Quattro sbandati fanno una rapina allo stadio portando via tutto l’incasso di una partita di calcio. Interviene la polizia. È uno dei meno riusciti film del primo periodo di P. Germi. Debole nelle scene d’azione, frana e si disperde per un sovraccarico di moralismo edificante.
Sulla piazza del mercato, ai tavolini del caffè, siedono gli uomini che guardano le donne. Sono un coro variegato di borghesi veneti, professionisti del perbenismo di facciata, cattodemocristiani protetti in qualche modo dall’alto, che cadono sempre in piedi. C’è Toni Gasparini, che confessa al dottor Castellan il suo problema di impotenza, suscitando nel medico la fregola irresistibile del pettegolezzo. Così, mentre gli amici ridono alle sue spalle, il Gasparini ride di più, nel letto della moglie del dottore, al quale aveva dato a credere una bugia bella e buona. Poi c’è Bisigato, impiegato di banca, afflitto da una moglie insopportabile, che crede di poter cominciare una nuova vita con Milena, una giovane cassiera, ma non fa i conti con i presunti amici e con il tabù della separazione coniugale. E poi c’è Benedetti, il venditore di scarpe, che adocchia una bella ragazza di campagna e le fa fare generosamente il giro di tutti i suoi compari. Peccato che la ragazza sia minorenne e che il padre di lei li porti tutti in tribunale. Toccherà all’irreprensibile moglie di Gasparini occuparsi di risolvere l’inconveniente a suon di bigliettoni e non solo. Da un soggetto di Luciano Vincenzoni, che ha raccolto il materiale narrativo nella sua Treviso (la città del film, mai nominata ma riconoscibilissima), Germi trae la sua commedia di costume più nera e più alta. È una satira bruciante, tanto che in molti, tra i critici italiani, si scottarono e non ne riconobbero da subito il valore, preferendo gli altri due film della trilogia, Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata, ambientati nella più remota Sicilia. Ci penserà il Festival di Cannes a tributare per primo al film il plauso internazionale che meritava, con la Palma d’oro del ’66 (ex aequo con Un uomo, una donna di Lelouch). Sceneggiato da Age e Scarpelli, il film deve in verità la sua straordinaria struttura narrativa ad un’idea di Ennio Flaiano (non accreditato), che s’ingegnò per cercare una cornice che lo emancipasse dal genere boccaccesco della pellicola ad episodi, di gran voga in quel periodo. L’ideazione del coro di personaggi, che si assomma nella piazza cittadina, assurgendo a emblema di una logica ideologica di gruppo o ancor meglio di branco, per poi lasciar spazio ai singoli assoli, supera lo strumento decorativo, al punto che la cornice diventa il film stesso, il suo stile e il suo senso. Il coro, unitamente all’aria e al recitativo, porta con sé anche un’idea di melodramma, che riaffiora specialmente nel secondo dei tre atti, nella figura tragica del personaggio interpretato da Gastone Moschin, così come nell’aria d’opera accennata da Castellan e Scarabello (“La bella figlia dell’amor”, dal Rigoletto, che Germi non riuscì ad inserire qui, andrà a far parte del primo capitolo di Amici miei). A distanza di cinquant’anni esatti, favorito da un ottimo restauro, Signore & signori si conferma un’opera di amara attualità e d’inalterata modernità.
Stanco della moglie e invaghito di una cugina sedicenne, barone siculo induce la consorte al tradimento e poi la uccide. È condannato a una pena minima per “delitto d’onore” e può sposare la cugina. Si può fare una commedia intelligente, lesta, graffiante anche illustrando un articolo (il 587) del Codice Penale. Se c’è un’arte che nasce dall’indignazione, questo film le appartiene. Oscar per la sceneggiatura a Ennio De Concini, Alfredo Giannetti e Germi e il premio della migliore commedia a Cannes. Rita Savagnone ha dato la voce sia a D. Rocca sia a S. Sandrelli.
Macchinista delle FF. SS. che ama, un po’ troppo, il buon vino entra in una grave crisi professionale e familiare, ma la supera con l’aiuto del figlioletto e dei compagni di lavoro. È il film cui Germi era affezionato e in cui si riconosceva, “fatto per gente all’antica… col risvolto dei pantaloni”. Nonostante i limiti della sua poetica (un po’ De Amicis, un po’ Capra) e del suo moralismo ottocentesco, sfugge alle trappole della retorica per la scrittura calda e avvolgente, concentrata sugli attori, per quel neorealismo intimistico che è la cifra stilistica migliore di Germi (ma il merito è anche dello sceneggiatore Alfredo Giannetti) e che ne fa un narratore popolare ad alto livello. Germi si fece doppiare da Gualtiero De Angelis, voce italiana di James Stewart, Cary Grant, Dean Martin, ecc. 2 Nastri d’argento: produttore (ENIC-Ponti-De Laurentiis), film. Presentato a Cannes e Berlino, 2 premi a S. Sebastian (film straniero e L. Della Noce), S. Francisco (Germi attore) e Cork (regia).
Il padre di una sedicenne sicula costringe il seduttore di lei a sposarla, anche se era già promesso a un’altra figlia che ripiega su un barone squattrinato. La commedia più violenta e congestionata, ai limiti dell’isterismo, della trilogia barocca di P. Germi, aperta da Divorzio all’italiana (1961) e chiusa da Signore e signori (1965). “È una farsa tragica con qualche vertigine grottesca, una tarantella macabra che accompagna con forzata allegria i funerali della ragione” (E. Giacovelli). Non esiste, forse, un film più antimeridionale e antisiciliano nel suo tiro al bersaglio contro la concezione insulare dell’onore. Galleria di personaggi brutti sporchi e cattivi su cui il regista s’accanisce con zoom e obiettivi deformanti, con le armi della natura incattivita e della farsa acida. Scritto dal regista con Age, Scarpelli e Luciano Vincenzoni che ebbero un Nastro d’argento come S. Urzì (attore protagonista, premiato anche al Festival di Cannes) e L. Trieste.
In Sicilia, pretore si trova in conflitto con un potente latifondista. Lo aiutano, vincendo l’omertà e la paura, la popolazione locale e persino un capomafia. La Sicilia e la mafia (quella di vecchio stampo) raccontata (e mitizzata) dal giovane Germi tenendo d’occhio i western di John Ford. Vigoroso, qua e là affascinante film d’azione anche se sociologicamente poco attendibile. Tratto dal romanzo Piccola pretura del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo. Tra gli sceneggiatori Fellini e Monicelli. Neorealista? Sì, forse, comunque romantico e con ambizioni e struttura da romanzo. Anticipa il filone del cinema civile degli anni ’60. Il primo western del cinema italiano postbellico. Nastri d’argento per Girotti e Urzì. Premio speciale per Germi.
Il furto avvenuto in un ricco appartamento e il cadavere trovato in un altro appartamento hanno qualcosa in comune? Ingravallo, commissario della Squadra Mobile di Roma, indaga. Liberamente tratto dal romanzo (1947-57) di Carlo Emilio Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana , fu, quando apparve, il miglior giallo in assoluto del cinema italiano. Preannuncia sia l’imminente commedia all’italiana degli anni ’60 sia le lenti deformanti e impietose con cui Germi racconta la borghesia italiana in Sedotta e abbandonata (1964) e Signori e signore (1965). “La gestione dei due registri (quello comico, quello poliziesco-drammatico) è saldamente nelle mani della sua interpretazione e del modo cui il Germi regista… riesce a tenerli separati senza che si confondano o neghino l’un l’altro” (M. Sesti). Nastro d’argento 1960 per la sceneggiatura di Alfredo Giannetti, Ennio De Concini, Germi.
L’altalena d’amore tra un giovane regista finto cinico e una studentessa sportiva, garrula e pura è il tema del più brutto film di P. Germi, in altalena, lui, tra la misoginia e la mitizzazione della donna (vergine).
La vita privata del violinista Sergio Masini è complicata: ha moglie con tre figli e due amanti. Il tremendo carosello di prove d’amore e di conti da pagare lo stronca. Dopo Signore e signori (1965), Germi inaugura la serie delle commedie della bontà. Lontanamente ispirato alle vicende di Vittorio De Sica, il suo è il ritratto di un santo della poligamia che vorrebbe benedetta dalla Chiesa e dallo Stato. Commedia troppo compassata, senza artigli, priva di un vero finale, con un Tognazzi bravo come al solito ma fuori parte.
Operaio romano quarantenne, con moglie e figlio, rimane solo in città e ha una relazione con una giovane dattilografa. Quando la lascia, lei si uccide. Lui ritorna in famiglia, ma la vita non sarà più la stessa. Gli ingredienti narrativi sono più o meno gli stessi di Il ferroviere (1955), e la maestria tecnico-stilistica è tale che non si nota quasi più. Per tre quarti il film tiene, avvince e convince (e la Bettoja fu giustamente una rivelazione), ma ancora una volta il finale rovina l’equilibrio a colpi di retorica e di buon senso piccolo borghese. L’apporto alla sceneggiatura di Benvenuti e De Bernardi, collaboratori di A. Giannetti, si sente nei particolari. Il titolo è tratto da un verso di Eliot.
Ritratto di un pastore abruzzese, contestatore inconsapevole, idealista semianalfabeta che i familiari vorrebbero far passare per matto. Ruzzolone senza riscatto di P. Germi che si propone di contrapporre la sanità della vita di campagna contro lo stress della città e battersi per l’individuo contro le costrizioni e le ipocrisie sociali. “Avrebbe potuto essere un’ottima commedia della cattiveria e finì invece per diventare una mediocre commedia della bontà” (E. Giacovelli). Anarchismo da parrocchia, pastoraleggiante e annacquato. Anche Celentano ha l’aria di uno scavezzacollo di città che s’è travestito da burino per farsi gabbo dei villani.
1863: i bersaglieri del capitano Giordani devono liberare una zona della Lucania dai briganti di Raffa Raffa, fedeli ai Borboni. Il capitano è per i metodi spicci, il commissario Siceli predilige l’astuzia. Da un racconto di Riccardo Bacchelli, sceneggiato dal regista con F. Fellini, T. Pinelli e F. Tozzi. Moralista influenzato da Ford, Germi ha fatto un western militare di robusto impianto narrativo dove Nazzari campeggia come il monumento di sé stesso. La contrapposizione complementare tra A. Nazzari/soldato blu nordista e il commissario sudista e volpone è da sola una piccola lezione di storia.
L’odissea di un gruppo di siciliani che, dopo la chiusura della zolfatara, partono verso il nord finché, dopo varie peripezie, passano clandestinamente il confine con la Francia. Poteva essere, ma non è, il Paisà della disoccupazione postbellica perché è un compendio di temi melodrammatici più che neorealistici. Troppo folclore e ridondanza, ma anche vigore, dolente visione del penare umano, sincerità nella rappresentazione di una povertà rabbiosa. Scritto dal regista con Fellini e Tullio Pinelli e tratto dal romanzo Cuori negli abissi di Nino Di Maria. Orso d’argento a Berlino.
Impiegatuccio di Ascoli Piceno vede marcire la sua storia d’amore per via della smania possessiva della moglie. Si risposa ma le cose non vanno meglio. Germi riprende il discorso sconsolato di Divorzio all’italiana per trovare che, nonostante il divorzio, le cose non vanno bene neanche adesso. Hoffman è credibile, ma giù di corda. Fiacco, fiacco.
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