California, anni ’60. Bob Crane, popolare dj, accetta la proposta del suo agente e diventa il protagonista della serie tv Hogan’s Heroes. La serie ha un successo enorme, ma Crane non sembra intenzionato ad approfittarne in alcun modo: marito e padre devoto, vorrebbe apparentemente restare tale. Ma l’incontro col tecnico video John Carpenter, incallito frequentatore di night club e sessuomane impenitente, stravolgerà la sua vita.
Dopo 18 anni in una prigione di massima sicurezza, Earl Copen è un carcerato modello: influente, temuto e rispettato dai compagni di cui sbriga le pratiche, in ottimi rapporti con le guardie. Con Ron Decker, borghese 20enne ultimo arrivato con una condanna per spaccio di droga, instaura un affettuoso rapporto platonico di tipo paterno e con lui studia un piano di evasione. 2° film dell’attore S. Buscemi, è scritto, con John Stepling, da Edward Bunker che l’ha tratto da un proprio romanzo e che ha la piccola parte del detenuto Buzzard. Film carcerario, soltanto in apparenza in linea con il repertorio retorico del genere, dà poco spazio all’azione: è la storia dell’incontro tra due solitudini, non quella di un’educazione. Diretto in modo neutrale, è un film d’attori.
Jack Ryan, uomo della Cia, è coinvolto suo malgrado in un’azione fatta eseguire segretamente dallo stesso presidente degli Stati Uniti contro alcuni membri del cartello colombiano della droga. Non un’azione di pulizia, ma solo il tentativo di evitare al presidente stesso di essere coinvolto in uno scandalo, visto che uno dei narcotrafficanti era un suo amico.
Come un puzzle, la vicenda ha una partenza disagevole, che trova la sua logica narrativa nella seconda parte. Una giovane donna incontra due rapinatori di banche. Con uno di loro stabilisce uno strano legame dal quale non è escluso l’interesse. Conosce un giovane misterioso del quale si innamora: l’uomo fugge, inseguito dai servizi segreti di una superpotenza, portandosi appresso uno strano marchingegno con il quale cattura immagini che intende consegnare alla madre affetta da cecità e che potrà vedere tali immagini. L’inventore dell’apparecchio è il padre stesso del giovane. Ma il vecchio scienziato è in aperto dissidio con il figlio a causa di una diversa visione dell’esistenza. La madre potrà vedere le immagini e morirà. L’evento scatena alterne reazioni tra chi era presente all’esperimento. Ciascuno oppresso da un diverso destino e con un futuro carico di incognite. Costato 23 milioni di dollari, il film è un kolossal dell’anima. Wenders lo dissemina di inidizi e personaggi che conducono in un vicolo cieco. La prima parte è un rompicapo nel quale ogni sequenza non è la conseguenza della precedente. In seguito tutto sembra assumere un tono più solenne e nobile. Ma l’ermetismo delle metafore di Wenders ha come traguardo la sua ossessione per l’olocausto che attende l’umanità. Tuttavia una fastidiosa scenografia di stampo teutonico dà l’impressione che il film sia stato realizzato in un grande magazzino tedesco. La colonna sonora raccoglie il meglio della scena musicale rock (U2, R.E.M., Lou Reed, Talking Heads e molti altri). William Hurt si aggira per il film con aria assente facendo forse rimpiangere che Wenders non sia riuscito a convincere Sam Shepard e Willem Dafoe, ai quali il regista aveva chiesto di interpretare il ruolo.
Il detective Havenhurst viene chiamato sulla scena di un crimine. Una donna anziana è stata infilzata con una spada orientale in una casa vicina alla sua abitazione. I sospetti non possono che cadere sul figlio di lei, Brad, che, armato di fucile, afferma di avere con sé due ostaggi. Attraverso le ricostruzioni della fidanzata e di un regista teatrale emerge progressivamente la psicologia del giovane. Secondo film in Concorso di Werner Herzog a Venezia 66. Due film dello stesso autore nella stessa competizione sono già di per sé un fatto anomalo. Se poi si aggiunge che si tratta del connubio tra Herzog e Lynch che produce il film la cosa si fa ancor più degna di attenzione. Poteva sembrare un’unione contro natura quella tra i due e invece il regista del confronto con il limite e analista acuto del suo possibile superamento si trova assolutamente a suo agio nelle atmosfere lynchiane così apparentemente astratte e invece così radicalmente reali.
Patrick Bateman incarna alla perfezione i ‘valori’ di riferimento degli arrivisti degli Anni Ottanta. I suoi abiti sono tutti firmati, frequenta i club e i ristoranti giusti e non dimentica le periodiche frequentazioni della palestra più ‘in’. Lavora a Wall Street e tiene tutti a distanza di sicurezza: “Non toccatemi il Rolex” è una frase che lo identifica. Dietro questa facciata è nascosto un mostro che di notte, strafatto di droghe, sgozza mendicanti e prostitute. Le donne che lo circondano (la fidanzata Evelyn, l’amante Courtney e la segretaria Jean) non sospettano nulla. Persino il detective Donald Kimball viene attratto e depistato dalla sua personalità. Finché Patrick non si imbatte nel suo sosia: Paul Allen. Tratto da un romanzo di Bret Easton Ellis, il film ha fatto discutere tutta l’America per la carica di violenza che contiene.
C’è del marcio a Boston. Il sangue versato dalla mafia si mescola con la buona birra irlandese. Il retrogusto è quello della vendetta e del castigo divino. I fratelli Mac Manus credono nella figura del Dio punitore e ritengono sia l’ora di fare piazza pulita. Se il creatore scatenò le piaghe d’Egitto, i due giovani sceriffi fai da te applicheranno un’epurazione totale. Spacciatori, stupratori, assassini. La punizione si trasforma in un dovere da rispettare tutti i santi giorni. tutti ben caratterizzati. Con la ricostruzione postuma della polizia che risulta il meccanismo scenico più ispirato.
È il film più sottovalutato del 2011, ma vale la pena di vederlo anche soltanto per il duetto Ganz/Piccoli nella 2ª parte. È un lungo viaggio nel tempo: dal 1949-1953 al 31 dicembre 1999. Altrettanto lungo il viaggio nello spazio: Mosca, Siberia, Austria, Berlino, Roma, Parigi, Toronto. Si passa da un evento storico all’altro: arrivo di immigrati greci di sinistra, morte di Stalin, destalinizzazione (parziale), persecuzione degli ebrei all’Est. È la 2ª parte di una trilogia, scritta dal vecchio Anghelopulos con Petros Markaris e Tonino Guerra, aperta con La sorgente del fiume (2004). Come l’altro, è un film di molte bellezze e dai toni svarianti, qua e là inaridito non tanto dal manierismo, ma dai passaggi temporali (flashback) troppo ellittici o troppo compiaciuti sul tema del titolo, le paure, gli smarrimenti, le insicurezze. Nello scavo e nei contrasti dei sentimenti è forse il film più melodrammatico di Anghelopulos, ma non sembra un demerito. Non a caso la fotografia di Andrea Sinasos indugia sulla nebbia, sul buio, e le musiche di Eleni Karaindrou (pianoforte, organo, canzoni) hanno un’importante funzione narrativa. Ammirevole prova degli attori, compresa la Jacob nella difficile parte di madre e nonna. Finale liberatorio finalmente aperto sul futuro.
Tratto da un romanzo (1955) del greco Nikos Kazantzakis, si alimenta di tre idee strutturali. La prima è di raccontare un uomo che tenta di opporsi alla scoperta della propria divinità e che avrebbe potuto vivere una vita comune, ma è costretto ad accettare la sua missione ubbidendo a Dio padre. Questa è la parte che ha dato esca allo scandalo. La seconda idea è il rapporto di Gesù (Dafoe) con Giuda (Keitel), presentato come il primo, il più intelligente e appassionato dei suoi seguaci, costretto a tradirlo dal disegno divino, e con Maria Maddalena (Hershey), diventata prostituta a causa del suo rifiuto di amarla. La terza idea è la dimensione figurativa: Scorsese rifiuta i tre modelli cinematografici a disposizione (il colossal hollywoodiano, Rossellini, Pasolini) e persegue una propria via, discutibile ma sicuramente personale. Recupera la cultura cattolica meridionale di Little Italy di cui s’è alimentato nell’infanzia, la filtra attraverso la sua memoria di cinéphile onnivoro e la “cristologia” rock degli anni ’70 (eloquente la scelta di Peter Gabriel per le musiche) e tenta persino di rappresentare Cristo in modi “barbarici” come potrebbero vederlo uomini africani o latinoamericani, di cultura diversa da quella euro-occidentale. Il suo è un Dio delle debolezze che ha preso sul serio l’incarnazione e che ha uno spessore teologico maggiore di quel che è sembrato alla maggioranza dei critici e dei cattolici scandalizzati.
Quattro persone vestite da imbianchini entrano nell’affollata hall del Manhattan Trust, una succursale di un’istituzione finanziaria internazionale a Wall Street. Nel giro di pochi secondi, i rapinatori mascherati mettono la banca sotto un assedio pianificato con chirurgica precisione, e i 50 tra clienti e impiegati diventano involontari ostaggi di un furto inattaccabile. I negoziatori degli ostaggi della Polizia di NY, i Detective Keith Frazier e Bill Mitchell vengono mandati sul luogo con l’ordine di stabilire un contatto con il capo dei rapinatori, Dalton Russell, e di assicurare il rilascio degli ostaggi. Ma le cose non vanno come previsto.
Un gruppo di giovinastri russi chiaramente cattivissimi, capeggiati dall’odioso figlio di un super boss, gli rubano la Mustang del 1969 e gli uccidono il cucciolo beagle, regalo postumo della defunta adorata moglie, per la quale aveva lasciato tutto e cambiato vita. Lui, John Wick, il cui solo nome fa tremare i più, disseppellisce le armi e fa un quarantotto. Sarabanda senza limiti né pudore di scazzottate, violenze varie e sparatorie, i morti non si possono contare, credibilità zero. Dialoghi inascoltabili. Tutti molto ben vestiti in una New York iperrealistica supermoderna e corrotta in cui appaiono brevemente interpreti come Ian McShane, John Leguizamo, Bridget Moynahan e Lance Reddick.
Già noto attore e clown ebreo nella Berlino prebellica, Adam Stein è ricoverato in una clinica israeliana dove si curano i superstiti dei lager nazisti di sterminio. Scampato grazie a Klein, sadico comandante di un campo, che l’aveva costretto a fare il suo cane, camminando a quattro zampe, Adam è tormentato dai sensi di colpa perché sopravvissuto alla morte della moglie e della figlia. Attraverso un nuovo paziente della clinica rinchiuso in una cella separata, riesce faticosamente a riprendersi. Tratto dal romanzo omonimo (1968) di Yoram Kaniuk, adattato da Noah Stollman, ambientato in una clinica la cui architettura è ispirata allo stile della Bauhaus e girato in una fotografia altrettanto stilizzata, in un BN dominato dal bianco, è una storia di salvazione che ha il suo contrappunto in quella di David, un bambino convinto di essere un cane che impara a camminare grazie ad Adam, costretto a esserlo. È uno dei più originali, visionari – e dei più impervi – film sulla tematica della Shoah, così insolito che fu distribuito debolmente anche negli USA da chi lo riteneva inadatto a trovare un qualsiasi pubblico. Straordinaria interpretazione di Goldblum.
Troy, Mad Dog e Diesel si sono conosciuti in carcere e hanno formato un sodalizio che dura anche fuori dalle sbarre. La loro quotidianità è fatta di violenza efferata e sopraffazione, perpetrata e subìta. Un boss affida loro l’incarico di rapire un bambino ma le cose si complicano e il trio si trova a sfuggire a tutori della legge e malviventi in egual misura.
Da un romanzo di Barry Gifford. Sailor, in libertà vigilata, e Lula, scappata di casa, si amano follemente e tentano di raggiungere il Texas. Thriller d’inseguimento che ha cadenze di film nero, modi di un film di strada ed eccessi di violenza da melodramma gotico. Lynch connota la sua storia maledetta del profondo Sud con una dimensione ironica e parodistica che ne rovescia il senso e ne rivela la vera natura di favola comica, nel significato “basso” della parola, ma anche vicino al fumetto, quella di due innamorati che attraversano un mondo atroce dal cuore selvaggio. Anche quando apparentemente s’accomoda alle leggi di un genere, Lynch rimane un visionario impressionista e grottesco che guarda all’America di oggi con occhio impietoso. Palma d’oro a Cannes.
Ron Kovic, nato il 4 luglio 1946, si arruola nei Marines e torna dal Vietnam, nel 1968, paralizzato nella parte inferiore del corpo e impotente. Attraverso varie esperienze arriva a una presa di coscienza pacifista e porta la sua testimonianza alla Convenzione Democratica del 1976. Tratto dal libro autobiografico di Kovic, è un esercizio di alta retorica antimilitarista contro l’intervento USA in Vietnam, il fanatismo nazionalista, la mistica patriottica, il culto del successo. Ne esce un diseguale film epico con ambizioni di tragedia storica, sequenze corali di forte suggestione spettacolare e pagine di irritante enfasi o didascalica pesantezza. Fino a quel momento idolo delle ragazzine americane, Cruise esce dal suo status di sex symbol, calandosi nel personaggio con ammirevole impegno. Oscar per la regia e il montaggio.
Negli Stati Uniti d’inizio anni ’40, Stan, uomo senza averi e dal passato doloroso, si unisce a un luna park ambulante, dove impara i trucchi del mestiere dalla veggente Zeena e da suo marito Pete. Sedotta la giovane Molly, il cui numero consiste nel resistere alle scariche elettriche che le attraversano, parte con lei verso la grande città. Ambizioso e avido, diventa il Grande Stanton, indovino e sensitivo che col suo numero di pseudo occultismo seduce uomini ricchi e potenti e li convince di poter comunicare coi loro morti.
In una Los Angeles, una volta tanto non da copertina, si combatte la lotta senza esclusioni di colpi tra un falsario assassino (Dafoe) e due poliziotti decisi a eliminarlo a ogni costo.Ma il confine tra il bene e il male appare sempre più sfumato. Ancora una volta Friedkin confeziona un film di grande successo e di azione travolgente, avvincente e violento quanto basta.
Oliver Stone, il regista, racconta la sua reale esperienza in Vietnam, l’abbruttimento disumano dei combattenti. Partito volontario “perché non trovava giusto che a combattere fossero solo i poveri o gli uomini di colore”, Chris vive la bestialità orrenda alla quale sono ridotti i soldati dalla droga e dalla violenza quotidiana. E anche dal violento sergente Barnes colpevole del massacro di un intero villaggio e più tardi dell’omicidio di Elias, che era stato testimone delle sue atrocità. Durante un’azione di guerra Chris, scampato ai vietcong, che hanno decimato il suo plotone, si trova faccia a faccia con Barnes e lo uccide. “Abbiamo combattuto contro noi stessi”, pensa Chris. Premio Oscar al film e a Stone.
Toscana, verso la fine della guerra 1939-45: Hana (Binoche), infermiera canadese innamorata di un artificiere indiano (Andrews), accudisce un misterioso paziente inglese (Fiennes) dal viso sfigurato di cui si rievoca in flashback l’illegittima e tragica passione per Katharine (Scott Thomas), incontrata in Egitto prima della guerra. Da un romanzo (1992) di Michael Ondaatje, un filmone a grande spettacolo dal passo lungo, ma europeo come gusto, timbro e persino a livello tecnico. Ci si può trovare un po’ di tutto: Lean, Bertolucci, l’Indiana Jones di Spielberg, il bellico hollywoodiano, i melodrammi del corpo e del cuore di Sirk, spionaggio, amore interrazziale, nazisti cattivi, inglesi con self-control (ma ribollenti dentro), erotismo, esotismo, suspense, emozioni d’arte figurativa (graffiti preistorici nel Sahara, affreschi di Piero della Francesca), il Sahara, i colli toscani e il Cairo. 9 premi Oscar: film, regia, attrice non protagonista (J. Binoche), fotografia (John Seale), scenografia, costumi, montaggio, colonna sonora drammatica, sonoro.
Walter Hill, maestro dei film d’azione, ricrea i temi e le atmosfere tipiche della “frontiera” trasponendole in un’ambientazione suburbana di imprecisa collocazione temporale. Il suo film è un western post-moderno, dove un eroe solitario armato di Winchester e muscoli (Paré) corre al salvataggio della sua bella (Lane), superdiva rock rapita dalla banda di teppisti motorizzati capeggiata dal cattivissimo Raven (Dafoe, che rivedremo in Platoone L’ultima tentazione di Cristo). Non mancano sparatorie, brutti ceffi, inseguimenti e, naturalmente, il duello finale. Il tutto sottolineato da un’eccellente colonna sonora (Ry Cooder tra gli autori).