Regia di Guillermo Del Toro. Un film con Bradley Cooper, Cate Blanchett, Rooney Mara, Toni Collette, Willem Dafoe. Titolo originale: Nightmare Alley. Genere: Thriller, Noir, Drammatico. Paese: USA, Canada, Messico. Anno: 2021. Durata: 150 min. Consigliato a: da 14 anni. Valutazione IMDb: 7.0.
Stanton Carlisle, un uomo enigmatico e con un passato oscuro alle spalle, trova lavoro in un carnival itinerante negli anni ’30. Qui impara l’arte del mentalismo e della lettura a freddo. Abbandonando il circo con l’ingenua Molly, decide di portare il suo talento nelle lussuose sale della high society, spacciandosi per un medium con l’abilità di comunicare con i defunti, un trucco chiamato “spook show”. La sua brama di successo e denaro lo spinge a osare l’impossibile, stringendo un’alleanza pericolosa con la cinica e affascinante psichiatra Lilith Ritter, con l’obiettivo di truffare i ricchi e potenti, ma finendo per scivolare in una spirale di inganni e tradimenti che minaccia di distruggerlo.
Questa pellicola è il secondo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo noir di William Lindsay Gresham, e Del Toro sceglie di concentrarsi sulla discesa morale del protagonista. I temi principali esplorati sono l’ambizione sfrenata, la manipolazione, il confine labile tra spettacolo e truffa, e il concetto di destino ineluttabile. Il film è strutturato in due atti visivamente distinti: il mondo sporco e onesto del carnival e quello patinato ma ugualmente corrotto della città. La regia è elegante e meticolosa, facendo ampio uso di inquadrature simmetriche e una fotografia sontuosa che evoca il classico noir degli anni ’40, con l’assenza quasi totale di elementi fantastici, a differenza delle precedenti opere del regista. Il cast è eccezionale, con Bradley Cooper che offre una performance di grande spessore nel ruolo dell’antieroe che si autodistrugge, supportato da una glaciale Cate Blanchett. La Fiera delle Illusioni è un thriller psicologico impeccabile per ambientazione e tono, lodato per la sua fedeltà al genere noir e la sua estetica viziosa e sofisticata, anche se la sua lunghezza e l’estrema oscurità tematica lo rendono un’opera intensa e a tratti pessimista.
Regia di Bill Couturié. Un film con Tom Berenger (voce), Ellen Burstyn (voce), Willem Dafoe (voce), Robert De Niro (voce), Michael J. Fox (voce). Titolo originale: Dear America: Letters Home from Vietnam. Genere: Documentario, Guerra, Storico. Paese: USA. Anno: 1987. Durata: 87 min. Consigliato a: da 13 anni (PG-13). Valutazione IMDb: 7.9.
Il documentario trasporta lo spettatore nel cuore della Guerra del Vietnam attraverso la voce autentica dei soldati americani. La narrazione è composta dalla lettura di lettere reali scritte dai militari al fronte alle loro famiglie e amici a casa. Queste missive personali, lette da un cast corale di noti attori, si fondono con un’accurata selezione di filmati d’archivio, tra cui cinegiornali dell’epoca e riprese del Dipartimento della Difesa, per offrire una prospettiva intima e non filtrata del conflitto. Il film copre il periodo cruciale della guerra, dalla partenza al fronte fino al rientro.
L’opera è un potente mosaico di immagini d’epoca e parole toccanti che eleva la narrazione storica a esperienza emotiva diretta. I temi centrali sono il trauma, l’alienazione, la paura costante e la disillusione dei giovani inviati in un conflitto di cui spesso non comprendevano il senso. La regia di Couturié è impeccabile nell’assemblare il materiale d’archivio, creando un flusso narrativo coeso e visivamente devastante, dove le immagini supportano e a volte contrastano la sincerità delle lettere. Le interpretazioni vocali, pur essendo solo audio, sono intense e credibili, prestando profondità alle parole dei soldati. L’innovazione stilistica risiede proprio nell’uso esclusivo di materiale originale (filmati e lettere), trasformando il documentario in una testimonianza storica essenziale che ha avuto un notevole impatto culturale, contribuendo a umanizzare la memoria dei veterani del Vietnam. È un documento storico acuto e straziante, lontano da ogni retorica.
Regia di Andrew Stanton. Un film con Taylor Kitsch, Lynn Collins, Samantha Morton, Willem Dafoe, Mark Strong. Titolo originale: John Carter. Genere: Fantascienza, Avventura, Azione, Fantasy. Paese: USA. Anno: 2012. Durata: 132 min. Consigliato a: da 11 anni. Valutazione IMDb: 6.6.
Ambientato immediatamente dopo la Guerra Civile Americana, il film presenta John Carter, un cinico ex capitano confederato, che dopo essere sfuggito alla cavalleria e agli Apache, viene misteriosamente teletrasportato su Marte, noto ai suoi abitanti come Barsoom. Qui, a causa della minore gravità, acquisisce una forza e capacità di salto straordinarie. Si ritrova presto nel mezzo di una guerra epica tra le diverse specie marziane, inclusi i giganteschi Thark dalla pelle verde e le fazioni umane di Zodanga ed Helium, difendendo la bellissima e intelligente principessa Dejah Thoris.
Tratto dalla centenaria saga letteraria di Edgar Rice Burroughs, il film si confronta con i temi classici della fantascienza pulp: l’eroe in un mondo alieno, la guerra per la sopravvivenza, l’amore interspecie e il disincanto verso il conflitto. La regia di Andrew Stanton (già maestro Pixar) dimostra una notevole ambizione visiva, creando un Marte desolato ma ricco di creature e tecnologie fantastiche. Sebbene tecnicamente il film sia di alto livello, con effetti visivi impressionanti e una world-building curata, l’eccessiva densità di trama e personaggi finisce per appesantire il ritmo, rendendo le interpretazioni (con un Taylor Kitsch che fatica a bucare lo schermo) meno memorabili. Nonostante le critiche e l’insuccesso commerciale, il film è un’opera visivamente sbalorditiva e un omaggio fedele (forse troppo) a un testo che ha ispirato generazioni di autori successivi.
C’è del marcio a Boston. Il sangue versato dalla mafia si mescola con la buona birra irlandese. Il retrogusto è quello della vendetta e del castigo divino. I fratelli Mac Manus credono nella figura del Dio punitore e ritengono sia l’ora di fare piazza pulita. Se il creatore scatenò le piaghe d’Egitto, i due giovani sceriffi fai da te applicheranno un’epurazione totale. Spacciatori, stupratori, assassini. La punizione si trasforma in un dovere da rispettare tutti i santi giorni. tutti ben caratterizzati. Con la ricostruzione postuma della polizia che risulta il meccanismo scenico più ispirato.
Walter Hill, maestro dei film d’azione, ricrea i temi e le atmosfere tipiche della “frontiera” trasponendole in un’ambientazione suburbana di imprecisa collocazione temporale. Il suo film è un western post-moderno, dove un eroe solitario armato di Winchester e muscoli (Paré) corre al salvataggio della sua bella (Lane), superdiva rock rapita dalla banda di teppisti motorizzati capeggiata dal cattivissimo Raven (Dafoe, che rivedremo in Platoone L’ultima tentazione di Cristo). Non mancano sparatorie, brutti ceffi, inseguimenti e, naturalmente, il duello finale. Il tutto sottolineato da un’eccellente colonna sonora (Ry Cooder tra gli autori).
Thomas Wake è il guardiano stagionale di un faro sperduto nel nulla, su un’isola battuta da venti e tempeste, nella Nuova Scozia di fine Ottocento, mentre Ephraim Winslow è il suo giovane aiutante, propostosi volontario per le quattro settimane del turno. L’accanirsi del maltempo costringerà i due uomini ad una permanenza ben più lunga del previsto e ad una convivenza forzata che porterà in superficie demoni personali, timori ancestrali e nuove, tormentate pulsioni, in un crescendo di follia e claustrofobia.
Peter Parker è un giovane studente di college, non particolarmente brillante, che vive assieme agli amati zii ed è segretamente innamorato della bellissima Mary Jane Watson. Durante una visita a un laboratorio, il giovane viene morsicato da un ragno che ha fatto da cavia per numerosi esperimenti. Il giorno dopo Parker vede la sua massa muscolare aumentare, la miopia scomparire, i cinque sensi acuirsi e si rende conto di poter lanciare dai polsi delle resistenti ragnatele, ma purtroppo per lui l’euforia dura poco: lo zio viene infatti ucciso durante una rapina. Sconvolto dal dolore e desideroso di mettere a frutto i suoi poteri senza svelare la sua vera identità, si disegna un costume rossoblu con l’effige di un ragno: Spiderman è nato… Frutto di anni e anni di dubbi, ripensamenti, riscritture della sceneggiatura e della ricerca affannosa del cast e del regista adatto, Spiderman è un film entusiasmante e al tempo stesso discontinuo. La nascita del mito, che si prende delle libertà rispetto all’originale del fumetto, è necessariamente lenta e ragionata e pone le fondamenta per gli sviluppi che seguiranno, mentre la seconda parte della pellicola, caratterizzata dallo scontro tra l’eroe e Goblin, nemesi storica, è assolutamente spettacolare. Felice la scelta del cast: Tobey Maguire, di certo non un “bello da copertina”, è perfetto per interpretare Peter Parker, Kirsten Dunst è un Mary Jane dolce ma risoluta al tempo stesso e Willem Dafoe si dimostra villain di spessore. Attorno a essi, un vario gruppo di ottimi caratteristi e tanti camei di gran pregio che permettono al film di cambiare registro da un momento all’altro. Sullo sfondo, una New York non pacificata e ancora terrorizzata dall’11 settembre: mai come ora Spiderman non è solo un “supereroe con superproblemi” ma l’ultima speranza per una nazione allo sbando. Sam Raimi, che aveva già una certa esperienza (sui generis…) nell’ambito superoistico (Darkman) riesce a fondere nella sua opera l’amore per il fumetto originale con l’originalità e l’eclettismo che ha contraddistinto la sua carriera cinematografica e con l’aiuto di ottimi effetti speciali confeziona un pregevole blockbuster capace in alcune sequenze, come quella del bacio tra Spiderman e Mary Jane o quella del salvataggio in extremis di quest’ultima, di restare indelebilmente impresso negli occhi e nel cuore del pubblico.
Ron Kovic, nato il 4 luglio 1946, si arruola nei Marines e torna dal Vietnam, nel 1968, paralizzato nella parte inferiore del corpo e impotente. Attraverso varie esperienze arriva a una presa di coscienza pacifista e porta la sua testimonianza alla Convenzione Democratica del 1976. Tratto dal libro autobiografico di Kovic, è un esercizio di alta retorica antimilitarista contro l’intervento USA in Vietnam, il fanatismo nazionalista, la mistica patriottica, il culto del successo. Ne esce un diseguale film epico con ambizioni di tragedia storica, sequenze corali di forte suggestione spettacolare e pagine di irritante enfasi o didascalica pesantezza. Fino a quel momento idolo delle ragazzine americane, Cruise esce dal suo status di sex symbol, calandosi nel personaggio con ammirevole impegno. Oscar per la regia e il montaggio.
È il primo novembre 1975 a Roma ed è l’ultimo giorno di Pier Paolo Pasolini. Il suo mattino comincia col bacio di sua madre. Susanna lo richiama dal sonno e lo ritrova dopo un viaggio a Stoccolma, dove si è occupato della traduzione del volume, “Le ceneri di Gramsci”. Incalzato dalla censura per Salò o le 120 giornate di Sodoma, intervistato “sulla situazione” e per La Stampa da Furio Colombo e avviato “Petrolio”, un romanzo che insegue nella sua testa due personaggi-narratori (Carlo, ingegnere della borghesia torinese, e Andrea Fago, unico sopravvissuto a un incidente aereo), Pier Paolo fa colazione con caffè e Corriere (della Sera). Più avanti nella giornata pranza con Nico Naldini e Laura Betti, che ha appena prestato la voce ‘demoniaca’ a Linda Blair (L’esorcista) e quella orgiastica a Hélène Surgère (Salò o le 120 giornate di Sodoma). Congedati gli ospiti scrive a Eduardo De Filippo di Re Magi e Messia e infila la sua Alfa Romeo e la notte romana, dove incontra Nunzio, l’angelo custode di Epifanio e di un film che rincorre la cometa ma che non vedrà mai la luce (Porno-Teo-Kolossal). Perché Pier Paolo sprofonderà negli occhi neri di Pino Pelosi e nel buio di Ostia, muta davanti al massacro di un poeta. Alla maniera di “Petrolio”, romanzo incompiuto di Pierpaolo Pasolini, Pasolini è un film che non si può raccontare, perché nulla si svolge al suo interno eppure accade in continuazione qualcosa. L’impossibilità di narrazione non appartiene al film ma ad Abel Ferrara, che ‘ammette’ l’incapacità di restituire il vissuto del poeta. Perché ci sono cose, come sosteneva Pasolini e sostiene il suo doppio sullo schermo, che si vivono solo attraverso il corpo. Per quanto ci accaniamo a ricostruirle, immaginarle o interpretarle non sono più le stesse vissute attraverso un altro corpo. Ferrara denuncia subito lo scarto, la distanza che lo separa dal corpo reale del poeta friulano ed espone con pudore la difficoltà che ha incontrato. Un pudore commovente che dice bene del mistero, del mistero che è morto con Pasolini, di una continuità che si è interrotta con la sua morte. Se è vero che solo Pasolini poteva significare se stesso, nondimeno il regista lo mette in scena in un atto unico, aperto ai sensi e scaraventato dentro alla memoria e alle sue visioni personali. Lo afferra a intermittenza nei tratti spigolosi di Willem Dafoe e ricorrendo a frammenti, a visioni parziali del suo corpo nel teatro del delitto, alla sovraimpressione, alle immagini che non esistono mai isolate ma sempre in rapporto con le altre. Non immagini uniche ma dipendenti in cui si muovono i testimoni, i ‘partecipanti’ indispensabili a rendere leggibile il poeta. La madre Susanna, Graziella, Laura Betti, Furio Colombo, Nico Naldini, Pino Pelosi sono allora il momento in cui Pasolini si mostra e si fa percepire. Dentro una struttura circolare, che apre l’ultima giornata di un uomo col sorriso di sua madre e la chiude con una contrazione di inconsolabile dolore materno, Pasolini è la morte al lavoro, come sempre nel cinema di Abel Ferrara. La morte intesa come atto estremo, che monta retrospettivamente la vita di un uomo proprio come il montaggio fa con un film. Capace da sempre di farsi carico del male oscuro che ammorba le sue immagini e il mondo, l’autore americano imbocca i passaggi sotterranei dell’inconscio, che da tempo e molti film non struttura più come un linguaggio. La memoria delle ultime ore di un poeta manda in tilt il controllo razionale e torna sotto forma di visione. Come i suoi killer, i suoi vampiri, i suoi gangster, il Pasolini di Willem Dafoe scende all’inferno e vaga negli anfratti bui e fatiscenti alla ricerca di qualcosa di desiderato e irraggiungibile. Nel modo di Epifanio, interpretato da Ninetto Davoli, il protagonista insegue una cometa che lo conduce all’Idroscalo e gli nega il Paradiso. Forse perché ha considerato la sua degradazione profondamente morale “e per di più l’ha considerata un suo diritto”. A ragione di questo, Ferrara esibisce l’esibizionismo di Pasolini, l’intenzione massima di apparire che non è mai visibilità del corpo ma unica possibilità per il suo protagonista di esistere nel testo filmico. Ardente, tragico e scombinato, Pasolini combina il sogno col reale, interrogandosi sul poeta e la forma con cui egli crea, sulla storia di un uomo e su quella del suo corpo, su Pier e su Paolo, agiti sotto la cupola ribadita della Basilica ‘omonima’ dell’Eur, sdoppiati e fatti altri da sé nei territori della poesia e dell’incubo, dove da sempre cadono gli angeli ribelli, si uccidono i poeti e ci si scopre assassini.
Mississippi, 1964. In una piccola cittadina a dieci miglia da Memphis (Jessub), tre attivisti per i diritti sociali dei neri vengono brutalmente uccisi. Gli agenti dell’Fbi Anderson e Ward decidono di investigare sulla loro scomparsa. Nel corso delle indagini, tuttavia, devono fare i conti con la polizia locale, responsabile dell’accaduto e legata segretamente al Ku Klux Klan. Malgrado gli sforzi per ottenere giustizia, i due assistono a un crescendo di odio e violenza nei confronti della comunità di colore del posto.