storie di amore tribolato, una bianca e una nera. Jazz e violenza. Con C’era una volta in America, è il miglior gangster degli anni ’80: ricco, generoso, energico, miracolosamente omogeneo. 3 o 4 personaggi memorabili e un 30 e lode per i costumi di Milena Canonero. Colonna musicale di Duke Ellington (con R. Gere che non si fa doppiare alla cornetta).
Il ricchissimo filone di film fantascientifici prodotti ad Hollywood (ma non solo, si pensi ad esempio al nipponico Godzilla) negli anni ’50 viene generalmente in una ristretta cerchia di capolavori del genere, come Ultimatum alla Terra e Il mostro della laguna nera da una parte, e dall’altra una infinità di piccole produzioni dalla qualità abbastanza scadente, realizzate sfruttando i set precedentemente attrezzati per film più importanti. In realtà, se andiamo a scavare bene a fondo nelle opere uscite al cinema in quel periodo, ci accorgeremo che c’è anche una tendenza “di mezzo”, cioè alcune pellicole che, pur non potendo essere assolutamente considerate artisticamente di livello, si distinguono dalla massa anonima di spettacoloni ingenui per tutta una serie di motivi.
Un esempio classico è proprio Destinazione… Terra!, in cui il regista Jack Arnold, uno dei capisaldi del cinema dell’orrore e della fantascienza insieme a John Carpenter, James Whale e Wes Craven, per la prima volta si cimenta in una produzione di questo genere. L’indiscutibile abilità di Arnold conferisce al film caratteristiche di cui i suoi contemporanei improvvisati sono completamente sprovvisti: prima di tutto l’impeccabile regia, in grado di mostrare ogni elemento dell’inquadratura con una vividezza che sorprende e affascina. I contorni sono marcati ed evidenti, il panorama (il deserto dei western) è qui sfruttato con maestria, a dimostrazione di come un regista capace sia in grado di servirsi con successo anche di materiali di scarto e non propriamente legati al genere di riferimento. Grande trovata anche la soggettiva dagli occhi, anzi dall’occhio, dell’alieno, e superba è la sequenza in cui la creatura esce dalla miniera, rivelandosi in tutto il suo orribile aspetto, emergendo piano piano dalle ombre e materializzandosi come puro incubo visivo. Inoltre va segnalato che Arnold per primo nella storia si servì dell’espediente narrativo, poi reso celeberrimo da Don Siegel ne L’invasione degli ultracorpi, di far assumere agli extratterestri la forma degli uomini con cui erano entrati in contatto. In ogni caso, la sola regia non basterebbe ad elevare questo film una spanna al di sopra di molti suoi simili… la vera genialità di Arnold sta nell’importante riflessione etica che viene proposta, e che in parte ricalca, almeno nella concezione che il regista ha degli alieni, il film di Robert Wise, nel quale, proprio come in questo, gli esseri venuti dallo spazio erano dei “visitatori” e non degli “invasori”; inoltre sono dotati non solo di una tecnologia superiore alla nostra, ma anche di una più profonda capacità di relazionarsi con gli altri, di accettare la diversità e di convivere con essa. Ecco dunque che Arnold cala all’interno di un cinema troppo spesso di mero intrattenimento una discussione intensa che si tramuta anche in denuncia dell’ottusità umana, della sbagliata paura dell’uomo nei confronti dell’ignoto, e del suo impulso istintivo a distruggere tutto ciò che non si può capire e dominare, anzichè cercare di comprenderlo. Gli alieni del film cercherebbero il contatto, ma sono consapevoli che l’umanità non è ancora pronta per un passo del genere. Il finale è un magnifico invito a superare tutti i pregiudizi razziali della nostra epoca, a liberarci dall’infondato e autodistruttivo timore del “diverso”, nella speranza che un giorno sia possibile il ritorno sul pianeta di una specie così superiore che potrà portare soltanto benefici agli uomini. Dunque il film esula dal semplice argomento narrativo per mostrarsi come una preghiera universale di tolleranza, amore e rispetto nei confronti degli altri, e questo è indice di grandezza e valore artistico.
Chicago, 1929. La bruna Velma Kelly, cantante/ballerina di vaudeville, e la bionda Roxie Hart, ballerinetta di fila, finiscono nello stesso carcere per omicidio. Billy Flynn, avvocato sottaniere senza scrupoli, assume la difesa di Roxie e riesce a farla assolvere rendendola celebre, mentre la fama di Velma si affievolisce. Scarcerate, fanno coppia in “Le belle assassine” con un successo strepitoso. Dal musical (1974) di Bob Fosse, Fred Ebb (testi) e John Kander (musica), adattato da Bill Condon, ispirato alla pièce Chicago ( The Brave Little Woman , 1926) della giornalista Maurine Dallas Watkins, basata sul delitto commesso a Chicago il 3-4-1924. 1ª regia per il cinema di R. Marshall, già ballerino e poi coreografo, pluripremiato con vari Tony (teatro) ed Emmy (TV), allievo e seguace di B. Fosse. 18 numeri musicali coincidono con gli episodi della vicenda dai precisi riscontri con i caratteri dell’epoca. Lo stile delle musiche di J. Kander (con aggiunte di Danny Elfman) è jazzistico-chicagoano, cioè spigoloso, spezzato, poco incline alla melodia, con echi di blues . Tutti gli interpreti, notevoli e funzionali, cantano con la propria voce anche se ne hanno poca come R. Gere. 6 Oscar (film, C. Zeta-Jones non protagonista, Martin Walsh montaggio, John Myhre e Gord Sim scene, Colleen Atwood costumi, sonoro) su 13 nomination.
Giappone, dalle parti di Hiroshima. Tre cugini adolescenti vivono con la nonna Kane. I ragazzi vestono in jeans, scarpe da ginnastica e sembrano davvero dei giovani americani. La vecchia naturalmente è del tutto diversa e anche se un suo fratello è emigrato negli Stati Uniti non può dimenticare la bomba atomica e suo marito morto proprio a Hiroshima nell’agosto del ’45. Kane ha un suo modo di intendere la vita e la memoria; è tradizionale, mistica e fantasiosa, e non intende altro che la sua terra e le sue tradizioni. Quando arriva dall’America a trovarla il nipote (Richard Gere, che nella versione originale ha recitato in giapponese) i ragazzi, entusiasti, lo accolgono e lo ascoltano. Quando giunge la notizia della morte del fratello di Kane, la vecchia, nel grande dolore, si pente di non essere andata in America a trovarlo per l’ultima volta. Lo shock è decisivo. Ricordi e sentimenti si intrecciano e Kane non trova più riscontri nella realtà. Tutto è inutile. Nella scena finale la vecchia fugge correndo sotto un temporale, reggendo l’ombrello che si rivolta nel vento, proprio come uno dei fiori citati in una canzone tradizionale giapponese. Indimenticabili certe scene fra parole e natura, e il grande occhio nel cielo, che nella fantasia di Kane rappresenta il destino, passato e proiettato, al quale non si sfugge, come non era sfuggito suo marito alla morte nucleare. Il film è stato presentato al Festival di Cannes. La lentezza iniziale è una licenza che si può concedere a un regista che non ha bisogno di ricorrere alle leggi delle sceneggiature attuali (polveroni iniziali) per farsi vedere.
Per l’uccisione dell’arcivescovo di Chicago (79 coltellate) è arrestato un ragazzo (Norton) che fa parte del coro. Indizi schiaccianti. Il più pagato avvocato della città (Gere) ne assume gratis la difesa. Epilogo a sorpresa. Legal thriller tratto da un romanzo di William Diehl. Efficiente congegno di indagine con tutti gli ingredienti regolamentari (sentimenti, sesso, perversioni) che tiene lo spettatore sulla corda dell’incertezza, sebbene un po’ prolisso quando depista l’attenzione con una seconda storia di taglio economico-sociale. Da tempo Gere non risultava così charmeur. Dirige con pulizia un regista che ha alle spalle molti premi Emmy televisivi per Hill Street giorno e notte e Avvocati a Los Angeles. Esordio del 25enne E. Norton.
Jackal (sciacallo) è il nome in codice di un killer (Willis) assoldato da un capo della mafia russa per assassinare un importante politico statunitense. Chi? In collaborazione con Koslova (Venora) dei servizi segreti di Mosca, il direttore dell’FBI (Poitier) recluta Mulqueen (Gere), ex terrorista dell’IRA in carcere, specialista in travestimenti, che ha i suoi motivi per odiare Jackal. Caccia difficile. La sceneggiatura di Chuck Pfarrer è liberamente ispirata a quella che Kenneth Ross cavò per F. Zinnemann dal romanzo Il giorno dello sciacallo di F. Forsyth, ma, come il film, gli rimane nettamente inferiore, più convenzionale, privo della sua fredda concisione. Si salva, comunque, il grintoso e ironico Willis.
A Brooklyn i poliziotti non sono tutti dei santi. C’è chi si è infiltrato troppo a lungo tra gli spacciatori e ora si è affezionato a quel criminale in cerca di redenzione che il distretto vuole incastrare, c’è chi non ha mai fatto nulla durante i suoi anni di servizio ma proprio nel primo giorno di pensione decide di agire da vero poliziotto e, infine, chi di fronte all’esigenza di comprare una casa nuova per evitare che la muffa della vecchia uccida moglie e figli è pronto ad uccidere e rubare.
In un’accademia militare americana sergente di colore fa vedere i sorci verdi alle sue reclute. Amoretti. Conciliazione finale. Un film della più bell’acqua reazionaria con un interessante parallelo tra vita militare e istituzione matrimoniale. Abbasso i conflitti di classe, viva i buoni sentimenti! Oscar per Gossett Jr. e per la canzone “Up Where We Belong” di Jack Nitzsche, Buffy Sainte-Marie e Will Jennings.
Parker Wilson, dolce e tranquillo insegnante di musica, trova alla stazione un cucciolo, lo porta casa e convince la famiglia recalcitrante ad adottarlo. Hachiko cresce, fedele compagno di giochi e di vita, accompagnandolo ogni giorno al treno delle 8 che prende per andare in città a lavorare, e aspettandolo a quello delle 5, quando torna a casa. Quando Parker muore d’infarto, il cane continua, ogni giorno, ad aspettarlo davanti alla stazione. Favola degli affetti, tratta da una storia vera accaduta in Giappone negli anni ’20: molto più credibile e adatta alla cultura nipponica, in Occidente è adatta quasi solo a cinofili convinti. Gere – anche produttore – è “zen” anche come interprete.
Julian Kay è uno squillo di lusso, lo stallone più pregiato di un’agenzia che procura compagnie maschili a ricche signore sole. Coinvolto in un omicidio di cui è ingiustamente sospettato, è salvato da una spregiudicata signora che si è innamorata. Ottimo a livello descrittivo, specialmente nella 1ª parte, s’ingolfa quando Schrader vuol mettere a fuoco i personaggi. Donatore d’amore come donatore di sangue? A pagamento, comunque. Finale ridicolo. Ha, comunque, molti estimatori tra la critica.
Il reporter newyorkese Ike Graham è in cerca di un’idea interessante cui dedicare il nuovo articolo della sua rubrica sul USA Today. Al pub dove solitamente trova ispirazione, fa la conoscenza di un uomo sconsolato che gli racconta di una donna che ha sistematicamente abbandonato all’altare ogni suo sposo nel giorno delle nozze. Il pezzo sulla “sposa in fuga” riceve un grosso richiamo e provoca le ire del suo stesso soggetto, Maggie Carpenter, che per pronta risposta scrive una lettera di protesta in cui denuncia le bugie e lo sciovinismo di Ike. Licenziato dalla sua editrice nonché ex moglie, Ike decide così di vendicarsi a suo modo, indagando sulle precedenti relazioni di Maggie e trasferendosi nella piccola cittadina del Maryland dove lei vive in attesa di sposarsi per la quarta volta. Alla favola di Pretty Woman mancavano solo scene da un matrimonio e marchio conclusivo “e vissero per sempre felici e contenti” per essere a tutti gli effetti una “Cenerentola a Los Angeles”. Dieci anni dopo, questo complesso da fede nuziale porta a riunire la squadra per dare sfogo alla carenza di confetti, fiori d’arancio e successi commerciali. Nozze di stagno, quindi, per la triade Garry Marshall, Julia Roberts e Richard Gere (con partecipazione collaterale di Hector Helizondo), e nuova commedia romantica che stavolta mette da parte Cenerentole e Pigmalioni, prostitute e My Fair Lady, per orientarsi nella tradizione screwball. La distanza sociale fra il mondo sotterraneo della prostituzione dell’Hollywood Boulevard e quello superattico dei finanzieri diviene distanza culturale fra cittadini newyorkesi e abitanti della campagna, mentre in primo piano assistiamo all’instaurarsi di una guerra dei sessi fra un cinico giornalista newyorkese e una country girl goffa e piena di insicurezze, ma capace di far breccia nel cuore di ogni uomo. Quel che Marshall purtroppo dimentica nel passaggio da un sottogenere rom-com all’altro, sono i principi della comicità: né il conflitto culturale, né quello amoroso hanno abbastanza verve e freschezza per uscire dai luoghi comuni della farsa, ed entrambi calano visibilmente man mano che le schermaglie lasciano il posto ai sentimenti. Ciò che funzionava in Pretty Womanè dunque esattamente quello che non funziona in Se scappi, ti sposo: la sofisticata leggerezza del primo, capace di rendere ironica e sognante anche la situazione più scabrosa, diviene sciatta faciloneria nel secondo. I due protagonisti vengono chiamati a sopperire performativamente alle debolezze dello script e ad esibire un’inedita fisicità (Gere si fa colorare i capelli e si cimenta in smorfie piacione, mentre Roberts si reinventa in comiche slapstick). L’aspetto deteriorato delle dinamiche di coppia si riflette anche negli altri invitati alla cerimonia (comprimari più validi con poco spazio come Joan Cusack e Helizondo e meno validi senza il senso del ridicolo come la nonna erotomane) e soprattutto in una serie di mediocri scelte formali che culminano nel rimontaggio finale di alcune inquadrature, brutto video di nozze di un matrimonio già in crisi.
1943: alcuni contingenti di truppe Usa sono in Inghilterra in attesa dello sbarco in Normandia. Un ufficiale e due sergenti si legano a tre giovani donne, una delle quali sposata con un militare che combatte in Asia. I rapporti fra le tre coppie sono contrastati dai familiari delle ragazze e dalla popolazione locale.
Due anni dopo la morte della moglie amatissima, un giornalista del Washington Post capita a Pont Pleasant (West Virginia) dove da tempo accadono strani fatti, in particolare l’apparizione di una gigantesca bestia alata (l’uomo-falena del titolo), seguiti da presagi e sogni premonitori di disgrazie mortali che culminano nel crollo dell’Ohio Silver Bridge (realmente avvenuto il 15-12-1967) con 47 morti. Scritto da Richard Hatem, anche coproduttore, basato sul libro (1975) di John A. Keel e ambientato alla fine del Novecento, è il 3° film, e il migliore, di Pellington che mette a frutto le sue passate ricerche di linguaggio per suggerire, senza mostrare mai con la truculenza dell’horror, i fenomeni paranormali a livello visivo (luci, colori, deformazioni delle immagini) e sonore (rumori, voci, suoni). In bilico tra reale e surreale, tra percezione soggettiva e dati obiettivi anche grazie a una sceneggiatura che evita gli stereotipi sentimentali nell’amicizia tra il protagonista e la bionda poliziotta locale. Girata con maestria non soltanto tecnica la catastrofe.
Due fratelli hanno ereditato dal padre una fattoria modello. Ma dopo qualche anno la fattoria è allo stremo (i debiti, la lavorazione su scala industriale che strozza le imprese a conduzione familiare). Piuttosto che cedere la proprietà alla banche, i fratelli la incendiano e si mettono a vivere come fuorilegge. Ma non può durare. Si dovranno arrendere ai tempi che mutano. Vigoroso, doloroso ritratto dell’America che sta per scomparire, tradita dalla “madre terra”. Ottimo Richard Gere. E ottima la regia di Sinise al suo esordio nel cinema.
Portata la pace a Camelot, re Artù intende sposare la principessa Ginevra, che accetta l’offerta. Il cavaliere rinnegato Malagant, desideroso di appropriarsi delle terre di Ginevra, cerca di catturarla, ma interviene Lancillotto, vagabondo abilissimo con la spada. Vincolata dai doveri e dalla stima per Artù, Ginevra diventa regina e fa nominare Lancillotto cavaliere, ma la scelta tra il maturo sovrano e il giovane eroe è difficile. Quando tutto sembra perduto, è il destino a risolvere la situazione. Connery è grande anche solo quando muove un sopracciglio, Gere è un inedito Lancillotto segnato da traumi infantili. In una variante storico-avventurosa del mito arturiano, Zucker ricrea l’atmosfera e i ritmi narrativi del grande cinema hollywoodiano, aiutato dalla trionfale colonna sonora di Jerry Goldsmith.
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