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The Second Circle (Russian: Круг второй) is a 1990 Soviet Union drama film directed by Aleksandr Sokurov

L’evento del film, tutto ciò che accade nella sua breve durata, è la morte di un padre, che pure non avviene entro i limiti temporali del film, anzi avviene prima, perché, come ricorda Bazin in Morte ogni pomeriggio, la morte è uno dei due eventi che il cinema non può mostrare; eppure, una volta schivata nell’iconografia filmica, la morte è rappresentata da Sokurov in tutta la sua catastrofante potenza, ovvero nel suo essere un’assenza che si ripercuote in o, meglio, fagocita quanto le si trova dattorno, e ciò che le si trova dattorno non sono che vite, vite che si muovono in conseguenza di questa morte,

prima fra tutte quella del figlio che, tornato dalla Siberia, viene informato del Grande Evento; ed ecco, allora, che lo vediamo spogliare delle coperte il corpo mummificato del genitore in un piano-sequenza dove la fissità della mdp non solo amplifica una serie di attributi che possono essere ingenuamente & banalmente ricondotti alla morte (cose come l’immobilità, la pura spazialità, il silenzio eccetera) ma segna anche un distacco del regista da quanto sta filmando, perché una mdp fissa non può che far supporre un’assenza operante dietro di essa e su essa (quel qualcosa che Warhol fece nel ’64 con quelle otto ore di primo piano dell’Empire State Building, per intenderci), o quantomeno una sua [= dell’operatore e/o del regista] inefficacia, ovvero l’assurda consapevolezza non tanto della nostra solitudine di fronte alla morte («O solitaria morte di una vita solitaria») quanto piuttosto della necessità di esser soli di fronte all’Evento, perché solo allora (e forse nel momento del nascere) possiamo davvero guardarci allo specchio e riconoscerci; così, Sokurov decide di lasciare il figlio alla sua intimità, al suo cordoglio, a se stesso – situazione, questa, che non si ribalterà nemmeno in seguito, quando, per esempio, il figlio, dovendo verbalizzare la morte del genitore, si reca da una vecchia che gli parla dell’odio di Lenin verso le faccende burocrati, perché anche allora, anche qui, la mdp non coglie ma fa supporre, protrae l’attenzione verso l’assenza che permea il tutto, e per farlo, questa volta, essendoci una seconda persona (l’intruso) nel campo visivo, quindi essendo ribaltata la scena precedente (dalla singolarità alla dualità), deve ribaltare il procedimento utilizzato prima (un ribaltamento del ribaltamento, dunque la stessa cosa), sì che scompaiano cose come la nitidezza, le tinte seppia, la fissità eccetera ed essa [= la mdp] sia finalmente vicina e non più fissa, anzi in movimento fremente per cogliere non qualcosa di plastico e definito ma soltanto dettagli e ombre, ombre che sono annesse ai corpi, ai volti, quasi a voler tentare chissà quale esoterica tra(s)duzione per cui quell’oscurità e quei vuoti sono i soli a poter far emergere un che di corporale e identitario, attraverso la loro [= dell’oscurità e del vuoto] propria astrazione. Insomma, Sokurov gira un film più della morte che sulla morte, raggiungendo i picchi metafisici del padre putativo Tarkovskij, vicinissimo al futuro Madre e figlio, e qualcuno dice di leggerci un’elegia a quel che fu l’URSS prima del 1990, a quel che furono la sua politica e il suo cinema, e forse hanno ragione, sì, ma che importa? Tutto ciò che si vede in questo film è ciò che nel film non c’è, anzi è ciò che al film manca perché è un film di mancanze, questo Krug vtoroy, un punto aleatorio in cui la morte è, in realtà, destituzione della morte stessa. Sta qui la magistralità di Sokurov, nel non mostrare né la morte né la vita, la quale, se fosse stata mostrata, sarebbe stata comunque non-vita, cioè elaborazione di una mancanza: la totale assenza, l’immobilità, il Grande Evento, il silenzio… quanto di più intimo e sufficiente possa accadere per poter affermare d’aver vissuto

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