Nella comunità ultraortodossa di Gerusalemme, Aaron, un uomo irreprensibile, è sposato con Rivka con la quale ha quattro figli. Si innamora di Ezri, un giovane studente. In nome di questo amore ripudia la sua famiglia e la comunità ortodossa la quale però lo condurrà ad un tragico destino.
Un insegnante è il principale sospettato di un caso di pedofilia: sarebbe il responsabile di diversi omicidi e sevizie ai danni di minorenni. Un poliziotto è convinto della sua colpevolezza ma non riesce a dimostrarla, mentre il padre dell’ultima vittima ha ideato un piano perfetto per torturare il sospetto ed estorcergli la verità. Agevolato dal clamoroso endorsement di Quentin Tarantino, che lo ha definito il suo personale film dell’anno, Big Bad Wolves è destinato – nonostante il grado di violenza che è capace di raggiungere e la brutalità dei temi trattati – a uno status di sicuro e diffuso cult. Troppo astuta la regia di Papushado e Keshale, troppo impeccabile lo script e sapientemente dosata la tensione perché le critiche possano avere la meglio; e tale è la padronanza del ritmo da lasciar intravedere un futuro remake hollywoodiano all’orizzonte, senza dover ricorrere a vaticini. Riuscire a sostenere ancora qualcosa di cinematograficamente originale e significativo trattando di serial killer e vendette sanguinarie, d’altronde, è tutt’altro che semplice, ma Papushado e Keshale riescono a ipnotizzare lo spettatore, anche in virtù di un’umiltà che non nasconde le proprie influenze. È evidente la presenza non solo del suddetto Tarantino nel Dna dei due registi israeliani, ma soprattutto il modello di un film come The Chaser, pietra angolare del noir sudcoreano e punto di non ritorno (fino a quando?) sulla violenza di serial killer e di poliziotti vendicatori, già ripreso in India da un titolo come Ugly di Anurag Kashyap. Il nero-nerissimo è il colore del 2013, quindi, adatto a fotografare un’epoca di crisi economica, morale e spirituale in cui prevalgono confusione, sete di denaro e appetiti insani. Big Bad Wolves è quasi una dissertazione sullo stato di cose, sotto forma di slasher estremo che muta forma e sostanza sempre più verso un’astrazione dalla materia fondata su un sarcasmo corrosivo. Sull’inutilità della vendetta e della ricerca stessa della verità, impossibile da ottenere pienamente, sulla consapevolezza incrollabile da parte dell’uomo di potere di riuscire a risolvere qualunque cosa, non importa come. Riflessioni etiche costantemente mediate e alleggerite dalla confezione di genere e da uno script geniale, capace di sciogliere la tensione con interruzioni, spesso comiche, nei momenti di maggiore insostenibilità. Ribadendo con orgoglio e con la consueta autoironia la proprie radici ebraiche – le schermaglie madre-figlio sono degne del Woody Allen di New York Stories – nonostante qualche concessione di troppo al politically correct nella benevolenza nei confronti del personaggio del palestinese, unico a salvarsi in toto nel panorama misantropo di Big Bad Wolves. Ma si tratta di dettagli, in un’opera che fin dai titoli di testa sconvolge per la lucidità e maturità di una cinematografia in irresistibile ascesa.
Quando tre ragazzi in divisa suonano alla sua porta, Dafna capisce subito cosa sono venute a dirle, e cade a terra priva di sensi. Sedata lei, per qualche ora, con un sonnifero, tocca al marito Michael sopportare sveglio il peso indicibile della notizia della morte del figlio Jonathan. Tutto appare incredibile. Non può essere vero, e forse non lo è: forse il destino ha in serbo una beffa ancora peggiore.
Guerra del Kippur, 1973. Un tenente dice a un ufficiale medico “volevo parlarti della mia ragazza e tu mi parli di tua madre morta e dei campi nazisti…”. Il medico risponde “…ho sempre la sensazione che siamo sospesi, e che ciò che temiamo prima o poi accadrà”. Significa prima di tutto amicizia, sostegno a oltranza, senso del dovere e abitudine al senso del dovere. E significa dolore e paura, che non sono il segnale che il popolo israeliano, forte, vincente, vuol dare di sé. Le guerre vengono vinte ma vengono perse, è questo il discorso di Gitai, che conosce bene l’argomento perché quella guerra l’ha combattuta. Dopo una premessa stranissima, decisamente inutile, di sesso fra i colori (metafora di che cosa?) entriamo nella guerra, da dietro, dalle seconde linee, dove una squadra con medico, cura e trasporta i feriti. Documento e iperrealismo. Davvero efficace, senza un solo orpello o una sola licenza. La realtà. Un tenente e un sergente che hanno voglia di combattere si trovano nel mezzo del primo attacco siriano in quella guerra. Cercano il loro reparto, non lo trovano ma si integrano subito con un altro. La macchina gira lo stesso, la solidarietà e l’amicizia scattano subito. È, appunto, la forza di questo popolo, circondato da nemici cento volte superiori in numero, che ha davvero bisogno di amicizia e solidarietà.
Leone d’oro alla 66ª Mostra di Venezia 2009 e 1° film israeliano a vincerlo. Scritto e diretto dall’esordiente Maoz, sulla base dei suoi ricordi di sottotenente carrista che nel giugno 1982 partecipò alla 1ª guerra nel Libano. Sul muro di una città in cui un tank israeliano penetra dopo un massiccio bombardamento aereo c’è una scritta idiota: “L’uomo non è d’acciaio, il carro armato è soltanto ferraglia”. Non sono d’acciaio i 4 uomini che vi sono chiusi. 2° film israeliano a raccontare quella guerra dopo Valzer con Bashir , si svolge, tolti 10 minuti, all’interno del carro armato, nel suo buio fetido e sporco. Radicale, senza orizzonti, il mondo esterno è visto attraverso il mirino del mitragliere Shmulik. Maoz ha detto di aver scritto il film con la pancia. Lo si vede: la sua è la memoria emotiva di un 20enne che nel 1982 uccise per la prima volta un uomo. Lo spinse a fare il film il bisogno di riuscire a perdonarsi; di comunicare quell’esperienza a livello sensoriale prima agli attori, poi agli spettatori; di fare capire che il vero nemico e carnefice è la guerra stessa che costringe chi la fa a uccidere per sopravvivere. C’è riuscito anche grazie ad Ariel Roshko (scenografie), Giora Bejach (fotografia), Alez Claude (suono), Nicolas Becker (musica).
Nel 1941, per evitare la deportazione, gli abitanti di uno shtetl (villaggio ebraico dell’Europa centrale) rumeno allestiscono un finto convoglio ferroviario sul quale alcuni di loro sono travestiti da soldati tedeschi e partono nel folle tentativo di raggiungere il confine con l’URSS e di lì proseguire per la Palestina, Eretz/Israel, la terra promessa. Ci riescono, dopo tragicomiche peripezie. 2° film del rumeno Mihaileanu, attivo in Francia, è una tragicommedia di viaggio sotto la triplice insegna dell’umorismo yiddish (condito di una grottesca ironia critica verso gli stessi ebrei, i tedeschi, i comunisti), di una sana energia narrativa e di un ritmo di trascinante allegria cui molto contribuisce Goran Bregovic, il compositore preferito di Kusturica, che attinge alla musica klezmer ebraica dell’Europa orientale. Fotografia del greco Yorgos Arvanitis, l’operatore di Anghelopulos e di Laurent Daillant. Colorita galleria cosmopolita di interpreti, dialoghi italiani di Moni Ovadia. Non manca una dimensione poetica, incarnata in Schlomo (Abelanski), lo scemo del viaggio che funge da narratore. L’inquadratura finale può essere la chiave di lettura a ritroso. Premio Fipresci a Venezia 1998, premio del pubblico al Sundance Festival, David di Donatello per il film straniero.
Già noto attore e clown ebreo nella Berlino prebellica, Adam Stein è ricoverato in una clinica israeliana dove si curano i superstiti dei lager nazisti di sterminio. Scampato grazie a Klein, sadico comandante di un campo, che l’aveva costretto a fare il suo cane, camminando a quattro zampe, Adam è tormentato dai sensi di colpa perché sopravvissuto alla morte della moglie e della figlia. Attraverso un nuovo paziente della clinica rinchiuso in una cella separata, riesce faticosamente a riprendersi. Tratto dal romanzo omonimo (1968) di Yoram Kaniuk, adattato da Noah Stollman, ambientato in una clinica la cui architettura è ispirata allo stile della Bauhaus e girato in una fotografia altrettanto stilizzata, in un BN dominato dal bianco, è una storia di salvazione che ha il suo contrappunto in quella di David, un bambino convinto di essere un cane che impara a camminare grazie ad Adam, costretto a esserlo. È uno dei più originali, visionari – e dei più impervi – film sulla tematica della Shoah, così insolito che fu distribuito debolmente anche negli USA da chi lo riteneva inadatto a trovare un qualsiasi pubblico. Straordinaria interpretazione di Goldblum.
ALILA Un condominio di Tel Aviv, dove si consumano splendori e miserie umane: la poliziotta sefardita che litiga con i vicini, una donna che consuma la sua passione di amante di un uomo sposato, un vecchietto solo con un cane, i muratori che stanno ristrutturando una parte del palazzo. E, dall’altra parte della città, un padre e una madre che rincorrono una figlio che non ne vuole sapere di fare il militare. In quaranta piani sequenza di precisione millimetrica, Gitai racconta ancora una volta l’impossibilità di essere normali, oggi, in Israele. La sua macchina da presa viola l’intimità dei personaggi, per scrutare nel profondo di un disagio che è esistenziale, ancor prima che fisico. E poco importa se i lavoratori da sfruttare non sono più palestinesi, ma cinesi o africani: ognuno ha un padrone, nessuno è libero. Ed ognuno vuole scaricare sugli altri la propria rabbia, la propria incompiutezza. Raggelante ed ansiogeno, anche se di gran lunga meno riuscito di altre precedenti opere di Gitai. Come se tutto, adesso, fosse diventato davvero più difficile. Anche il semplice raccontare.
Storia di Rivka (Abecassis) e Meir (Hattab), marito e moglie. Si amano, si comprendono, ma le condizioni sociali sono tali da non permettere rapporti sereni, di nessun genere. Si confrontano anche personalità femminili, sempre in quel contesto difficile, fatto di paure e di integralismo. La solita lettura intelligente e accorata di Gitai, che ha firmato, a brevissimo intervallo, due efficaci documenti contemporanei come Kadosh e Kippur.
Un film di Otto Preminger. Con Lee J. Cobb, Peter Lawford, Paul Newman, John Derek, Eva Marie Saint.Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 213 min. – Israele 1960. MYMONETRO Exodus valutazione media: 3,92 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Nel 1947 seicento profughi ebrei forzarono con una nave il blocco inglese che impediva loro di sbarcare sulla terra che sarebbe poi diventata lo Stato di Israele. Il film racconta la storia di questi seicento che, con la loro ostinata resistenza, costrinsero l’Onu a riconoscere la nuova nazione.
Moshe, quarantenne ipocondriaco di Haifa nato da madre ebrea e padre arabo-israeliano, lavora nel panificio di famiglia. È sposato con una donna che non ama, condivide inconsapevolmente una giovane amante con il migliore amico, si sente confuso dalla vita che conduce e disorientato dalle sue origini.
Nimer è un venticinquenne palestinese che vive in un quartiere povero di Ramallah e ha un sogno nel cassetto: studiare Psicologia all’Università di Princeton, negli Stati Uniti. La sua meta si avvicina sempre di più quando supera il test di ammissione a un corso nella prestigiosa Università di Tel Aviv, in Israele. Ottenuto un permesso temporaneo per ragioni di studio, Nimer ha finalmente la possibilità di farsi strada, alla luce del giorno, in quella città a due passi dalla sua, dove fino a quel momento si era recato illegalmente, di notte, per frequentare il locale gay dove si esibisce il suo migliore amico, anche lui palestinese clandestino. Una sera conosce Roy, affascinante e benestante avvocato trentenne. I due si piacciono al primo sguardo e iniziano a frequentarsi. Quando, però, la loro storia diventa importante, Nimer e Roy devono fare i conti con il pregiudizio religioso e sociale e con le logiche malsane di un conflitto pluridecennale.
Liberamente ispirato da CRIME AND PUNISHMENT di Dostoevskij, ‘DISSOLUTION’ combina un’energia da favola quasi surreale con un brutale realismo in bianco e nero per esplorare la condizione di violenza che permea la società israeliana contemporanea. Girato a Jaffa, l’area prevalentemente araba di Tel Aviv, il film segue il crollo morale e il primo barlume di redenzione di un giovane ebreo israeliano, interpretato brillantemente dal non attore Didi Fire. Questo è un lavoro profondamente personale sul viaggio interiore di un uomo, ma può anche essere letto come un’allegoria sulla responsabilità morale di Israele… così come un ritratto della violenza maschile nei confronti di un femminile svalutato
La storia è ambientata in una comunità chassidica ortodossa di Tel Aviv. La 18enne Shira sta per sposare un giovane scelto dalla famiglia, come impongono le regole che lei ha accettato. Sua sorella muore nel partorire il primo figlio. A suo marito Yohai si propone di sposare una vedova belga. Nel timore che il genero se ne vada con il nipotino, la madre delle ragazze gli suggerisce di sposare Shira chiedendo la rinuncia dei sentimenti in favore dei doveri verso la famiglia. Scritto e diretto dall’esordiente Burshtein, il film dà spazio con apparente lentezza a questa dicotomia tra razionalità e sentimenti istintivi. Nella descrizione di questa comunità chiusa, fondata sul patriarcato, dove però le donne (le madri) hanno un ruolo decisionale, la regista pratica la sospensione del giudizio con una scrittura quasi documentaristica sui rituali e le liturgie che diventano uno specchio, spesso deformante, della psicologia di Shira: “la devozione dolorosa a una tradizione non riguarda solo il futuro della protagonista, ma quello di un popolo alla perenne ricerca di equilibrio” (F. Pedroni). Alla mostra di Venezia 2012 la Yaron vinse la Coppa Volpi per la migliore attrice
Nel 1984 avviene l’operazione Mosè, iniziativa congiunta tra Israele e USA che porta dall’Etiopia in Terra Santa, attraverso il Sudan, migliaia di ebrei etiopi, opinabili discendenti del re Salomone e della regina di Saba, detti falascià (“emigrati, esiliati”). Scritto dal regista rumeno ( Train de vie ) da un suo romanzo, insieme con Alain-Michel Blanc, racconta le peripezie di un piccolo etiope cristiano che, per sottrarlo alla carestia e al regime filosovietico di Menghistu, la madre affida a un’altra donna, ebrea, il cui figlio è morto da poche ore. A lui, ribattezzato Schlomo, la donna straziata dice: “Va’, vivi e diventa!”. In Israele, in quanto ebreo benché di pelle nera, gli si riconosce il diritto di vivere, crescere e diventare uomo. Per farlo, però, deve mentire, obbedire alla legge dell’appartenenza, lottare con coraggio contro la solitudine e la diversità, sia pure aiutato dall’affetto di una francese che lo adotta e da due figure paterne che gli insegnano “a essere sé stesso, prima ancora che falascià o cristiano” (R. Escobar). Si rivede con piacere l’attrice israeliana Abecassis, cara al regista Gitai, una delle donne più affascinanti passate sugli schermi dei primi anni 2000.
A Gerusalemme il giovane Assaf deve trovare il proprietario di un labrador abbandonato. È Tamar, sua coetanea, che sta cercando il fratello tossico Shai, preda di Pesach, capo di una banda criminale che traffica droga e recluta ragazzi sbandati, costringendoli a mendicare e a suonare per strada. Anche lei catturata da Pesach, Tamar cerca di convincere Shai a fuggire. Da un romanzo (2005) di David Grossman, fedelmente adattato da Noah Stollman, il 2° film del giovane Davidoff è incerto tra la fedeltà illustrativa e lo sforzo del regista di imporre una diversa e più personale scrittura a questa storia di emarginazione e disagio sociale: cinepresa a spalla, squarci dall’alto di una Gerusalemme insolita, montaggio un po’ frenetico, virtuosismi di ripresa, interessante colonna musicale originale. “Sembra di assistere a una specie di finto neorealismo, combinato con una dimensione a tratti favolistica” (S. Emiliani). Nell’assillo di rinnovare la sua fonte letteraria, rischia di perderne l’anima. Bar Belfer è un volto intenso che non si dimentica. Distribuito da Medusa.
Una notte, in un bar, un amico confessa al regista israeliano Ari Folman un suo incubo ricorrente: sogna di essere inseguito da 26 cani inferociti. Ha la certezza del numero perchè, quando l’esercito israeliano occupava una parte del Libano, a lui, evidentemente ritroso nell’uccidere gli esseri umani, era stato assegnato il compito di uccidere i cani che di notte segnalavano abbaiando l’arrivo dei soldati. I cani eliminati erano giustappunto 26. In quel momento Folman si accorge di avere rimosso praticamente tutto quanto accaduto durante quei mesi che condussero al massacro portato a termine dalle Falangi cristiano-maronite nei campi di Sabra e Chatila. Decide allora di intervistare dei compagni d’armi dell’epoca per cercare di ricostruire una memoria che ognuno di essi conserva solo in parte cercando di farla divenire patrimonio condiviso.
Il fiume Inguri segna il confine naturale tra la Georgia e la Repubblica di Abkhazia. I secessionisti hanno reclamato questa porzione del paese, cacciando brutalmente i georgiani che la abitavano. Proprio lungo questa tormentata frontiera, in primavera, lo scioglimento del ghiaccio dà vita a piccole isole itineranti, che si fanno e si disfano a seconda delle stagioni e dei capricci della natura. Un vecchio contadino e sua nipote adolescente si installano in questa terra di nessuno, costruendo una precaria baracca di legno, per coltivarvi il necessario per sopravvivere al rigido inverno. Quando sull’isola compare un ribelle ferito, il già fragile equilibrio di questa insolita coppia si spezza pericolosamente. Quello diretto dal georgiano George Ovashvili è un film che indaga tra le pieghe dei conflitti. In primo luogo, il difficile rapporto tra uomo e natura, cristallizzato nel tentativo ancestrale di dominare, a mani nude, un ambiente riottoso, pronto a sottrarre con violenza ciò che un attimo prima aveva dato. In seconda battuta, c’è la lotta fratricida tra due popoli, che si manifesta nella presenza dei soldati georgiani che pattugliano il confine con le loro barchette, alla ricerca dei ribelli. Sopraggiungono molesti, così come il rumore degli spari nella notte, a turbare la quiete della vita del contadino, scandita solo dai ritmi di un lavoro paziente, in balia della natura. Il terzo contrasto, non meno importante, è quello tra la prudente saggezza dell’uomo anziano e l’incosciente desiderio di emozioni della nipote sulla soglia dell’adolescenza. La routine lenta e faticosa che li unisce, al contempo li divide, determinando il sentore strisciante di una deflagrazione che non si consuma mai veramente. Almeno non a parole, in un’opera dove gli sguardi, le inquadrature – carrellate o movimenti di macchina a mano – e la fotografia in 35 mm – contano molto più dei dialoghi, ridotti all’osso per l’intera durata del film. Un film da festival, in cui la sceneggiatura è scarna, al pari delle battute, e il ritmo è dilatato. Un film dove l’immagine ha la meglio sulla parola, esibendoci, in tutto il suo crudele splendore, una natura tanto generosa quanto capricciosa. Il regista ce la mostra con estremo realismo, ai limiti del documentario. I due attori protagonisti contribuiscono a rafforzare questa poetica del reale, agendo davanti alla macchina da presa con grande naturalezza, parlando solo con gli occhi: solcato, lui, dalla fatica dell’età e dalle intemperie della vita – ma nonostante tutto determinato e teneramente preoccupato per la nipote – e animata, lei, da un bisogno di vita che la spaventa e la incoraggia al contempo. In questo deserto di comunicazione, non è tanto la parola a mancare, quanto le risposte alle domande che questa storia incompiuta di uomini suscita. Curiosità e desiderio di emozioni più forti che il regista non soddisfa, interessato più ai capricci della natura che a quelli degli uomini.
Un film di Eyal Sivan. Titolo originale Un spécialiste, portrait d’un criminel moderne. Documentario, durata 128 min. – Francia, Germania, Belgio, Israele, Austria 1999.
Montaggio di 2 delle 350 ore del processo ad Adolf Eichmann facendo riferimento al libro di Hannah Arendt La banalità del male. Uno dei più determinati criminali di guerra appare come un essere mediocre, che ha ‘eseguito il proprio lavoro’ con metodica e burocratica applicazione.
Oded, dottorando in fisica all’università, un giorno rientra in casa ad un’ora insolita e si accorge di non riconoscerla: tutto gli appare differente, come se non gli appartenesse, non fosse casa sua. Comincia allora a guardare ad ogni cosa in modo nuovo, nota ciò che prima non avrebbe notato, fa cose che non avrebbe fatto, spia la vita della moglie e del suo caseggiato dall’esterno. Più osa nei comportamenti insoliti e liberatori e più si allontana dalla compagna e dall’interesse per il lavoro. Assumendo un altro sguardo diventa un altro uomo. Secondo lungometraggio di Eran Kolirin, il film ben s’inserisce nel panorama della new wave cinematografica israeliana, le cui pellicole sono spesso ironiche parabole per immagini, allegorie della società e della politica nazionale, che sfruttano un paradosso per suscitare il riso e al contempo aprire degli interrogativi. Non è un caso, dunque, se The Exchange si apre con l’esposizione di un paradosso della fisica che conclude l’impossibilità di leggere la realtà obiettivamente: il pensiero va dritto alla questione israelo-palestinese, voluto o meno che sia. Cerebrale e algido, il film non consente una visione sempre appassionata e non sceglie mai tra commedia e dramma, mantenendo un tono intermedio molto difficile da gestire senza incorrere nel rischio di annoiare. Tocca però diversi elementi interessanti. Nella vita soddisfatta e completa di Oded, infatti, la rottura della normalità e l’escalation che segue aprono uno squarcio che lascia entrare una vitalità prima sconosciuta. Oded e la moglie stanno provando ad avere un bambino ma in realtà è lui stesso a fare delle prove di infanzia, concedendosi di derogare alle regole sociali adulte e (ri)scoprendo il proprio mondo come se lo vedesse per la prima volta. Il protagonista, dunque, altri non è che il regista cinematografico, sempre in cerca di un modo nuovo di inquadrare le cose (Oded che guarda dall’alto del suo ufficio, Oded che guarda dal basso del rifugio), con dei tempi che non sono razionali ma emozionali. L’adozione di questo sguardo più attento e critico del normale può diventare ossessione, malattia, al pari dei fenomeni di alienazione tipici dei malati di mente. La sindrome della messa in scena, vero e proprio gomito del tennista del cineasta, può portare l’artista a divenire spettatore della (propria) vita e non più attore attivo. Questo sembra dire Kolirin, quando previene i suoi personaggi dal soccorrerne un terzo, in occasione di un grave incidente. Il finale del film è un po’ sprecato ma lo spunto è indubbiamente interessante.
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