Un ex ballerino omosessuale ha solo due consolazioni: la figlia adottiva e i momenti in cui egli si traveste con sontuosi abiti femminili e si fa chiamare Madame Royale, durante festicciole con gli amici. Un giorno la figlia finisce nei guai e un losco commissario promette al ballerino di proscioglierla se egli accetterà di diventare spia della polizia. Il poveretto acconsente e viene eliminato dalla malavita.
Una ragazza si allontana dalla famiglia che l’opprime. Gli impieghi che trova non fanno che peggiorare la sua situazione; ben che vada il suo titolare vuol portarsela a letto. La conoscenza di un ragazzo tetro e insoddisfatto le crea altri problemi. I due predispongono addirittura un suicidio, che poi non realizzano perché tutto sommato è meglio restar vivi e volersi bene.
Un industriale milanese quarantenne, mentre sta recandosi a visitare il figlio in collegio, si imbatte in un gruppo di studenti diretti al mare. L’industriale accetta di accompagnarli e di trascorrere con loro il week-end. Messo alla berlina con una serie di scherzi, si invaghisce di una ragazzina che per qualche momento lo fa illudere di essere di nuovo ventenne. Ma, terminata la giornata festiva, la ragazzina se ne va coi suoi compagni e l’industriale deve rendersi conto che indietro non si torna.
Divertenti episodi in cui vizi e virtù dell’Italia in rovina sono messi in berlina. Un lettore di telegiornale (Mastroianni) piuttosto candido e distratto fa da filo conduttore ai vari episodi, presentati come servizi speciali di un allora inesistente TG3
1° episodio “Cocaina di domenica” (con N. Manfredi e A.M. Ferrero): coppia di giovani sposi prova per scherzo la cocaina; 2° episodio “Il professore” (con un memorabile U. Tognazzi): professore feticista installa in un armadio dell’aula un gabinetto per impedire alle allieve di uscire durante le lezioni; 3° episodio “Una donna d’affari” (con N. Manfredi e D. Wettach): musicista corteggia donna d’affari che lo fa sempre andare in bianco. Il 1° e il 3° sono novellette potabili, ma il 2°, scritto da M. Ferreri col vecchio complice Raphael Azcona, è un trattatello all’acido solforico sulla perversione.
Onesto travet si occupa, come componente della commissione interna di un’azienda farmaceutica (composta in prevalenza di donne), di problemi sindacali e viene scambiato per uno sfruttatore di donnine degli amori a pagamento. È diffusa nel film un’aria misogina che potrebbe anche incuriosire se non fosse assolutamente immotivata ed espressa in modi triviali da mediocre teatro di rivista. Trito esordio di U. Tognazzi nella regia con una sceneggiatura scritta da troppi.
Afflitto da un piccolo disturbo, industriale entra in una clinica di lusso per esami. I controlli, invece, non finiscono mai. Di piano in piano, in salita, finisce al settimo dove lo aspetta la “commare secca”. È il vero esordio nella regia di Tognazzi che prende lo spunto da un bel racconto di Dino Buzzati ( Sette piani ), circondandosi di parenti e amici tra cui la Bettoja e Ferreri. Bella pulizia, qualche invenzione azzeccata. Dallo stesso racconto l’autore cavò Un caso clinico , messo in scena nel 1953 al Piccolo Teatro di Milano.
Scalcinato detective privato che per pubblicizzarsi sfrutta con disarmante improntitudine l’assonanza fra le sue iniziali e l’acronimo della celebre agenzia investigativa federale americana. La soluzione di modesti casi gialli serve da pretesto a Tognazzi e agli sceneggiatori Age e Scarpelli per ritrarre con sapida ironia i molti vizi e le poche virtù della capitale: emerge infatti il ritratto caricaturale di un generone romano pieno di nostalgici del ventennio fascista (l’episodio “Sparita il giorno delle nozze”), di un manipolo di aristocratici decadenti (“Il ritorno di Ulisse”), di una pittoresca comunità di americani residenti a Roma (“La notte americana”), di un coacervo cafone di speculatori edilizi, tangentisti, lottizzatori e faccendieri assortiti (“Labbra serrate”), di un ambiente sportivo già allora corrotto dall’interferenza degli sponsor (“Getto della spugna”). Nell’episodio “Rapina a mano armata” ci si sposta invece in provincia per affrontare sorridendo un fenomeno drammatico, descritto così da uno degli stessi personaggi: «L’abbandono dei comuni agricoli, specie montani, e la corsa all’inurbamento del giovane che non può più vivere in queste località e sogna Roma, Milano, i denari facili e, preso dall’odio verso tutti, agisce compiendo fatti di cronaca». Insomma, un esempio pionieristico di serialità televisiva di buona fattura, dove il divertimento è sempre accompagnato dall’intento di inquadrare sullo sfondo un problema sociale o un fenomeno di costume.
Da un racconto di Vincenzo Cerami che l’ha sceneggiato con Citti. Una ventina di persone si spogliano nella stessa cabina – la n. 19 – di una spiaggia libera di Ostia in una calda domenica d’agosto. Con un colpo di genio pratico e poetico Citti risolve in una mossa sola 3 problemi: il basso costo, le esigenze commerciali, un’originale struttura drammatica. Allegria crudele, pessimismo ilare, ironia blasfema.
Roma 1922, alla vigilia della Marcia. Capitato in una famiglia di anarchici da operetta, giovane provinciale si fa passare per sovversivo inviato dalla Spagna per compiere un attentato. Film tutto di testa ma delizioso, di una buffoneria sempre lucida e controllata, senza una stecca né una concessione alla volgarità, alla facilità, con una durata comica eccezionale. Tutto è di gusto raffinato. Uno dei rari film comici di A. Delon. E di R. Clément
Fanatico di cinema arriva a Roma con l’ambizione di diventare un attore a tutti i costi. Dopo varie esperienze se ne tornerà al paese natio con le pive nel sacco. Il difetto sta nel manico: la sceneggiatura (B. Zapponi, Dino e Marco Risi) sembra tirata fuori da qualche cassetto dove giaceva dagli anni ’50. Ne soffrono anche i personaggi, tra i quali il più riuscito è quello di Maccione. Gassman, Tognazzi, Bouchet e Monicelli nel ruolo di sé stessi.
Una delle fantastiche avventure della bionda eroina dei fumetti: il suo viaggio nel pianeta Sogo alla ricerca di uno scienziato scomparso. Dai fumetti di Jean-Claude Forest che ha curato (discretamente) la sceneggiatura e (bene) la scenografia. Nonostante la futilità di fondo di questa favoletta a base di sesso un po’ sadico e di avventure spaziali, è un film gustoso, colorito, non privo di fantasia e humour. C’è anche il grande mimo Marcel Marceau. E i vestiti di Paco Rabanne. Titoli di testa da non perdere.
Dopo aver dedicato trent’anni alla sua squadra di provincia che gioca in serie A sempre in bilico sulla retrocessione, un direttore tecnico viene messo da parte da un nuovo padrone rampante. Non s’è mai fatto in Italia un bel film sul calcio; questa dolceamara commedia con la sordina ha il merito di raccontare l’ambiente calcistico e i suoi retroscena con un minimo di realismo critico: mostra quel che la TV non fa mai vedere. U. Tognazzi ci mette l’anima, e l’amarezza. Scritto dai fratelli Pupi e Antonio Avati con Italo Cucci e Michele Plastino, giornalisti sportivi. Nastro d’argento e David di Donatello alle musiche di Riz Ortolani. David anche al suono di Raffaele De Luca.
Tornato al paese romagnolo nativo con fama di eretico burlone, il barone Anteo Pellicani, detto Gambina Maledetta, zoppo per la caduta da un fico miracoloso, s’impegna a combattere contro il mondo della sua infanzia. Pur con scompensi di costruzione è, in bilico tra il grottesco e il fantastico, un film bizzarro, insolito, originale. Una bella galleria di maschere ripugnanti.
Carlo Tettazze vince al gioco e va a Roma deciso a divertirsi, ma durante il viaggio viene derubato. Odissea alla ricerca di un prestito. Racconto originale, svelto e spiritoso, in cui si sente la mano di Marcello Marchesi con Age & Scarpelli. Tognazzi per la 1ª volta in un ruolo importante. La Pampanini tenta di non essere solo bella.
La vita privata del violinista Sergio Masini è complicata: ha moglie con tre figli e due amanti. Il tremendo carosello di prove d’amore e di conti da pagare lo stronca. Dopo Signore e signori (1965), Germi inaugura la serie delle commedie della bontà. Lontanamente ispirato alle vicende di Vittorio De Sica, il suo è il ritratto di un santo della poligamia che vorrebbe benedetta dalla Chiesa e dallo Stato. Commedia troppo compassata, senza artigli, priva di un vero finale, con un Tognazzi bravo come al solito ma fuori parte.
Architetto lui, architetta lei, si sposano negli anni eroici del dopoguerra, hanno quattro figli e sognano una società nuova. A poco a poco il matrimonio si logora, lui cerca distrazioni con un’altra donna, lei finisce in clinica. Il boom degli anni ’60 ha corrotto anche loro. Uno dei migliori film di Loy (1925-95), scritto con Ruggero Maccari. Concilia il divertimento con l’analisi sociale e l’impegno morale. Una delle migliori interpretazioni di N. Manfredi con un numero memorabile di U. Tognazzi.
Commissario in una imprecisata città veneta, Antonio Pepe è uomo posato e di cultura, comprensivo e efficiente nel proprio lavoro, ha un buon rapporto con i colleghi e una storia d’amore che preferisce tenere nascosta. Quando riceve l’ordine di indagare sui reati di carattere sessuale che si consumano nella sua area di competenza scoprirà l’insospettabile faccia nascosta di un luogo in cui sono all’ordine del giorno prostituzione minorile e orge altolocate, suore lesbiche e medici innamorati di giovani calciatori. Dopo Signore e signori di Pietro Germi, la commedia all’italiana torna a indagare su quell’apparente perbenismo del Nord Est sotto al quale brulicano insopportabili ipocrisie e sempiterne storie di corna. Sono bastati pochi anni, però, per inasprire il tono così che dalla satira di un certo modo di intendere e condurre la vita si è arrivati ad una critica sociale molto più amara. Alla quinta regia di un lungometraggio, Ettore Scola dimostra di saper andare a fondo in una materia di difficile gestione, tenendosi a distanza dall’ansia della predica e senza la pretesa di voler redimere nessuno. Qualche macchietta di troppo, il vecchio ubriacone o l’appuntato, tra gli altri, appesantiscono la prima parte di un lavoro che può essere considerato, insieme al precedente Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, come lo spartiacque verso la maturità dell’autore. Forse Antonio Pepe, interpretato da un Ugo Tognazzi straordinariamente in parte, morbido e sottile, è il primo grande personaggio dello Scola regista, una di quelle figure indignate e perdenti tipiche di un certo cinema, un uomo capace di fare scelte etiche importanti, lontano dalla collusione con quei meccanismi del potere che finiscono col far pagare agli umili le colpe dei potenti. Su sceneggiatura dell’autore e di Ruggero Maccari, ispirata al romanzo omonimo del veneto Ugo Facco De Lagarda, Il commissario Pepe è anche un film volutamente impregnato degli umori del tempo: ci sono diretti riferimenti alle lotte sessantottesche come alle manifestazioni contro la guerra in Vietnam o alla Primavera di Praga con l’immagine – in primo piano – dello studente Jan Palach, morto nel gennaio di quello stesso 1969. A livello stilistico, non risultano sempre omogenei al racconto i momenti in cui il commissario immagina/sogna le proprie possibili reazioni davanti ad alcune situazioni che si trova a vivere. Molto tipica la colonna sonora di Armando Trovajoli.
Quattro amici _ un giudice (Noiret), un pilota di linea (Mastroianni), un ristoratore (Tognazzi), un produttore TV (Piccoli) _ si riuniscono in una villa di Neuilly, fuori Parigi, decisi a compiere un quadruplice harakiri gastronomico-erotico. Li accompagna, pingue angelo della morte, un’insaziabile e materna maestra (Ferréol). Scritto con Rafael Azcona, è probabilmente il più grande successo internazionale (di scandalo) nell’itinerario di Ferreri. Questo apologo iperrealista ha gli scatti di una buffoneria salace e irriverente, i toni furibondi di una predica quaresimalista e, insieme, l’empietà provocatrice di un pamphlet satirico; e chi lo prende per un film rabelaisiano, non ne ha inteso la sacrale tristezza. C’è piuttosto l’umor nero, la mestizia, la disperazione di uno Swift. Con qualcosa in più: la pena. La sua forza traumatica risiede nella calma lucidità dello sguardo, e nell’onestà di un linguaggio che Ferreri conserva anche e soprattutto quando non arretra davanti a nulla. Se si esclude parzialmente Mastroianni, forse il meno riuscito del quartetto, i personaggi non sono mai volgari. Nonostante le apparenze realistiche (di un neorealismo fenomenico e irrazionalistico), sfocia nel clima allucinato di un apologo fantastico come certi segni e invenzioni suggeriscono. Fotografia di Mario Vulpiani, costumi di Gitt Magrini, pietanze di Fauchon (Parigi). Premio Fipresci a Cannes 1973. Distribuito nei paesi di lingua inglese come Blow-out.