Scoppia una guerra atomica. La famiglia Baldwin, che aveva lasciato Los Angeles per una vacanza, vive giorni di terrore, alla ricerca di un rifugio sicuro, in una situazione disperata dove prevale la legge del più forte. 4° dei 5 film, e uno dei più interessanti, diretti dall’attore Milland, in linea con la SF americana, assai sensibile negli anni ’60 alla minaccia di un conflitto atomico. La prima parte è la migliore.
Un film di Tom Laughlin. Con Barbara Carrera, Tom Laughlin, Ron O’Neal Titolo originale The Master Gunfighter. Western, durata 101 min. – USA 1975. MYMONETRO Il giorno del grande massacro valutazione media: 2,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Siamo nella California semiselvaggia. Il figlio di un possidente terriero deruba un vascello americano e uccide un gruppo di indios che hanno assistito al fatto. Suo cognato, testimone volontariamente impassibile, si esilia in Messico; qualche tempo dopo però torna e impedisce una nuova rapina.
Una coppia senza figli incontra una giovane donna, Malvina, incinta di sei mesi. Strani legami legano il terzetto. Morto l’uomo accidentalmente, Malvina mette al mondo un bambino che consegna all’amica. Come il solito nel cinema di Ferreri il contenitore scenografico della storia (una futuristica megalopoli dove coabitano Palermo, Milano, Ferrara, discoteche emiliane, supermercati lombardi) è suggestivo, ma dentro si muovono fantasmi impacciati dalle catene dell’ideologia. Fin quando mostra, funziona; quando comincia a dire, ristagna e affonda. Il solo modo di divertirsi è leggerlo in chiave di fumetto ironico-grottesco.
Prima del divieto ai minori in Francia, rivisto e ritirato tra mille dibattiti, c’era stato persino il rifiuto della sceneggiatura da parte del produttore Richard Grandpierre, pur avvezzo alle censure vista l’esperienza con Irreversible di Noé. Anche Grandpierre aveva considerato Martyrs ai limiti della sopportabilità, per poi decidersi a investire comunque su una pellicola dallo scandalo assicurato. E nella polemica generale il regista, Pascal Laugier, credendosi paladino della libertà d’espressione, sembra essersi convinto di aver girato un inaccettabile film di denuncia. Tutt’altro, Martyrs è solo un horror congegnato per irritare gratuitamente, per nulla rivoluzionario e affatto in linea con la perversione degenerata e di dubbio gusto del thriller contemporaneo. Saint Ange perlomeno si contestualizzava nella Francia occupata e citava i classici italiani degli anni ’70. Martyrs è invece una carneficina, compiaciuta della propria perversione in un ormai patologico, per il genere horror, eccesso del mostrare (pensiamo naturalmente ai vari Saw e in particolare a Saw IV). Perso nei suoi stessi ingranaggi, non racconta e non si fa tramite di un mondo in decadimento attraverso le regole di genere (cosa in cui eccelleva lo straordinario Cargo 200), né, d’altra parte, riflette sul suo stesso punto di vista cinematografico, argomento su cui la scuola di horror d’oltralpe riesce bene persino nei casi di macelleria più espliciti. Martyrs inizia in medias res, senza alcun preavviso né attimo di tregua. Ci presenta subito mostri inventati e ruoli scambiati, riprendendo un po’ goffamente marche tipiche di certo horror asiatico. Degenera poi nell’escatologico, quasi mistico, in sostanza demente. Ci porta all’interno di un imbarazzante trattato sul tema del martirio, inaspettatamente pretenzioso e ascetico. Della bravura delle due belle protagoniste, Morhana Aloui e Mylene Jampanoi è difficile parlare, intente come sono a gridare insanguinate per buona parte del film. Resta poco, dalla messa in scena inelegante, alle pretese da nuovo Salò pasoliniano. Martyrs sembra piuttosto uno scandalo ben progettato, una “boucherie” senza alcun limite (se non quello, coerentemente col tema passionale, erotico) rivestita da misticheggianti motivi religiosi.
Prima di vedere questo film consiglio di leggere i commenti in questo post. Personalmente è un film che non guarderò e che eviterei fossi in voi. Aspetto commenti nel caso vogliate avventurarvi ma ripeto, lasciate perdere
Finn un fotografo il cui lavoro è molto apprezzato in campo internazionale, è un uomo costantemente in azione. Il suo cellulare è sempre in funzione, dorme pochissimo (e quando dorme ha incubi) e suo lettore mp3 è sempre in funzione. Una sera, mentre si trova alla guida della sua auto, vede, come si suol dire, la morte in faccia rischiando un incidente dalle conseguenze letali. Da quel momento la sua vita cambia. Abbandona la Germania e si reca a Palermo con l’alibi di un servizio fotografico con Milla Jovovich ma in realtà vuole azzerare la propria esistenza per ripartire da capo. L’ossessione della morte però non lo abbandona. Si vede colpito o sfiorato da frecce scagliate da un essere misterioso che lo segue. A mitigare solo in parte questa sensazione provvede l’incontro con Flavia, una restauratrice impegnata su un grande affresco cinquecentesco raffigurante il trionfo della Morte.
Una fantomatica organizzazione paramilitare fa prigioniero un eminente scienziato esperto in missilistica e per costringerlo a rivelare i suoi segreti rapisce anche la sua famiglia. Padroni delle rivoluzionarie scoperte, i criminali potrebbero ricattare il mondo intero, ma Spaceman, il difensore dell’umanità e della giustizia, è sempre all’erta e scoperto il satellite artificiale dal quale i nemici architettano il diabolico disegno, interviene appena in tempo prima che si scateni un attentato dimostrativo.
Un film di Nicholas Ray. Con John Wayne, Robert Ryan, Don Taylor Titolo originale Flying Leathernecks. Guerra, durata 102′ min. – USA 1951. MYMONETRO I diavoli alati valutazione media: 2,29 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Da un racconto di Kenneth Gamet. 1942: il nuovo comandante di una squadra di marines alle Hawaii, accolto con ostilità e diffidenza, riesce a conquistare la stima e l’affetto dei suoi uomini. Film su commissione della RKO che, pur non interessandolo affatto, il regista fu costretto a fare. Rimediò alla pessima sceneggiatura, improvvisando sul set, ma il risultato fu mediocre. Di notevole c’è la sequenza dei piloti che inviano le lettere ai loro cari, un modo per mostrare la variegata realtà etnica degli USA. 1° film a colori di Ray.
Una giovane infermiera cura un’anziana signora paralizzata alle gambe che vive con Warren, una specie di nipote adottivo. Tra il giovane e la ragazza nasce una torbida attrazione, immediatamente avvertita da Miriam, sorella di Warren. Miriam sa che l’infermiera ha già ucciso un uomo e teme che voglia fare lo stesso con lei e con l’anziana signora. Racconta i suoi sospetti a Warren, ma improvvisamente accade qualcosa che accresce i suoi timori.
Bora, zingaro della Vojvodina ha una moglie anziana e se ne procura una giovane, l’irrequieta Tissa che ha in Mirta un patrigno che la concupisce. Bora lo uccide, protetto dall’omertà della tribù. Film di trascinante allegria furfantesca sul folclore tzigano, piuttosto ruffiano e sopravvalutato all’epoca. Il premio speciale a Cannes favorì il suo successo internazionale e la carriera di Fehmiu. Ma l’esplicita simpatia per il popolo tzigano di Petrovi&3 (al quale dedicò un 2° film – Bi&3 e skoro propast sveta , 1968, inedito in Italia) era anche una indiretta critica al tentativo di Tito di omologare dall’alto la complessità etnica della repubblica iugoslava.
Sul finire dell’Ottocento, Londra è una città affascinante e pericolosa. Le novità tecnologiche attirano i cittadini più curiosi, ma il richiamo per l’occulto e il soprannaturale è altrettanto forte. Quando Sherlock Holmes e il fido dottor Watson consegnano l’assassino di giovani donne Lord Blackwood alla giustizia e, dopo aver assistito all’esecuzione capitale, assistono non di meno alla sua apparente resurrezione, Holmes è felice di potersi finalmente interessare di qualcosa alla sua portata. Tanto più che si è ripresentata a lui la bella Irene Adler, chiedendo il ritrovamento di un uomo che si scoprirà interrato nella bara di Blackwood. I casi si intrecciano, si aggrovigliano, sporcano gli abiti di fumo e di avventura.
Dal romanzo (stravolto) di Nathaniel Hawthorne. Inghilterra diciottesimo secolo. Una donna tradisce il marito con un pastore. Secondo la legge, la fedifraga viene punita e le viene imposto di portare sul petto la lettera A. Dopo avventure inenarrabili, arriva un impossibile lieto fine. Davvero tutto sbagliato, quasi ridicolo.
La prima informazione utile per lo spettatore è che questo NON è il seguito de Il Patto dei lupi, sgangherata ma divertente pellicola di qualche anno fa. Altra informazione utile è che questo L’Impero dei Lupi è altrettanto sgangherato ma meno divertente. Scritto da Jean-Christophe Grangé, autore dei due I Fiumi di Porpora e di Vidocq, L’impero dei lupi è il classico thriller/action/horror in salsa transalpina, che nulla aggiunge e nulla toglie alla pluralità di generi cui appartiene. La regia di Chris Nahon è tutto sommato valida, il ritmo ed il montaggio serrati, ma la storia pecca di credibilità e pathos, ricorrendo troppo spesso a soluzioni grandguignolesche per distrarre il pubblico da carenze gravi riscontrabili sia in sede di dialoghi (banali) che di sceneggiatura (poco credibile). Il cinema francese dà il peggio di sé quando cerca di imitare Hollywood e non riesce nemmeno ad ottenere gli stessi, scarsi, risultati: le scene action tendono ad essere davvero troppo “finte” e coreografate e la disamina del mondo dell’immigrazione clandestina è troppo superficiale e frettolosa. A salvare il film dalla totale insufficienza ci sono le performances dei tre protagonisti, in modi diversi, tutte positive: Reno è oramai “lo sbirro” per antonomasia, ma è sempre gradevole a vedersi, la Morante, dotata di indiscusso fascino, per una volta non è in lacrime, ma volitiva e tenace, e Arly Jover rappresenta una piacevole sorpresa di cui sentiremo ancora parlare. Film di genere, come il cinema italiano non sa o non vuole più fare da anni, è consigliabile solo per una serata di intrattenimento “a cervello spento”.
Una fotomodella viene trovata uccisa e il giovane tenente che si occupa delle indagini perseguita uno degli amici della ragazza, Steve. Tanto accanimento non è naturale e Steve, rischiando ad ogni passo di finire in prigione, risale all’amicizia che legava l’uccisa al poliziotto. In quel legame sta il filo della matassa.
Titolo originale Ufo Robot Grendizer. Animazione, Ratings: Kids, durata 92 min. – Giappone 1978. MYMONETRO Goldrake l’invincibile valutazione media: 2,00 su 1recensione.
Il pianeta Vega è divenuto inabitabile e perciò il suo capo, Hydargos, decide l’invasione della Terra. Allo scopo, fissa una base sulla Luna. Ma i collaboratori del professore Procton, tra i quali c’è anche l’invincibile robot Goldrake, riusciranno a cacciare dalla Terra gli invasori.
Un industriale si trova in cattive acque. Ma potrebbe salvarlo un riccone, ex gerarca fascista. Per ingraziarselo, l’industriale lo riceve nel suo castello. L’ospite è in brodo di giuggiole, la società sta per nascere quando s’intromette lo spirito del castello
Umberto lenzi(paranoia,milano rovente,il coltello di ghiaccio)dopo l’enorme successo di MILANO ODIA,torna al giallo,e dirige un ottima pellicola che incolla lo spettatore e lo emoziona ad ogni scena.La storia si svolge a Barcellona,dove un gruppo di turisti si ritrova piano piano ad essere preso di mira da un maniaco che li uccide a poco a poco strappando l’occhio sinistro alle vittime,nel frattempo un uomo raggiunge una delle turiste poiche’ e’ la sua amante ed immagina che dietro tutto questo ci sia lo zampino della moglie gravemente malata di nervi,una cosa e’ certa si sbaglia e l’assassino e’ piu’ vicino di quanto pensa..Lenzi e’ un maestro del genere,e sono molte le scene interessanti,ma quella piu’ suggestiva e’ sicuramente la scena finale con tanto di occhio staccato e incollato all’occhio dell’assassino,anche se la scena della casa dell’orrore al luna park e’ ottima.Buone musiche di nicolai.Per la cronaca i gatti rossi sono i turisti che indossano un impermeabile rosso quando piove e sono come gatti in trappola.Che lo si voglia o meno Lenzi ci sa fare eccome ,e la pellicola e’ forse il suo capolavoro ,soprattutto per il movente finale che spinge l’assassino ad uccidere.
Parigi, 1944: due amici studenti sono alle prime armi con esperienze sentimentali e malavita. Con il traffico della borsa nera sono gratificati dai primi guadagni. Da lì a colpi grossi il passo è breve. Tratto da un romanzo di M. Aymé e sceneggiato da Aurenche e Bost, grazie anche a un’efficace scelta di attori (Delon, Brialy, Milo), è uno dei migliori film francesi sull’Occupazione, di una grazia acidula che qualche eccesso caricaturale non guasta.
Dal romanzo di Cameron Crowe, basato sui suoi ricordi di scuola. I personaggi principali sono uno studente molto popolare tra i compagni e la sua sorellina illibata. Prima della fine la ragazza perde la sua purezza e il fratello parte della sua popolarità.
Due vicende complementari si intrecciano: il rapporto conflittuale di due fratelli, entrambi pompieri sulla scia del padre morto giovane in un incendio, e l’inchiesta su una serie di incendi dolosi a scopo omicida che si riveleranno collegati tra loro. Un colosso della pirotecnica condito di suspense con agganci un po’ pretestuosi di critica verso i politici che riducono i finanziamenti pubblici ai vigili del fuoco. De Niro e Sutherland offrono due caratterizzazioni che lasciano il segno. Howard rimane un regista indecifrabile e inclassificabile che lascia incerti nel giudizio. Il titolo originale, Backdraft, significa in gergo “fiammata di ritorno”.
Da un romanzo di Alistair MacLean. 1943, nella Iugoslavia occupata un pugno di prodi anglosassoni deve sferrare un grave colpo alla Wehrmacht di Hitler con l’aiuto dei partigiani: la distruzione di un ponte. Appartiene a quel filone bellico in cui tutto è importante tranne il realismo. Cattura chi è capace di abbandonarsi alla pura avventura spettacolare.