Un film di Doze Niu. Con Ching-Tien Juan, Mark Chao, Ju-Lung Ma, Rhydian VaughanDrammatico, durata 140 min. – Taiwan 2010. MYMONETRO Monga valutazione media: 2,00 su 1 recensione. È con indubbio coraggio che Doze Niu affronta un tema come quello del racconto di formazione in ambito gangsteristico, così oberato di cliché da risultare un campo minato per chiunque. Troppi i paragoni ingombranti, costante la sensazione di déja vu dietro l’angolo. Dove Monga costituisce una novità è nella rappresentazione delle specificità taiwanesi del jiang hu e del suo codice d’onore: i boss Geta e Masa che brindano assieme mentre i relativi scagnozzi se le danno di santa ragione, lo stile popolare e casereccio – che ai nostri occhi suona molto familiare – nella conduzione del business mafioso, il rifiuto delle “vigliacche” armi da fuoco, l’unione dei diversi clan nell’odio verso i temuti “cugini” continentali.
Confortata da queste note di colore, l’elegia estetizzante della vita da gangster – ricucita in parte dalla mattanza finale – raggiunge livelli inimmaginabili persino per gli Young and Dangerous e i Friend che furono; è la mafia a regalare a Mosquito il padre che non ha mai avuto, è la mafia a renderlo cool e temuto, è la mafia a fargli perdere la verginità (e forse a farlo innamorare). Proprio la vicenda collaterale sentimentale costituisce uno dei punti più fragili del film, una nota stonata all’interno di una sinfonia tutta maschile, in cui spesso l’amicizia virile sfocia in malcelato sentimento amoroso (nel caso della devozione di Monk nei confronti di Dragon, invece, si arriva ai limiti dell’outing). Monga rimane opera a suo modo coraggiosa, benché gravemente affetta da prolissità e da scelte stilistiche difficilmente sostenibili (specie il montaggio analogico tra gocce di sangue e fiori di ciliegio in cgi del finale). Un’occasione sostanzialmente mancata.
Il dottor Russell Marvin lavora in una base militare al progetto “Sky Hook” consistente nella messa in orbita di nuovi rivoluzionari satelliti. Gli esperimenti di lancio si rivelano più volte disastrosi, finché si scopre che la causa va attribuita alla presenza di una misteriosa, gigantesca astronave extraterrestre.
Un film di Nicholas Ray. Con Cornel Wilde, Jane Russell Titolo originale Hot Blood. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 85′ min. – USA 1955. MYMONETRO La donna venduta valutazione media: 2,25 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Mike Torino (Adler), capo _ e malato terminale _ di una tribù di tzigani che hanno messo radici in una cittadina USA ai confini col Messico, combina il matrimonio di Stephen (Wilde), suo fratello minore destinato a succedergli, con la bella Annie Caldash (Russell) che, in realtà, è un’imbrogliona, ma s’innamora dello sposo riluttante. Più che la storia, scritta da Jesse Lasky Jr. per Columbia, contano il contesto, improbabile ma insolito e picaresco, e la mise en scène di N. Ray, il suo interesse per il folclore, l’etnologia e il musical. Lo mostrano il ballo in strada dell’opaco C. Wilde (probabilmente con controfigura) e la danza di fruste tra Wilde e J. Russell che conferma di essere, se ben guidata e convinta del personaggio, una brava attrice. Cinemascope di Ray June e musiche di Les Baxter. Restaurato.
Dopo un terremoto, in una cittadina americana si sviluppano misteriosi incendi. Viene anche notata l’esistenza di strani insetti che emettono vampate di fuoco causando numerose vittime. Uno studioso afferma che gli insetti appartengono a una specie preistorica.
In una casa abbandonata di Londra, al numero civico diciassette, è custodito un prezioso collier che fa gola a tre fuorilegge, una giovane inglese, un vagabondo, uno sconosciuto ed un avventuriero, i quali si scontrano duramente per entrarne in possesso.Mentre la collana passa in modo repentino di mano in mano, la scena si sposta su un treno merci a seguito di un folle inseguimento tra i banditi in autobus. Sul convoglio i sospetti che attanagliano i personaggi sul fatto che uno di loro possa essere un detective si fanno così forti da originare una sparatoria vera e propria, con salti da un vagone all’altro e con l’uccisione del macchinista. Il treno, ormai senza controllo, finisce la sua folle corsa piombando su un traghetto ormeggiato in porto. Si salvano solo la ragazza e lo sconosciuto (che si rivela essere il detective) che, consapevoli del pericolo scampato, si abbracciano dalla gioia.
Un film di Alfred Hitchcock. Con Isabel Jeans, Robin Irvine, Franklin Dyall, Ian Hunter, Frank Elliott, Enid Stamp-Taylor, Ben Webster.Titolo originale Easy Virtue.Drammatico, b/n durata 72′ min. – Gran Bretagna 1927. MYMONETRO Fragile virtù valutazione media: 2,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Easy Virtue fu l’unico contatto professionale di Hitchcock con un’altra eminente personalità dello show business inglese: Noël Coward, anch’egli nato nel 1899, ma tra i due non vi fu nessun contatto diretto: l’adattamento del fortunato dramma di Coward “su una donna con un passato e una famiglia di sani princìpi” (fatto dallo stesso Hitchcock con la collaborazione dei consueti Eliot Stannard e Ivor Montagu) è molto libero, con innumerevoli tagli sui dialoghi originali, e molte delle vicende che sul palcoscenico erano descritte solo a parole nel film vengono rese per immagini, di modo che il dramma, così come era stato scritto da Coward, comincia praticamente a metà film. Easy Virtue, pur essendo dichiaratamente un lavoro su commissione, ispirò tuttavia a Hitchcock alcune delle sue trovate più sottili. Molte di queste sono entrate da subito nel repertorio generale degli effetti cinematografici; in particolare la conversazione telefonica tra l’eroina e il corteggiatore più giovane di lei, che la esorta a gettare al vento le proprie titubanze e a sposarlo, una sequenza realizzata attraverso i cambiamenti di espressione sul volto della telefonista all’ascolto. Il film contiene innumerevoli altri trucchi e trovate di grande ingegno, oltre a quella che Hitchcock definì “la peggiore didascalia che abbia mai scritto” (proferita dall’eroina verso i fotografi che la prendono di mira mentre lascia il tribunale dopo l’udienza finale): “Sparate, non è rimasto altro da uccidere!”
Il dottor Henry Jekyll (Paul Massie) sta compiendo esperimenti sulla natura umana, la moglie Kitty (Dawn Addams) è rassegnata a essere trascurata dal marito e l’amico Paul Allen (Christopher Lee) si fa vivo solo per bussare a quattrini. Tutto cambia quando Jekyll sperimenta su se stesso la sua nuova invenzione, diventando Mr. Hyde (sempre Paul Massie). Punto di partenza è ovviamente l’opera letteraria di Robert Louis Stevenson, ma Fisher, invece di presentare un Jekyll buono e un Hyde orrido e scimmiesco, ribalta ambiguamente le carte dipingendo un Jekyll gretto e imbelle in contrasto con un Hyde bello, con solamente una strana luce negli occhi azzurri a testimoniare la sua diversità (un procedimento simile verrà seguito da Jerry Lewis per il suo divertente #Vedi#Le foli notti del dottor Jerryl). Il Male non viene più rappresentato dal brutto e dall’animalesco, ma dal bello e dall’aristocratico, e il Bene, in fondo, non esiste. La prediletta ambientazione vittoriana fornisce a Fisher il pretesto per una precisa rappresentazione dell’aristocrazia inglese da lui spesso raffigurata, anche in altri film, come corrotta e crudele. Purtroppo, non è possibile definire questo film un capolavoro perché la geniale intuizione che ne è alla base viene in parte sprecata da una trama sviluppata in modo banale. Buona l’interpretazione di Paul Massie nel doppio ruolo
Prima di diventare il gioiello della Confraternita, un gruppo armato di giustizieri agli ordini del Fato, Weasley Gibson era un impiegato anonimo e ipocondriaco, vessato da una dirigente “abbondantemente” insopportabile e tradito dal migliore amico con la fidanzata petulante. Abbordato alla cassa di un drugstore da una donna killer tutta tatuaggi e pistole, Wes scopre che i suoi attacchi di panico nascondono poteri ultrasensoriali e capacità fisiche sbalorditive. Allenato dalla Confraternita a pugni in faccia e fendenti affilati, viene iniziato all’arte della vendetta “giusta”: uccidere i “cattivi”, nominati da un arcano telaio. La sua missione sarà quella di eliminare il superkiller che ha ucciso il padre mai conosciuto. Ma l’antica organizzazione di superassassini, che da secoli protegge l’umanità, annientando il Male e facendo il Bene, nasconde un segreto. Spetterà a Wes svelarlo, imparando a controllare il proprio destino. Nel Wanted di Timur Bekmambetov, un telaio misterioso sostituisce le capacità divinatorie dei precog di Spielberg, capaci di pre-vedere un omicidio, producendo il nome della vittima e del suo assassino (Minority Report). Se i precog non hanno relazioni con il mondo, eccezione fatta per le allucinazioni che la loro mente proietta all’esterno, i giustizieri in action, nati dalla penna di Mark Millar e dai disegni di Jeffrey G. Jones, sono “eroi” conservatori che sorvegliano e puniscono con la morte i nominati dalle trame del Fato, azzerando in questo modo il numero dei delitti e garantendo i delicati equilibri del mondo. Sperimentando le innovazioni tecnologiche legate al cinema, il regista kazako dei guardiani night and day, irrompe a Hollywood e costruisce un film sul controllo della verità e sulla sua trasformazione in regime, sulla perdita della privacy e della libertà a vantaggio di una sicurezza che implica l’annullamento dell’individuo (se pure criminale). Nonostante l’intensità del look e il ritmo vertiginoso delle riprese, nonostante i prodigiosi istanti congelati, che isolano e sospendono gli scontri fisici tra i personaggi, il “ricercato” fantafilm di Bekmambetov, non colpisce la fantasia dello spettatore e solleva un problema di sproporzione tra il fumetto e il suo adattamento. Perchè Wanted si vuole basato sulla graphic novel di Millar e Jones ma ne prende al contrario le distanze? Che cosa è diventata l’opera originale in quella che ne deriva? Svestiti i costumi da supereroi, la confraternita disciplinaria di Bekmambetov pratica il precrimine e legittima l’uso della violenza, colpendo obiettivi colpevoli e malvagi. Diversamente, nelle tavole di Jones, gli assassini coi superpoteri sono una lobby sanguinaria che, sterminati gli impavidi supereroi in calzamaglia, uccide arbitrariamente e “creativamente”. Niente telai del destino per mettersi a posto la coscienza e tollerare meglio l’omicidio sistematico. Wanted non è l’adattamento del romanzo grafico di Millar e Jones, non è nemmeno la sua traduzione visiva (come fu per il Sin City di Rodriguez/Miller), è indiscutibilmente un nuovo oggetto estetico che non reca in sé nulla (o quasi) del referente. Un prodotto che non richiede la conoscenza dell’opera di partenza come condizione necessaria per la comprensione di quella di arrivo. Un film prossimo a Minority Report (nella radicale visione politica dei contenuti) e a Matrix (nella fluida messa in scena dell’azione fantastica), che porta a galla il “rapporto di minoranza” (la voce dissonante del sistema) e sottrae la verità all’univocità della maggioranza. Sarà il dubbio di Wes e Fox, contro l’accettazione cieca del gruppo, a contemplare finalmente l’esistenza di un contrasto e a far collassare ideologia e metodo dei giustizieri “tessili”. Scegliendo Angelina Jolie e James McAvoy, Bekmambetov sorvola (anche) sulle “facce rubate” (dal fumetto) di Halle Berry (Fox) e di Eminem (Wes Gibson), che avrebbero potuto acquistare significati inediti, ricollocate nello spazio e nell’immaginario cinematografico.
Un film di Godfrey Reggio. Documentario, Ratings: Kids+16, durata 89 min. – USA 2002. MYMONETRO Naqoyqatsi valutazione media: 2,25 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Naqoyqatsi è il terzo episodio della trilogia Qatsi, iniziata nel 1983 con Koyaanisqatsi, e poi proseguita nel 1986 con Powaqqatsi. L’ultimo episodio si suddivide in tre momenti; Numerica.com che ripercorre l’evoluzione del linguaggio umano, Circus Maximus, che descrive il competitivo mondo capitalista e Rocketship 20th Century, sulla velocità. Il tutto per concludere che l’essere umano è in guerra con se stesso (il titolo è una parola degli indiani Hopi che significa più o meno “conflitto”) e sta probabilmente perdendo la sua battaglia con l’omologazione. Che Reggio sia un autore interessante e punti sempre a dire qualcosa di non banale sullo “stato del mondo” è fuor di dubbio. Ma il terzo episodio della sua indagine/denuncia sulla contemporaneità convince meno dei precedenti. Forse a distanza di vent’anni la forza delle immagini ha perso la capacità di suggestione e riflessione iniziale, forse il mix tra visione e musiche (ancora una volta di Philip Glass) è ormai piuttosto risaputo. Ma, soprattutto, il discorso appare più confuso e per certi aspetti reazionario, con un’esecrazione della tecnologia in toto che lascia piuttosto perplessi. Soprattutto se poi se ne usano i risultati per realizzare la pellicola. Affascinante comunque, ma freddo e qua e là noioso.
Nel 1663 il gesuita António Vieira (1608-97), celebre predicatore, è convocato a Coimbra dal tribunale dell’Inquisizione dove rievoca il soggiorno giovanile in Brasile e l’adesione alla causa degli indigeni. Impedito di predicare, si rifugia a Roma, si fa stimare dal Papa e dalla regina Cristina di Svezia, ma sente la nostalgia della patria dove il nuovo re João IV lo accoglie freddamente. Va a morire in Brasile. M. de Oliveira ha sempre fatto un cinema di Parola e di Utopia. Su Vieira (impersonato, in ordine cronologico discendente, da L. Duarte, L.M. Cintra e R. Trepa), definito da F. Pessoa “imperatore della lingua portoghese” e “maestro della forma e della visione”, ha fatto un film che, più che storico e biografico, è un autoritratto per transfert, un confronto tra il retore più famoso del Seicento e il cineasta più letterario del Novecento. Fotografia di Renato Berta, musiche di Carlo Paredes e Massimo Scapin.
Dall’omonimo romanzo di Yasushi Akimoto ( Chakushin ari = Una chiamata persa), sceneggiato con Daira Minako dall’autore. La maniera del prolifico Miike (5 film all’anno in media) è riconoscibile anche in questo thriller di paura telefonica, fondato sull’ubiquità del cellulare, questa nostra protesi tecnologica e mediatica che ci rende raggiungibili sempre e in ogni luogo. Qui si aggiunge il fattore tempo. I messaggi terrificanti che la protagonista Yumi (Kou) e le sue amiche ricevono anticipano di qualche giorno il futuro e mettono la vittima in ascolto del proprio, imminente avvenire di morte. Yumi, indagando, cerca di interrompere la catena delle morti violente.
Un film di Fred F. Sears. Con Lisa Gaye, Johnny Johnston Titolo originale Rock Around the Clock. Commedia musicale, Ratings: Kids+16, b/n durata 77 min. – USA 1956.MYMONETRO Senza tregua il rock’n roll valutazione media: 2,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un impresario sull’orlo del fallimento conosce per caso un complessino di provincia che suona una nuova musica, il rock and roll. Stipula il contratto con la energica leader del gruppo, Lisa. Il successo arriva quasi istantaneamente.
Un povero clown deforme viene maltrattato e umiliato costantemente nel circo in cui è costretto a lavorare e di cui non ha mai superato i confini. Un giorno però, in seguito a un incidente di cui è vittima la trapezista di cui è segretamente innamorato, ha modo di incontrare uno studente di medicina, Victor Frankenstein. Costui comprende immediatamente la passione nascosta che il clown coltiva da sempre per l’anatomia umana e lo fa fuggire dal lavoro-prigione. Da quel momento diventerà il suo assistente con il nome di Igor.
L’anziano professor Morton sta elaborando una terapia contro l’invecchiamento dei tessuti e confida ardentemente sulla collaborazione di Oliver, uno studente che si mostra particolarmente attento e sollecito. Il buon Morton non sa che il giovanotto è, in realtà, il pronipote del famigerato barone Frankenstein, e che la sua devozione nasconde il proposito di riutilizzare gli insegnamenti ricevuti nel nefasto tentativo di dar vita ad un corpo artificiale ricostruito segretamente in laboratorio. Avendo necessità di cadaveri per realizzare la sua creatura, Oliver svia i sospetti della polizia somministrando a Trudy, l’ignara nipote di Morton, un siero che, periodicamente, ne altera spaventosamente le sembianze e la personalità. Raggiunto lo scopo di dar vita al mostro – un grottesco simulacro di donna – Oliver mette in atto un piano per sbarazzarsi dei padroni di casa, ma Johnny Bruder, fidanzato di Trudy, interviene appena in tempo per evitare il peggio. Mediocre sotto tutti i punti di vista, il film conferma le limitate capacità di Richard E. Chuna, regista di pellicole come Giant from the Unknown e Missile to the Moon. Gli interpreti fanno del loro meglio per non sprofondare nel ridicolo, ma l’intreccio, simile a quello della Figlia del dottor Jeckyll, non regala alcuna emozione e i due mostri – incredibilmente brutti e goffi – non possono invocare alcuna clemenza.Titoli alternativi: La hija de Frankenstein, La fille de Frankenstein, She Monster of the Night.
In un elegante appartamento di Manhattan, un perverso collezionista d’arte mette in scena giochi pericolosi per far fuori la moglie. Lo aiuta una eccentrica avventuriera più perversa di lui. Scritto da Gene Kearney con molti prestiti da Les diaboliques di Clouzot (dal romanzo di Boileau e Narcejac), è un giallo sofisticato che non decolla mai, nonostante il buon cast e la fotografia di W.A. Fraker.
Il ventenne Oscar e la sorella minore Linda arrivano a Tokyo. Oscar vende droga per vivere, mentre la diciottenne Linda lavora come spogliarellista in un nightclub. Una notte Oscar si reca in un locale per concludere un affare, ma gli agenti di polizia lo stanno aspettando per arrestarlo e nella colluttazione che ne segue parte accidentalmente un colpo. Oscar muore ma riemergono le memorie del passato, tra queste spiccano la morte dei genitori avvenuta in un incidente d’auto quando aveva solo cinque anni e la promessa fatta alla sorella di non abbandonarla mai. Gaspar Noé ha colpito ancora. Uno dei più supponenti e narcisistici registi del cinema non solo francese ma mondiale, dopo lo scandalo annunciato di Irreversible torna a provocare in maniera totalmente sterile. Non avendo una storia degna di questo nome a cui affidarsi e non essendo uno di quei Maestri del Cinema in grado di trasformare un’assenza di soggetto in un’esperienza artistica di alto livello, il regista francese torna ad applicare le regolette che presiedevano alla realizzazione del suo precedente lungometraggio. Musica pulsante, luci al neon, acrobatici movimenti di macchina e scene che vorrebbero provocare sconcerto e muovono invece solo al riso o allo sbadiglio. Perché la ripetizione del già detto protratta per la durata di 150 minuti si traduce in un’autoreferenzialità iperbolica a cui nulla, neppure alcune inquadrature ad effetto, possono porre rimedio. Noé, pretendendo anche di farci la morale, si ammira nello specchio del suo cinema. Rischia di ritrovarcisi sempre più solo
Un americano reduce dal Vietnam, complessato e pieno di tare psicofisiche, viene sbarcato a Belfast. Per racimolare qualche soldo, decide di derubare certe infermiere che alloggiano in una pensioncina, ma viene colto da raptus e, anziché depredare le fanciulle, le sevizia e le uccide. Una gli sfugge: fornirà un elemento utile alla sua cattura.
Poiché von Trier ha tra i suoi modelli Bergman, oltre a Tarkovskij cui dedica il film, diciamo che questo suo Scene da un matrimonio è discutibile sin dal titolo. Diviso in 6 capitoli: “Prologo”, “La paura”, “La pena”, “La disperazione”, “I 3 mendicanti”, “Epilogo”. L’ha ideato, scritto e diretto come terapia per uscire da una grave depressione. 2 personaggi in scena (anzi nel bosco) più 1. Lei è fuori di testa dopo aver visto, durante un coito, il suo piccolo Nic cadere dalla finestra della loro casa in città. Per curarla il marito psichiatra la porta in una capanna in mezzo a una foresta. Oltre a quella del sesso, esistono altre 2 pornografie, fondate sulla violenza e sull’imbecillità. Qui sono caoticamente fuse tutte e 3. Che cosa si proponeva l’autore con questo eurofilm dell’horror genitale, osceno e ossessivo, iperbolico e monocorde: scandalizzare il pubblico borghese? Spacciare il proprio forsennato formalismo per un discorso etico, simbolico, allegorico? Ostentare la propria misoginia? Sadicamente sottoporre a una performance estrema i 2 attori che, d’altronde, gareggiano in ardimento mimico-recitativo? Musica: G.F. Händel. Distribuzione: Lucky Red.
Takashi Miike, prolifico regista giapponese dalla media di quattro produzioni l’anno, è una mina vagante pronta ad esplodere con violenza pur di comunicare il proprio messaggio. Adattamento di un romanzo di Murakami Ryu, Audition, spesso indicato come capolavoro dell’autore, non fa eccezione rivelandosi un prodotto particolarmente estremo e di difficile catalogazione. Un produttore cinematografico rimasto vedovo decide, dopo anni di solitudine, di risposarsi. Un suo collega ed amico organizza un’audizione di casting fittizia dove l’uomo, in principio riluttante, incontra una misteriosa giovane di cui si innamorerà follemente: la scelta sfortunamtamente si rivelerà infelice.
John Wayne e due amici hanno a che fare con un politicante che imbroglia i contadini facendo vendere la terra con certificati falsi. Wayne lo smaschera e fa fuori i “duri” al servizio del politicante.
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