Un marinaio siciliano comunista deve sottostare ai capricci della padrona, la viziata moglie di un industriale milanese, ma quando lo yacht naufraga in un’isola deserta lui si prende la sua rivincita.
Un siciliano, licenziato a causa delle sue idee politiche, grazie all’intervento della mafia trova lavoro come metallurgico in una fabbrica di Torino. Qui diventa amante di una ragazza che gli dà un figlio; al suo ritorno a casa, scoprendo che la consorte è incinta di un brigadiere, ne seduce la moglie per vendetta.
Tre storie, commissionate ad altrettanti famosi registi, sul tema unico della città dalle mille luci. Woody Allen è un maturo mammone oppresso da una genitrice, che pretende di scegliergli anche la moglie. Nick Nolte, un pittore in crisi creativa per l’abbandono della sua modella amante. Infine Giancarlo Giannini e Talia Shire, coniugi divorziati vengono riavvicinati dalla figlia piccola.
Ritratto di una vittima che finisce per diventare un mostro. Nella Napoli del 1936 un giovane proletario uccide il seduttore di una delle 7 (brutte) sorelle, è rinchiuso in un manicomio criminale da cui esce come volontario di guerra, finisce in un lager tedesco e diventa kapò. Rientrato a Napoli, trova madre e sorelle che si sono rimpannucciate con la prostituzione. 8° film di Wertmüller e uno dei suoi migliori, è un’analisi feroce della filosofia della sopravvivenza a ogni costo: la vitalità di Pasqualino è mortuaria. In misura minore, gli eccessi e i difetti della regista sono presenti anche qui, ma compensati dall’aggressiva felicità del linguaggio, dalla ricchezza delle invenzioni (cui contribuiscono le scene di Enrico Job, suo marito, e la fotografia di Tonino Delli Colli), dall’ottima direzione degli attori. Molti premi internazionali tra cui 4 candidature agli Oscar (regia, sceneggiatura, G. Giannini attore protagonista, miglior film straniero) negli USA dove fu distribuito come Seven Beauties . Giannini maiuscolo. Musiche di E. Jannacci. Circola anche in copie di 93 minuti.
Sotto i segni della precarietà e della morte e in cadenze di melodramma disperato, è la storia di un naufragio. Ritratto di Daniele Dominici, professore di letteratura, angelo caduto e insabbiato, che arriva al capolinea della sua vita in una Rimini invernale. S’innamora di Vanina, sua allieva, vaso d’iniquità nel guscio di un’insondabile malinconia. C’è un eroe “maledetto” (memorabile il cappotto di cammello dell’intenso A. Delon), c’è un ambiente, un’atmosfera, ci sono i personaggi di contorno (tra cui spicca un ottimo G. Giannini), c’è una scrittura. Qualcosa di ridondante nella 2ª parte – la descrizione dell’ignobile verminaio provinciale cui si contrappongono le sortite verso i cieli di uno spiritualismo cristiano – impedisce la piena ammirazione. Scritto con Enrico Medioli, il 7° e penultimo film di Zurlini conta sulla raffinata fotografia di Dario Di Palma, le musiche (troppe trombe) di Mario Nascimbene, le scene di Enrico Tovaglieri. Prodotto da Titanus, coproduttore A. Delon che scorciò di 27′, modificandone il montaggio, l’edizione francese ( Le Professeur ). Restaurato nel 2000 da Philip Morris.
Dopo i remakes dei film francesi ora gli americani hanno deciso di metter mano anche alle sceneggiature italiane. Questo film è infatti tratto, come l’omonimo film di Dino Risi, da Il buio e il miele di Giovanni Arpino. Solo che l’ambiente è New York. Frank Slade, tenente colonnello, si fa scortare da un giovane studente nei guai col proprio preside. Un po’ burbero e un po’ insofferente l’uomo è deciso a finire in bellezza la propria vita. Così ha scelto Manhattan per ubriacarsi di follie prima del suicidio. E se nel film di Risi è l’amore che gli fa cambiare idea, qui è il senso di protezione per il ragazzo, che difende davanti al preside del college. Grande interpretazione di Pacino, anche se piuttosto marcata, premiato con l’Oscar. Doppiato da Giancarlo Giannini. Martin Brest, già regista di Un piedipiatti a Beverly Hills, è invece piuttosto manierato.
Nell’anno 10191 la galassia è completamente popolata dall’uomo, che si sposta da un pianeta all’altro grazie alle facoltà psicocinetiche dei piloti della Gilda spaziale, sviluppate da una droga, il melange, che può essere raccolta su un solo pianeta in tutto l’universo: l’arido e sabbioso Arrakis, soprannominato “Dune”. In un complesso gioco di potere, l’imperatore Shaddam IV alterna la concessione dello sfruttamento di Arrakis tra le varie casate della sua corte. Quando nel controllo di Dune subentra il duca Leto il giusto, capo della famiglia Atreides, il crudele barone Harkonnen, con il segreto appoggio dall’imperatore, trama la sua rovina. Un attacco a tradimento stermina il clan ed all’eccidio scampa soltanto Paul, il figlio di Leto. Fuggendo nel deserto di Arrakis, il giovane si imbatte nei Fremen, reietto popolo delle sabbie, che vive nell’attesa di un misterioso salvatore, preannunciato da una profezia. Col nome di Muad’Dib, Paul assume il comando dei Fremen, guidandoli alla vittoria nella lotta contro gli Harkonnen, che si sono impadroniti di Dune, e finirà per rivelarsi il Kwisatz Haderach delle profezie, l’essere supremo cui tutti, compreso lo stesso imperatore, dovranno inchinarsi.
Nuova trasposizione del bestseller di Herbert, che gode del vantaggio di svilupparsi nell’arco di tre puntate Tv, di circa un’ora ciascuna. La maggiore lunghezza ha permesso un approccio più razionale ed approfondito alle tematiche del ponderoso romanzo, consentendo di rappresentare più compiutamente il quadro politico, economico e sociale in cui si snoda la vicenda, rendendola in definitiva più comprensibile a quella parte di pubblico che non conosce l’opera letteraria. Splendida la fotografia di Vittorio Storaro e molto curate le scenografie, considerato anche il budget a disposizione. Improponibile invece il confronto con il cast assolutamente stellare del Dune di Lynch, eccezion fatta per William Hurt/Duca Leto, e Giancarlo Giannini/ Padisha Shaddam IV, nei ruoli che furono rispettivamente di Jürgen Prochnow e José Ferrer. Distribuito anche con il titolo Frank Herbert’s Dune, e in Germania come Frank Herbert’s Dune – Der Wüstenplanet.
Oreste (Mastroianni) s’innamora di Adelaide, bella fioraia. Tutto fila liscio finché appare sulla scena Nello (Giannini), pizzaiolo toscano. Costei vorrebbe barcamenarsi tra i due, ma Oreste non approva. Affresco di Scola che, scavando in profondità sotto le manifestazioni della società del benessere, vorrebbe, con una storia popolare, riallacciarsi al neorealismo. La trovata di Age & Scarpelli di ricorrere agli stereotipi della sottocultura popolare (fotoromanzi, canzonette, ecc.) nei dialoghi ha un’innegabile efficacia comica, ma si presta a molte riserve etico-estetiche. Molte risate, bravissima la Vitti. Lanciò Giannini come attore comico.
Traffichino dalle scarpe spaiate è incaricato dalla moglie di un operaio dell’Italsider di trovare il marito scomparso. Nella sua traversata del ventre di Napoli lo attendono sorprese. Commedia grottesca in cui la denuncia sociale sul degrado di Napoli ha cadenze di farsa, ma sfora nel fantastico sociale e ricorre alle tecniche dell’investigazione. Scritto da Elvio Porta con il regista. Musiche di Tullio De Piscopo e Pino Daniele.
Tra anziano camionista lombardo e giovane autista siciliano nasce una società “in proprio” e un’amicizia. Le impennate bizzarre in un contesto umoristico greve non giovano alla riuscita del film. Giannini ripete in pratica il personaggio di Mimì metallurgico.
Scritto da Paul Attanasio e basato sul libro My Undercover Life in the Mafia di Joseph D. Pistone. Pistone, agente dell’FBI si infiltra in un’organizzazione mafiosa di Little Italy come Donnie Brasco, ricettatore di gioielli, e conquista la fiducia di Lefty, anziano mafioso e manovale del crimine. Tra i due nasce un’amicizia impossibile, destinata a una tragica fine. Ha fatto centro il neozelandese M. Newell, attivo dal 1976 nel cinema britannico, con questo suo 1° film hollywoodiano: dopo il successo di Quattro matrimoni e un funerale si cimenta con un mafia movie diverso dagli altri, privo di sangue e violenza (se si toglie una sequenza verso la fine, fulminea e atroce), di ammirevole definizione psicologica, accurato nei particolari e nelle sfumature. L’epilogo è di una malinconia struggente, ma anche uno dei più lucidi dell’ultimo cinema americano: entrambi i personaggi sono strumenti e vittime delle istituzioni cui appartengono. Straordinario Pacino, ottimamente doppiato ancora una volta da Giancarlo Giannini; Depp (con la voce di Riccardo Rossi) si conferma a 33 anni come l’attore più duttile ed espressivo della sua generazione.
Dai romanzi Carlito’s Way (1975) e After Hours (1979) di Edwin Torres. Ambientato nel 1975 a Harlem, il ritratto di Carlos Brigante, malavitoso portoricano che tenta invano di cambiare vita, la traiettoria di un destino che ha per traguardo una morte violenta. Almeno 4 sequenze di rilievo in questo opus n° 22 di B. De Palma, uno dei suoi migliori, tutto narrato in flashback; 2 forti interpretazioni di A. Pacino (doppiato benissimo da Giancarlo Giannini) e S. Penn, una sapiente sceneggiatura di David Koepp. Unico difetto di questo film neoromantico, vicino al noir più che al gangster: il convenzionale tema nostalgico della malavita che “non è più quella di una volta”.
Processata per omicidio preterintenzionale del coniuge Gino (G. Giannini), la proletaria Tina Candela (M. Vitti) fa la propria autodifesa, ascoltata con interesse da una giurata popolare (C. Cardinale), moglie in un ingegnere intrallazzatore (V. Gassman). Tutto si risolve con la ricomparsa di Gino. Scritta con Francesco Scardamaglia, la commedia è venata di grottesco ma, pur proponendosi di denunciare vizi e storture della società, si risolve in una compiaciuta e furbesca assoluzione. Conferma, comunque, l’interesse per la condizione femminile che il regista aveva espresso con maggiore sottigliezza in Certo, certissimo… anzi possibile. Uno dei successi della stagione 1975-76.
Gabriele ha vissuto un’infanzia e un’adolescenza difficili. Figlio di una relazione extraconiugale, al momento della morte della madre si trasferisce con il neonato fratello Martino nella casa del padre. Costui, proprietario di una vetreria, impone la loro presenza agli altri due figli. Le tensioni non mancheranno e sfoceranno nella fuga di Gabriele. Ora, divenuto responsabile di una casa d’aste parigina, potrebbe vendicarsi dei fratellastri. All’ultimo momento rinuncerà. Giacomo Campiotti, alla sua seconda prova, realizza uno dei film più interessanti del cinema italiano della prima metà degli anni Novanta. Riesce a fondere sapientemente il racconto popolare con la raffinatezza di stile e la ricerca del dettaglio. La sua attenzione ai problemi della crescita trova in attori non professionisti dei validi collaboratori che sanno tener testa alla grande professionalità di Giannini e a un Fabrizio Bentivoglio che si conferma come uno degli attori più versatili del panorama italiano.
Dolorosa istoria della dodicenne sicula Rosa, figlia di un maniscalco alcolista: violentata da un gerarca fascista, finisce in riformatorio; maggiorenne, ritrova la madre fedifraga, la “vipera” del titolo, e forse il figlio che le fu tolto di forza e che fa il cantastorie. Il più anomalo e marginale dei cineasti italiani ha fatto il suo film più freak e meno consolatorio con 2 novità: l’ambientazione siciliana ai tempi di un’Italia ormai dimenticata, ma storicamente connotata e asse portante della nerissima favola, la maternità. La 1ª parte – la migliore – coincide con un soggetto ( La pietà di una cosa ) pubblicato nel 1989; nella 2ª si ha “l’impressione di assistere a un discorso privato, che segue una logica sua, lasciando in campo solo simboli che faticano a comunicare” (A. Pezzotta). Nemmeno l’esperta mano del cosceneggiatore V. Cerami v’ha posto rimedio. Melli, la “vipera”, è anche produttrice.
Un giovane, dotato, spregiudicato avvocato della Florida (K. Reeves) accetta un’allettante proposta di uno studio legale di New York, guidato da John Milton (A. Pacino) e si rende conto di aver venduto l’anima al diavolo. Letteralmente. Da un romanzo di Andrew Neiderman _ con la fotografia del polacco Andrzej Bartkowiak, le scene di Bruno Rubeo, gli effetti visivi di Richard Greenberg e i demoni disegnati da Rick Baker _ è uscito un filmone difficile da catalogare: horror giudiziario? farsa orrorifica? parabola faustiana? Nel suo toccare antichi e nuovi temi religiosi (con frequenti citazioni dell’Apocalisse giovannea) la materia del film è ambiziosa e rischiosa: il sublime confina col ridicolo, e spesso ci sprofonda. Non bastano gli effetti speciali per fare un buon film fantastico. Vien voglia di leggere il romanzo: i dialoghi sono forse la componente più interessante del film, e Pacino _ doppiato da Giancarlo Giannini _ li dice con un potente istrionismo ben temperato.
Nel 1938 a Zurigo una giovane cantante tedesca ama un musicista ebreo. La guerra li separa. La cantante, tornata in Germania, diventa famosa grazie alla canzone “Lili Marleen”. A guerra finita si reca a Zurigo dove trova l’amato Robert sposato. Ispirato al romanzo autobiografico della cantante Lale Andersen Il cielo ha molti colori , il film apre idealmente la quadrilogia fassbinderiana sulla Germania in forma di un cinemelodramma in cui è difficile distinguere dove finisce il Kitsch nostalgico perseguito con voluttuoso accanimento e dove comincia la bischeraggine invereconda. La vera ragione di vederlo è la Schygulla. La famosa canzone (scritta nel 1916, musicata nel 1930 e registrata nel 1938) ha ispirato altri 3 film: 2 britannici (1952, 1970) e uno tedesco (1956).
Figlio trentacinquenne timido del sarto pontificio (Giannini) e ignaro di donne, Nello Balocchi (Marcorè) è mandato dal padre a insegnare latino e greco nella carnale Bologna dove s’innamora di Angela (Incontrada), ricca, bella, incostante e non vedente che, pur col cuore altrove, gli corrisponde. Epilogo malinconico. Tentativo soltanto in parte riuscito di coniugare la vena elegiaca con quella romanzesca, il 28° film di P. Avati ridonda: nella timidezza di Nello; nel macchiettismo romanesco di Giannini; in inverosimiglianze di sceneggiatura; nell’idealizzazione; nell’amore per la Bologna del tempo che fu. Il nostalgico Avati ha dimenticato che “la nostalgia spesso si alimenta, più che dei ricordi, di amnesie” (G. Pontiggia). Del nucleo della storia rimangono la notte d’amore e l’incontro finale, ma non mancano invenzioni bizzarre e notazioni curiose. Fotografia del fido Pasquale Rachini, musiche di Riz Ortolani. Premio Donatello per la regia. Nastro d’argento a Marcorè.
Un sadico assassino immobilizza le sue vittime con una droga e poi le seziona ancora coscienti, imitando la tarantola. Un commissario e un poliziotto privato individueranno il colpevole.
Il bancario Guido (Giannini), sposato con figli, si reca in auto da Roma a Rosignano Solvay (LI) al capezzale del padre morente e mette a frutto la trasferta rimorchiando una turista americana (Hawn). Arrivato a destinazione tira fuori gli scheletri dall’armadio di famiglia. Ideata per Fellini da Tullio Pinelli al tempo di La dolce vita , la storia è stata riscritta dal regista con i fidi Benvenuti e De Bernardi. La parte del viaggio è la più divertente, ma anche la più scontata. Dopo aver preso quota nella descrizione dell’ambiente familiare, il finale è all’insegna della demagogia e del moralismo. La responsabilità è anche di Giannini, troppo abituato ad aggredire i personaggi invece di accoglierli in sé. Appena enunciato uno dei temi di fondo, il legame tra Eros e Thanatos.
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