Quattro storie di truffe ambientate in quattro città diverse. Quattro episodi firmati da Roman Polański, Claude Chabrol, Ugo Gregoretti, Hiromichi Horikawa.
Los Angeles, 1937: investigatore privato scopre un omicidio collegato a un caso di corruzione pubblica e una terribile e scandalosa vicenda privata. È un film profondamente chandleriano senza Chandler, dunque foscamente romantico. Chandleriano è anche l’umorismo che ne sorregge il pathos nella descrizione di un mondo corrotto non solo politicamente in cui la presenza del male _ incarnato dalvegliardo capitalista J. Huston _ è ossessiva e sinuosa, mostruosamente ambigua. Pur senza abbandonarsi a esercizi di nostalgica archeologia, fece scuola nel campo della rivisitazione del cinema nero. 11 nomination (tra cui J. Nicholson e F. Dunaway) e Oscar per la sceneggiatura di Robert Towne. Seguito da Il grande inganno (1990) di J. Nicholson.
“E l’onnipotente lo colpì. E lo consegnò nelle mani di una donna”. È l’epigrafe di Venere in pelliccia , romanzo (1870) di Leopold von Sacher-Masoch, di tendenza erotica sadomasochistica, che un regista di mezza tacca sta cercando di mettere in scena in uno scadente locale periferico. Alle audizioni si presenta in ritardo Wanda, matura, volgare, malvestita più sado che maso, tutto il contrario di quella che il regista cercava. E poco alla volta tutto si mescola, realtà e finzione, i ruoli si capovolgono, regista e attore ma anche dominatore e dominata, uomo e donna. È un gioco di specchi – di nuovo di stampo teatrale – in cui Polanski fa recitare alla Seigner (sua moglie nella vita da 24 anni) molti ruoli in uno e Amalric (suo alter ego) le tiene testa, battuta dopo battuta, situazione dopo situazione. Humour grottesco, attori giusti, splendida fotografia (Pawel Edelman).
Inghilterra, alla fine dell’Ottocento. Appassionata storia d’amore in forma di ritratto in piedi di una ragazza di campagna che cerca di dimostrare le sue nobili origini, ma finisce per ritrovarsi con un figlio illegittimo. Si ribella, uccide il seduttore, è punita. Dal romanzo Tess dei D’Urbervilles (1891) di Thomas Hardy. Tre temi centrali: natura, amore e destino. Lungo ma non prolisso. Troppo decorativo, sebbene squisito, nell’ultima parte trova la sua giusta combustione drammatica. Manca di sensualità e di slanci lirici. 3 Oscar: fotografia (Geoffrey Unsworth e Ghislain Cloquet), scene, costumi. Restaurato dalla Cineteca di Bologna.
Se c’è chi pensa che il detto “si nasce rivoluzionari e si muore conservatori” valga per il Roman Polanski che “illustra” (come alcuni hanno scritto) “Oliver Twist” di Dickens non si illuda. Il regista di Rosemary’s Baby e di Il coltello nell’acqua ha conservato intatto il proprio sguardo attento agli angoli oscuri della società e della psiche. Uno sguardo mediato dall’esperienza di Il pianista e proprio da quel film di successo stimolato a rivisitare il proprio passato di bambino salvatosi dal ghetto di Cracovia con la madre uccisa ad Auschwitz. Lo fa per l’interposta persona di uno dei personaggi più famosi dell’universo dickensiano, quell’Oliver Twist che ha già costituito una fonte di ispirazione per il cinema. Polanski legge la vicenda narrata dal grande autore inglese immergendola in una miseria materiale e morale quasi palpabile. Osservate l’illuminazione del film: è dominata da un buio sporco, per nulla gotico ma carico invece delle scorie prodotte dall’abbrutimento dell’essere umano al contempo carnefice e vittima nel tragico incedere dell’industrializzazione forzata. La luce di una bella giornata di sole è un fatto quasi incidentale, secondario, non “normale”. Così al centro della storia sono sì le vicende dell’innocente orfanello costretto a far parte di una banda di ladri organizzati. Ma chi gli ruba il proscenio è Fagin nell’interpretazione magistrale che ne dà un irriconoscibile Ben Kingsley. È lui, padre e padrone della banda di ladruncoli, che detta i ritmi della vicenda con il suo corpo laido che percorre le stanze e le vie del degrado umano ricordando a tratti le caricature infami con cui i nazisti dileggiavano gli ebrei.
Delphine è l’autrice di un romanzo dedicato a sua madre che è diventato un best seller. La scrittrice riceve delle lettere anonime che l’accusano di avere messo in piazza storie della sua famiglia che avrebbero dovuto rimanere private. Turbata da questa situazione Delphine sembra non riuscire a ritrovare la volontà per tornare a scrivere. C’è però un’appassionata lettrice che entra nella sua vita. Sembra riuscire a comprenderla e a sostenerla in questo momento difficile con la sua capacità di intuizione e con il suo charme tanto da divenirle così necessaria da invitarla a condividere il suo appartamento. Sarà una buona scelta?
Raccolto da un galeone spagnolo dopo un naufragio, il temibile pirata Capitan Red scopre che sulla nave c’è un prezioso trono azteco. Con l’aiuto del suo mozzo, Ranocchio, decide di impossessarsene. Tornato alla regia dopo un’assenza di 8 anni, Polanski ha cucito un film divertente, simpatico e sardonicamente irrispettoso, senza abusi di effetti speciali né tendenze al gigantismo hollywoodiano, ma con un nucleo centrale irrisolto, una opacità di fondo che probabilmente dipende dall’incapacità di Polanski di adeguarsi allo spirito e ai ritmi della commedia, se non volgendoli al grottesco.
Dean Corso, esperto di libri antichi, è assunto dal collezionista Boris Balkan, studioso di occultismo che possiede una copia del volume Le nove porte del regno delle tenebre (1666), scampata ai roghi dell’Inquisizione. Ne esistono altre due e sospetta che una delle tre sia falsa. Quale? Il viaggio-inchiesta che porta Corso da New York in Europa è funestato da segni inquietanti e morti misteriose. Dal romanzo El Club Dumas (1993) di Arturo Pérez-Reverte, adattato con Enrique Urbizu e John Brownjohn, è derivato un film polanskiano a 18 carati. Storia di una investigazione (forse l’unica sullo schermo) imperniata su un libro e impregnata di soprannaturale, è un film laico sulla falsità delle apparenze e delle credenze che non si preoccupa più di tanto di prendere le distanze dalla sua materia perché “preferisce la reticenza, l’affidarsi all’intelligenza dello sguardo più che alla visione” (G. Cremonini). Tolto il debole finale, la costruzione narrativa è ingegnosa.
In occasione di un congresso medico gli americani Sondra e Richard ritornano a Parigi e festeggiano vent’anni di matrimonio. La donna sparisce. Il marito inizia una disperata ricerca. Il miglior film francese dell’anno, secondo un sarcastico critico parigino. Come altri Polanski, questo thriller raffreddato e sotto le righe comunica una forte impressione di solitudine. Una volta tanto, l’accostamento a Hitchcock è legittimo: la situazione del protagonista, uomo comune incastrato per caso in un intrigo criminoso; il clima inquietante creato con piccoli tocchi e risultati di una suspense psicologica e ambientale, non mai meccanica; la sequenza sul tetto col tema della vertigine; la spoletta che è il McGuffin (il pretesto) dell’incubo. Ricco di una lunga esperienza parigina, Polanski mette qualche veleno nella descrizione della sgradevolezza dei francesi.
È il miglior film di Polanski nella sua vecchiaia. Robert Harris riconosce che, almeno per la struttura, il film è superiore al suo romanzo (2007), da lui adattato col regista. Adam Lang, ex premier britannico, ha scritto un libro di memorie che, giudicandolo noioso, l’editore ha affidato a un “negro” che muore annegato: incidente? suicidio? Gli subentra un altro ghost writer (senza nome) che diventa subito un sopravvissuto con la morte alle calcagna, coinvolto in un inconoscibile complotto alla Hitchcock. L’azione del film si svolge in un’isola sulla costa orientale degli USA, dove l’ex premier risiede con la moglie, la segretaria-amante e un agguerrito servizio di sicurezza. In un thriller politico intessuto di inganni e tradimenti a ogni livello emergono 3 temi polanskiani: la diffidenza per ogni potere pubblico, l’isolamento e l’acqua, da lui associata alla minaccia, alla morte, al male. Ritornano la sua predilezione per i perdenti, il gusto per le atmosfere psicologiche, la capacità di far scaturire dalla realtà l’ambiguità inquietante, l’infallibile direzione degli attori: McGregor e Brosnan non hanno mai avuto personaggi così “importanti”. E la Williams non è mai stata così espressiva. Fotografia: il polacco P. Edelman. Orso d’argento a Berlino 2010 per la regia.
Da una pièce del cileno Ariel Dorfman. In un paese latinoamericano da poco tornato alla democrazia, 15 anni dopo essere stata seviziata e torturata dalla polizia segreta, Paulina Escobar (Weaver) crede di riconoscere in un medico (Kingsley) uno dei torturatori. Lo cattura, lo immobilizza, lo processa, affidandone la difesa al proprio perplesso marito avvocato (Wilson). Epilogo amaro in una sala da concerto dove il Quartetto Amadeus esegue il Quartetto n. 14 in re minore di Schubert ( La morte e la fanciulla ). Film a suspense in chiave di ambiguità, con due modifiche rispetto al testo teatrale. Oltre ai motivi politici di fondo, sono presenti temi cari a Polanski: l’interscambiabilità dei ruoli tra vittima e carnefice, la dialettica tra disperazione e speranza, la relazione tra forza e vulnerabilità (Paulina), il passaggio tra amore, sesso e odio, la nozione di un destino immodificabile. Cinema da camera a porte chiuse con due brevi escursioni all’aperto: il mare e l’acqua sono figure ricorrenti nei film di Polanski. Avete sentito parlare della banalità del male?
Rosemary Woodhouse (Farrow) sospetta una congiura demoniaca contro la creatura che porta in grembo, organizzata con la complicità del marito attore (Cassavetes) dagli arzilli Castevet (Gordon e Blackmer), coinquilini-stregoni mimetizzati negli abiti della borghesia di New York. Realtà o psicosi? Il polacco R. Polanski – al suo 1° film made in USA dopo 3 britannici – affascinato dal senso di mistero che serpeggia nel romanzo di Ira Levin, ne cava un memorabile esempio di cinema della minaccia e ripropone il tema dell’ambiguità fino a farne la struttura portante della narrazione. È “un incubo cinematografico dove la possibilità di orientarsi tra fantastico e reale è persa sempre, mentre resta a dominare la scena la sensazione di angoscia ridotta al grado zero e perciò ancor più inquietante” (S. Rulli). Oscar per R. Gordon. Prodotto da William Castle per la Paramount, nel 1976 ebbe un seguito TV di nessun interesse.
Nella Scozia dell’anno Mille Macbeth prende il posto del sovrano legittimo dopo averlo assassinato. Deve uccidere i testimoni del delitto e poi figli e amici di quanti ha ucciso prima. Con l’aiuto di Kenneth Tynan, Polanski ha avuto due belle intuizioni nella trasposizione di Shakespeare: fare di Macbeth e sua moglie una coppia di giovani mediocri, quasi piccoloborghesi; capire che i re di Scozia erano dei bútteri e vivevano in rustici casolari. C’è la violenza, anche in eccesso, ma non la nera poesia della disperazione del testo. E i due giovani interpreti non sono all’altezza. Fa macchia il McDuff di Bayley. Il dramma fu portato sullo schermo 9 volte all’epoca del muto e 9 volte (comprese le edizioni televisive) nel sonoro.
Storia di un incubo in forma di interrogatorio al quale lo scrittore Onoff (Depardieu), apparentemente in preda all’amnesia, è sottoposto da parte di un commissario di polizia (Polanski). Fin dal titolo il 4° film di Tornatore è sotto il segno dell’ambiguità: oltre al suo significato di gergo burocratico-poliziesco, potrebbe essere letto come un esercizio di pura forma, ossia di stile, che mette in discussione lo statuto di credibilità delle immagini: qual è il confine tra fantasia e realtà? tra falso e vero? Allucinato dramma notturno di nordico onirismo, giocato sulla corda pazza dell’assurdo, è un film da prendere o lasciare, senza vie di mezzo. Chi prende ne gusterà la sagacia della costruzione, l’alta tenuta figurativa e sonora (fotografia di Blasco Giurato, musiche di Ennio Morricone), l’ammirevole concertazione degli attori: oltre a Depardieu e Polanski (doppiati da Corrado Pani e Leo Gullotta), c’è un incisivo S. Rubini come poliziotto che verbalizza.
Gennaio del 1895, pochi mesi prima che i fratelli Lumière diano vita a quello che convenzionalmente chiamiamo Cinema, nel cortile dell’École Militaire di Parigi, Georges Picquart, un ufficiale dell’esercito francese, presenzia alla pubblica condanna e all’umiliante degradazione inflitta ad Alfred Dreyfus, un capitano ebreo, accusato di essere stato un informatore dei nemici tedeschi. Al disonore segue l’esilio e la sentenza condanna il traditore ad essere confinato sull’isola del Diavolo, nella Guyana francese. Il caso sembra archiviato. Picquart guadagna la promozione a capo della Sezione di statistica, la stessa unità del controspionaggio militare che aveva montato le accuse contro Dreyfus. Ed è allora che si accorge che il passaggio di informazioni al nemico non si è ancora arrestato. Da uomo d’onore quale è si pone la giusta domanda: Dreyfus è davvero colpevole?
Palma d’Oro, ex aequo, al Festival di Cannes. L’originale regista di Sweetie e Un angelo alla mia tavola debutta nel grande cinema ufficiale. Ciò comporta co-produzioni, grandi nomi, capitali cospicui e una storia di buona presa per il pubblico.Ma la Campion mantiene intatta la sua personalità di autrice. Purtroppo la bravura tecnica questa volta sfiora il manierismo. Ancora una volta la protagonista è una donna con problemi di comunicazione con gli altri. È muta, vedova con una figlia, e per convenienza familiare deve sposare uno sconosciuto. Si trasferisce con lui in un’isola sperduta in Nuova Zelanda. Non le è concesso di suonare il piano, sua unica consolazione. Ma con l’aiuto di un uomo all’apparenza rozzo, in realtà molto sensibile, il suo desiderio sarà esaudito. Tra loro nasce un particolare idillio che farà uscire di senno il marito. Dopo colpi di scena degni di un melodramma, il lieto fine è d’obbligo.
Torna l’Olocausto, e per mano di un “autore”. Pareva che Spielberg avesse detto l’ultima parola, invece ecco una storia sul ghetto di Varsavia. Siamo nel ’38.Comincia a stringersi la tenaglia nazista che produrrà le prime limitazioni per gli Ebrei: prima leggere -la stella di Davide cucita sul braccio- poi pesanti, poi intollerabili, poi mortali. Fino alla decimazione. Wladyslaw, giovane, talentoso pianista, sta suonando Chopin per una registrazione radiofonica proprio mentre arriva la notizia dell’invasione nazista della Polonia. Il giovane assiste all’orribile spirale: tutta la famiglia deportata e poi le condizioni del ghetto: bambini che muoiono di fame, gente uccisa per nulla, e una piccola parte di ebrei che tradiscono per sopravvivere. Alla fine Wladyslaw è di nuovo al piano, proprio come all’inizio. Ma naturalmente l’esperienza lo ha devastato. Niente, neppure Chopin sarà più come prima. Il film ha vinto la Palma d’oro al festival di Cannes 2002. Molti hanno disapprovato.
Un film di Roman Polanski. Con Hugh Griffith, Marcello Mastroianni, Sydne Rome, Carlo Delle Piane, Romolo Valli. Titolo originale What?. Commedia, durata 112 min. – Italia 1972. MYMONETRO Che? valutazione media: 3,11 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Giovane e bella giramondo americana si ritrova casualmente in una sfarzosa villa sull’isola di Capri. Accolta senza alcuna cerimonia, Nancy viene a contatto con i curiosi e ambigui individui che popolano la residenza estiva. Un mondo a testa in giù in cui il tempo e le convenzioni borghesi sembrano bandite. Unico legame con la realtà il suo inseparabile diario.
Se esiste un condimento a cui Polanski non ha mai saputo rinunciare nella sua cucina cinematografica, questo è il grottesco. Presente in ogni suo titolo – anche nelle pellicole d’atmosfera come Rosemary’s Baby o Chinatown – nelle commedie surreali che vanno da Cul de Sac fino a Per favore, non mordermi sul collo, il gusto per l’assurdo trova qui il suo apogeo. View full article »
Un film di Roman Polanski. Con Kristin Scott Thomas, Peter Coyote, Hugh Grant, Emmanuelle Seigner, Victor Banerjee Titolo originale Bitter Moon. Drammatico, durata 139 min. – Francia, Gran Bretagna 1992. MYMONETRO Luna di fiele valutazione media: 3,33 su 22 recensioni di critica, pubblico e dizionari
Dal romanzo di Pascal Brukner. Due coppie si incontrano su una nave in crociera per l’India: Nigel e Fiona, Oscar e Mimì. Nigel è un manager piuttosto convenzionale; sua moglie sembrerebbe la sua perfetta omologa, almeno in apparenza. Oscar è su una sedia a rotelle: è un cinico e depravato scrittore americano fallito che vive a Parigi. Mimì è bellissima, parigina e magica, fa sparire le altre donne. Oscar si accorge che Nigel mira a sua moglie e lo incoraggia, ma “in cambio” dovrà ascoltare tutta la sua storia, come fosse un analista. View full article »
Un film di Roman Polanski. Con Josiane Belasko, Jacques Rosny, Maïté Nahyr, Patrice Alexsandre, Serge Spira, Jacky Cohen, Eva Ionesco, Dominique Poulange, Louba Guertchikoff. Titolo originale Le locataire. Commedia, durata 125 min. – Francia 1976. MYMONETRO L’inquilino del terzo piano valutazione media: 3,83 su 37 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Trelkovski, modesto impiegato di origini polacche, prende possesso a Parigi di un appartamento la cui inquilina precedente, Simon Chule, si è uccisa buttandosi dalla finestra. O, sarebbe meglio dire, è l’appartamento stesso a prendere possesso dell’uomo. Circondato da inquietanti e grotteschi vicini, Trelkovski scopre nell’appartamento orribili tracce dell’ex-inquilina e finisce progressivamente in un tunnel di follia che lo conduce al totale sdoppiamento di personalità nella ragazza.
Tratto dal romanzo “Le locataire chimerique” di Roland Topor, è il decimo lavoro di Polanski e sicuramente il più kafkiano, grazie alle atmosfere claustrofobiche e grottesche che inchiodano lo spettatore a questo condominio popolato di personaggi che sembrano parenti dei vicini di casa di Rosemary Woodhouse. View full article »