Shuji è sposato con Mayumi e hanno una figlia di nome Michiko. La bambina è gravemente malata e Shuji non ha il denaro necessario per provvedere alle cure mediche, decide pertanto di procurarselo compiendo una rapina.
Marechal, piazzista un po’ sempliciotto, riceve da un uomo d’affari l’incarico di andare a Napoli e prendere in consegna una Cadillac da portare in Francia. Marechal naturalmente non conosce l’effettivo contenuto della vettura.
Il cinquantenne Germain (Fabrice Luchini) è professore di letteratura presso il Liceo Flaubert (!) in una cittadina francese. È un docente competente, ma è anche uno scrittore mancato perché carente di talento. Jeanne (Kristin Scott Thomas), sua moglie, gestisce una galleria di arte moderna. All’inizio dell’anno scolastico Germain viene favorevolmente impressionato dalla qualità dell’elaborato del sedicenne Claude (Ernst Umhauer), un bel ragazzo di umili origini, che sembra timido. Il testo, fluido e sottilmente sarcastico, racconta l’amicizia con Rapha (Bastien Ughetto), un compagno di classe che ha suscitato il suo interesse perché appartiene a una famiglia piccolo borghese, apparentemente “perfetta”. Ciò che intriga Germain e Jeanne (coinvolta dal marito) è la chiosa finale del tema: ‘continua’. Affascinato dallo spirito di osservazione dello studente, Germain lo stimola a continuare a scrivere. Claude si insinua abilmente in seno alla famiglia del compagno, e diventa un habitué nella bella villetta. Quindi, settimanalmente, consegna a Germain le puntate di un’avvincente cronaca voyeuristica in cui descrive i dettagli “sorprendenti” di quel contesto. Dagli episodi narrati (e mostrati visivamente) emergono i problemi lavorativi del padre di Rapha (Denis Ménochet), un impiegato entusiasta della Cina e amante del basket, che pratica con il figlio, ma anche l’attrazione (fantasie e atti) di Claude nei confronti di Esther, la madre dell’amico (Emmanuelle Seigner), una donna molto attraente, interessata unicamente alla decorazione di interni. I racconti di quella intimità “normale” (e le imprevedibili svolte del plot) appassionano Germain che sviluppa una stretta relazione con l’allievo che, a sua volta, ne è lusingato. Il professore corregge la prosa dello studente, ma lo consiglia anche su come agire praticamente e ne diventa complice di intrighi, affinché la storia narrata continui. Una vicenda scandita da un ritmo teso e seducente fino al magnifico finale. È una commedia drammatica, spiritosa e intelligente, che si sviluppa come un thriller con risvolti dark più che inquietanti. Scritta dallo stesso regista con uno stile incisivo e con dialoghi taglienti, adatta brillantemente “El chico de la última fila”, una pièce teatrale del drammaturgo spagnolo Juan Mayorga. Ozon ripropone la sua abilità nel far emergere aspetti infausti da situazioni apparentemente ordinarie. All’inizio del film realtà e finzione appaiono ben distinte, ma poi, progressivamente, tutto si mescola e si confonde, in un gioco di apparenze e di macchinazioni divertenti e sinistre, con una perfetta combinazione di suspence e intrattenimento, anche grazie alle magnifiche performances di tutti gli attori. È evidente il riferimento a temi e suggestioni di altri maestri: in primis Chabrol e Buñuel, ma anche Rohmer e Haneke. In realtà Ozon riflette sul processo di immaginazione e di creazione narrativa. Il rapporto fra Germain e Claude evoca la manipolazione dello scrittore nei confronti del lettore o quella (reciproca?) dell’editore verso l’autore o del produttore verso il regista. In effetti il regista ha dichiarato di aver voluto sfruttare una chance per parlare indirettamente delle problematiche del suo lavoro, collocando lo spettatore all’interno del processo artistico.
Interviste di M. Ophüls, André Harris e Alain Sedouy con canzoni di Maurice Chevalier. Cronaca del periodo 1940-44 nella città di Clermont-Ferrand, non lontana da Vichy, sede del governo di Pétain, ma anche uno dei centri della resistenza antitedesca. È un’inchiesta di 4 ore sul comportamento del francese medio durante la guerra e l’occupazione. A poco a poco il quadro si allarga alla Francia intera. Uomini politici, capi militari, modesti cittadini, ex combattenti, partigiani e collaborazionisti si succedono, rievocando gli avvenimenti cui parteciparono o di cui furono testimoni. Con obiettività smantella più di un mito, a cominciare da quello di una Francia unanime nel suo martirio di nazione antinazista travolta dalla potenza tecnico-militare germanica. Pone sul tappeto diversi temi: la contestazione dell’eredità culturale e storica proposta dalla classe dirigente; il rifiuto della dicotomia tra resistenti e collaborazionisti; il ruolo dei mezzi di comunicazione e propaganda. “È una vera opera cinematografica che s’impone per la struttura, la progressione drammatica, il ritmo e la potenza delle immagini. Gli autori hanno letteralmente ‘messo in scena’ il materiale storico di cui disponevano e l’hanno reso caldo e vivo. Questo film rigoroso che smuove tanta cenere diventa tra le loro mani una fosca epopea” (J. de Baroncelli). Realizzato per la TV di stato francese (ORTE), che si rifiutò di metterlo in onda, fu proiettato nell’aprile 1971 nel cinema d’essai parigino Studio Saint-Severin (200 posti) e poi al Paramount-Elysées e rimase in cartellone per diversi mesi. Finanziato dalla TV tedesca e dall’editrice Rencontre di Losanna, in Italia fu messo in onda alla fine degli anni ’70. In Francia fu trasmesso soltanto nel 1981. Nel 1988 Marcel Ophüls, figlio del celebre Max, realizzò un programma analogo: Hôtel Terminus – Klaus Barbie, sa vie et son temps , su un criminale di guerra delle SS.
Quando un Maestro (e i tre registi coinvolti in questa operazione indubbiamente lo sono) delude il dispiacere si unisce all’imbarazzo. Perché è come se un amico ti avesse fatto perdere un po’ della fiducia che avevi in lui. È ciò che accade con i due episodi firmati da Olmi e da Kiarostami. Nel primo un Carlo Delle Piane che recita lo stesso ruolo che gli ha offerto Avati in numerosi film (a partire da Una gita scolastica), si innamora platonicamente, di un’assistente che gli ha mostrato cortesia unita a gentilezza. Dal treno (elemento di collegamento tra gli episodi) su cui si trova vorrebbe inviarle una mail ma finisce col non farlo. Nel secondo una donna anziana ed arrogante maltratta il giovane soldato assegnatole per il servizio civile e costui cerca rifugio nel dialogo con un’adolescente che lo conosce ma che lui non ricorda. In entrambe le storie si legge un’incertezza di fondo. Olmi tratta un tema importante come l’amore provato da una persona anziana ma lo fa con errori di continuità e con una fragilità narrativa che gli è insolita. Abbas Kiarostami è in ferie dal suo Iran e si vede. Delinea un carattere (quello della donna) ma senza motivare l’attenzione che gli rivolge mentre riesce meglio nella definizione del bisogno di comunicazione del giovane accompagnatore. Anche qui però l’esigenza di ‘fare metraggio’ (cioè di raggiungere la durata necessaria) diluisce la presa della narrazione che, proprio mentre abbandona le lentezze proprie dell’autore, perde in pregnanza. Chi invece resta se stesso e non delude chi lo apprezza è Ken Loach. Ci presenta tre giovani tifosi del Celtic in viaggio verso Roma per una partita di Coppa. Chiacchierano con una famiglia albanese e, poco dopo, uno di loro scoprirà di non avere più il biglietto. Il sospetto cade subito sugli extracomunitari scatenando reazioni diverse che porteranno ad un esito in linea con l’attenzione verso i più deboli socialmente che è la cifra contenutistica che Loach non ha mai abbandonato. Ma il regista britannico propone di più (rispetto ai suoi colleghi) anche sul piano linguistico. La sua macchina da presa fa del vagone ferroviario uno spazio da percorrere per cercare una verità che andrà al di là della prima apparenza e consentirà ai protagonisti di scoprire un aspetto inatteso della loro personalità.
Dalla commedia (1897) di A. Schnitzler: a Vienna all’inizio del ‘900 una ragazza di strada si dà a un soldato che seduce una soubrette. La quale si lascia corteggiare da un ragazzo di buona famiglia che poi si prende per amante una donna sposata. Il marito fa una scappatella con un’ingenua sartina, ispiratrice di uno scrittore di successo che ama un’attrice. La quale gli preferisce un giovane conte che si ritrova nella camera della ragazza di strada. Inizio della 2ª carriera francese del tedesco M. Ophüls, è un film di squisitaeleganza in cui il geometrico meccanismo narrativo è esibito in modo tale che diventa il soggetto stesso di una narrazione senza intrigo né personaggi, fatta di assenza e di vuoti come il cuore dei suoi protagonisti. Bello come una bolla di sapone attraverso la quale s’intravede una concezione desolata dell’esistenza. Nel 1989 in Francia fu distribuita una copia restaurata di 110 minuti. Dimenticabile remake di R. Vadim nel 1964.
Dal romanzo La vie extraordinaire de Lola Montès di R. de Cecil Saint-Laurent, adattato da Jacques Natanson, Annette Wademant e Ophüls. Maria Dolorès Porriz y Montez, contessa di Lansfeld, rievoca in 7 momenti i suoi prestigiosi amori (Liszt, Luigi I di Baviera ecc.) e le sue pene. È il capolavoro (e una sorta di testamento) dello squisito, geniale M. Ophüls, l’opera dove – sullo sfondo di una sfarzosa scenografia di teatro nel teatro – sono riassunti i suoi temi al cui centro campeggia la donna-spettacolo. In un giuoco tragico e simultaneo di presente e passato, di finzione e vicende reali, di esibizionismi scandalistici e doloroso martirio, dietro il sontuoso apparato decorativo c’è la realtà di un personaggio, la sua verità interiore, come in ogni autentico spettacolo barocco. Ha una debolezza di fondo: la scelta di M. Carol. Nel dicembre 1955 a Parigi dà scandalo, spacca la critica in due fazioni, rischia di rovinare i produttori che ne riducono di 30′ la durata. Ripreso nel 1968 e accolto, quasi all’unanimità, come un trionfo. In originale girato in 3 lingue (francese, inglese, tedesco). Fotografia (Cinemascope, Eastmancolor): Christian Matras. Restaurato dalla Cinémathèque di Parigi grazie al digitale, e ridistribuito in Francia nel dicembre 2008.
Tre racconti di Guy de Maupassant ridotti dal raffinato regista tedesco con l’apporto di un cast eccellente. In La maschera, un medico che assiste un ballerino svenuto durante la rappresentazione fa una sconvolgente scoperta. In Casa Tellier, la tenutaria di una casa di tolleranza porta le sue ragazze in campagna perché assistano a una commovente cerimonia. In La modella, infine, vengono narrati i patetici amori di un pittore e della sua collaboratrice.
Una coppia di anziani (Ryu, Higashiyama) partono dalla cittadina costiera di Onomichi per Tokyo a far una rara visita ai due figli sposati, un medico (Yamamura) e una parrucchiera (Sugimura), che li trattano come estranei e non hanno tempo di stare con loro. Soltanto una nuora vedova (Hara) si dimostra contenta della loro compagnia. I temi cari a Ozu _ l’instabilità della famiglia giapponese dopo la guerra, l’incomunicabilità tra generazioni, l’influenza negativa della vita urbana sui rapporti umani _ sono raccontati con un doloroso pudore, una estrema lucidità, un linguaggio di depurata semplicità che ne fanno uno dei suoi capolavori insieme con Tarda primavera e Il gusto del sakè. Importante è il personaggio della nuora che impersona la morale specifica del film, “mostrando che chi ha meno ricevuto è anche chi darà di più” (J. Lourcelles). Da vedere con i figli, specialmente se sono cresciuti.
In un villaggio dell’Africa Occidentale, il piccolo Kirikù decide di sua iniziativa di nascere ed è subito dotato di parola e del coraggio di affrontare la perfida strega Karabà che ha imposto il suo dominio sul villaggio facendo credere agli abitanti di aver prosciugato la sorgente e di mangiare chiunque osi sfidarla. “Possiamo vivere senza l’oro, ma non senz’acqua” gli dice la madre. E Kirikù, con l’aiuto del Saggio della Montagna, suo nonno, affronta la strega con le armi dell’amore. Coprodotta da Francia, Belgio e Lussemburgo, diretta da Ocelot, cresciuto in Guinea, è una favola bellissima con disegni e colori che rimandano ai quadri di Gauguin e del doganiere Rousseau, di apparenza naïf e di grande raffinatezza solare e vitale, valorizzati dalle splendide musiche di Youssou N’Dour: una favola che incanta i bambini, affascina gli adulti, insegna a tutti qualcosa in modo molto piacevole. 1° premio al Festival d’Animation di Annecy 1999. Seguito da Kirikù e gli animali selvaggi .
Vecchia attrice ritrova il primo amore dopo quarant’anni. Dapprima finge indifferenza, ma cede all’amore. Film prodotto per la televisione inglese da George Cukor che diresse la coppia Hepburn-Tracy nella loro ultima apparizione insieme: Indovina chi viene a cena? Regista e attori lavorano magistralmente: ascoltarli e vederli è una festa.
A Kyoto nel 1865, nella Shinsengumi – milizia speciale istituita dal governo dello Shogun per contrastare i samurai favorevoli a un ritorno al potere dell’imperatore – viene reclutato Sozaburo Kano, giovane ed esperto schermidore di efebica bellezza, che innesca tra compagni e superiori appetiti omosessuali, rivalità, persino delitti. Da due racconti di Shinsengumi Keppuroku di Ryotaro Shiba, Oshima – inattivo nel cinema di fiction dal 1986 – ha tratto “insieme a Eyes Wide Shut il film più mortuario, cimiteriale degli ultimi anni” (A. Termenini) che riesce a essere, al tempo stesso, rituale e anarchico, geometrico e imperscrutabile, astratto e ironico; qua e là nella 2ª parte in bilico sull’estetismo, ma con un radicale rifiuto degli schemi e degli stereotipi del cinema asiatico.
Amleto, principe di Danimarca, sospetta che la madre e lo zio abbiano ucciso il padre. Per smascherarli si finge pazzo. Lo zio contrattacca mandandogli contro un rivale con la spada avvelenata. Amleto muore, ma fa in tempo a uccidere lo zio. Laurence Olivier porta sullo schermo Shakespeare con risultati portentosi (aiutato moltissimo dalla fotografia di Desmond Dickinson). All’uscita (festival di Venezia) fu criticata la scelta di Eileen Herlie (coetanea di Olivier) troppo giovane per il ruolo della madre. Ma il futuro lord l’aveva scelta appositamente. Per sottolineare la componente edipica del tormento del principe di Danimarca.
Dal dramma (1598-99) di W. Shakespeare: nel 1603 al Globe Theater di Londra si mette in scena Henry V , dramma storico in cui si rievocano le gesta del re che nel 1415, durante la guerra dei Cent’anni, sconfisse l’esercito francese, numericamente superiore, nella battaglia di Azincourt. Splendido esordio nella regia di Olivier in quello che, secondo molti, è il suo miglior film scespiriano e una grande tappa nell’uso del colore nel cinema (fotografia di Robert Krasker) di grande suggestione nel passaggio dalla finzione teatrale alla spazialità solenne degli esterni in Francia, con sapienti agganci alla tradizione pittorica, da Paolo Uccello alle miniature dei Livres d’Heures. Si può leggere a 3 livelli: rievocazione di uno spettacolo al Globe; rappresentazione del modo con cui i contemporanei di Shakespeare immaginavano la campagna di Enrico V in Francia; opera di allusiva propaganda ideologica sulla 2ª guerra mondiale. Trionfo di colore, musica, grande spettacolo, poesia eroica, costumi, scenografie. 1 Oscar speciale per Olivier e 4 nomination tra cui quella per le musiche a William Walton che collaborò anche per Amleto e Riccardo III .
Dal romanzo Cime tempestose (1847) di Emily Brontë. Grande amore, avvelenato dalla vendetta, tra il selvaggio Heathcliff, trovatello adottato dal padre di Cathie, e la bella, intrepida ragazza che sposa un ricco proprietario della zona, ma muore d’amore per il fratellastro. La selvaggia potenza del romanzo della Brontë è un po’ troppo addomesticata. Gli sceneggiatori ne hanno impoverito l’intensità e attutito il romanticismo gotico, ma il film rimane egualmente memorabile. Robusta interpretazione di Olivier. 7 nomination e 1 solo Oscar alla fotografia di Gregg Toland. Rifatto nel 1970 da Robert Fuest e nel 1985 in Francia con la regia di J. Rivette.
2° capitolo delle avventure del personaggio che ha trasformato in campione d’incassi Jim Carrey. L’acchiappanimali deve ritrovare un raro esemplare di pipistrello bianco per evitare una guerra tra due tribù rivali. Non mancano le trovate comiche efficaci, specialmente nella 1ª parte. Edizione italiana scorciata.
Quattro astronauti sono scelti per simulare una missione su un lontano pianeta per testare gli effetti psicologici dei viaggi nello spazio profondo. Lontani da casa per 400 giorni, vedranno il loro stato mentale deteriorarsi quando perderanno ogni contatto con il mondo esterno. Costretto a uscire dalla loro navicella, il gruppo scoprirà che la missione potrebbe non essere stata una simulazione.
Violeta, una ragazzina che vive in un villaggio del Mali, decide di scappare da casa per evitare il matrimonio combinato con un balordo da cui subì molestie da bambina. Intanto nel vicino Niger Buba trascorre le sue giornate tra la passione per il calcio e la necessità di fare il meccanico per vivere. Decide insieme al fratello di tentare una sorte migliore in Europa. Violeta e i due ragazzi si incontrano durante il viaggio verso il Marocco e condividono la meta dello Stretto di Gibilterra, quei 14 chilometri che separano l’Africa dall’Europa. Attraversano l’Algeria con mezzi di fortuna, e a un certo punto si ritrovano soli nel micidiale deserto del Ténéré e sbagliano direzione, incominciando a girare in tondo. È l’inizio di un durissimo cammino. Nel suo secondo lungometraggio di finzione dopo Il grande match, Olivares percorre il dramma dei migranti clandestini che dal Continente Nero vagano in direzione Marocco per raggiungere l’attraente opulenza europea; la tragica illusione dei disperati è che siano i 14 chilometri dello Stretto a separarli dall’ agognata felicità. La macchina da presa stringe su Buba e Violeta, è a loro che rivolge il suo sguardo discreto ma presente, li segue passo passo nella loro estenuante odissea. Del vagheggiato continente europeo vedremo solo la punta più meridionale, Tarifa, la città andalusa dove sbarcheranno i due ragazzi; oltre a questi pochi frangenti, l’Europa è data solo come riflesso nei sogni dei migranti, al regista non interessa metterla a fuoco. È l’Africa che interessa ad Olivares, con le sue contraddizioni e la sua disperazione, è sull’Africa che investe e sembra voler disperatamente gridare che anche i suoi abitanti dovrebbero farlo. La pellicola trasuda amarezza da ogni inquadratura, l’amarezza della fuga dalla propria origine, del voler recidere le radici in nome di un’utopistica vita migliore. La vivida fotografia fatta di tramonti in controluce e spazi naturali incontaminati contribuisce alla poesia di una pellicola che non perde mai la delicatezza di una storia di giovani anime che credono in un sogno che seppur sorretto quasi solo da miraggi, resta ancora possibile. La storia di Buba e Violeta lascia addosso l’aridità del deserto che li ha visti venire al mondo, quel deserto che al contempo li allontana e imprigiona a sé. “Continueranno a vivere e a morire, perchè la storia ha dimostrato che non c’è muro capace di contenere i sogni”; Olivares prende in prestito una riflessione della scrittrice spagnola Rosa Montero, la pone a chiusura del suo lavoro e affida ai sogni il ruolo di unica certezza possibile.
La storia è una variazione della vicenda faustiana da un poema di Fausto Maria Martini del 1915. Una anziana dama dell’alta società, Alba d’Oltrevita (Lyda Borelli) stipula un patto con Mefisto (Ugo Bazzini), per riacquistare la giovinezza in cambio della quale però lei ha il divieto di innamorarsi. Alba è corteggiata da due giovani fratelli, Tristano (Andrea Habay) e Sergio (Giovanni Cini). Film muto fra i più importanti della sua generazione, sia per l’ispirazione dannunziana, che si riflette nel soggetto e nella scenografia della nobiltà decadente fortemente polarizzata sull’estetica Liberty, sia per l’interpretazione di Lyda Borelli, star del muto italiano. La colonna sonora è firmata da Pietro Mascagni, uno dei maggiori compositori dell’epoca e primo compositore di professione in Italia a firmare una colonna sonora, sincronizzandola con le scene del film (lavoro che definì “lungo, improbo e difficilissimo”)
Un film di Dan O’Bannon. Con Clu Gulager, James Karen, Don Calfa, Thom Mathews, Beverly Randolph, Linnea Quigley. Titolo originale The Return of the Living Dead.Horror, durata 85 min. – USA 1985. – VM 18 – MYMONETRO Il ritorno dei morti viventi valutazione media: 2,75 su 12 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
La Uneeda Medical Supply di Louisville conserva, per conto dell’esercito, in un magazzino top secret, misteriosi cadaveri emeticamente chiusi in speciali contenitori. Frank, il guardiano dello stabilimento, spiega al nuovo inserviente Freddie che si tratta dei corpi che anni prima ripresero temporaneamente vita a causa della terribile “diossina 204” fuoriuscita da un grosso centro industriale di Pittsburg, episodio dal quale – aggiunge – Romero trasse un celebre film… A conferma di quanto racconta, Freddie mostra al giovanotto uno dei contenitori e, per rassicurarlo che il corpo ivi racchiuso è ben protetto, vi picchia sopra: naturalmente, il contenitore si spacca e i due sono investiti da un soffio di gas che mentre li tramortisce fa risvegliare altri cadaveri. Tornati coscienti, e avvertito l’amministratore Wilson, Frank e Freddie fronteggiano uno degli zombi e, dopo averlo catturato, riescono a distruggerlo nel forno crematorio di Ernie, l’imbalsamatore tedesco che ha una ditta lì vicino. Il fuoco sembra l’unica arma per distruggere i mostri, ma le loro ceneri, passate per il camino e disperse nell’aria cadono, a causa di un improvviso acquazzone, sulle tombe di un piccolo cimitero resuscitando altri morti. Orde di zombi si riversano nei campi ed assediano il magazzino massacrando operai, infermieri e poliziotti. Wilson, dopo vari tentativi, riesce a mettersi in contatto con i comandi dell’esercito ma quando è convinto ormai di essere in salvo, una terribile esplosione si abbatte su Louisville: i militari per distruggere gli zombi hanno pensato bene di sganciare un’atomica sulla città. Fra gli innumerevoli film nati sulla scia della Notte dei morti viventi (qui esplicitamente citato in segno di ironica filiazione e, insieme, di divertito distacco), Il ritorno dei morti viventi è uno dei più originali e immeritatamente (in Italia) sottovalutati. Il regista O’Bannon – esperto sceneggiatore che ha all’attivo due capolavori come Dark Star ed Alien – sviluppa la macabra vicenda secondo il meccanismo di un gioco al massacro, avanzando, con l’arma della satira, serie perplessità sull’efficienza dei sistemi di sicurezza americani preposti alla salute pubblica e sulla rozza strategia del potere che mentre fronteggia i danni ne provoca altri maggiori.Il pretesto fantascientifico si riallaccia, qui, al filone catastrofico delle alterazioni ambientali, convenientemente tenute segrete al grosso pubblico, provocate da illeciti esperimenti militari o scientifici. Le situazioni orrorifiche si susseguono con buon ritmo senza smorzare lo spirito goliardico che pervade la storia. Tra una carneficina e l’altra O’Bannon trova anche il tempo di mostrarci lo spogliarello della splendida Linnea Quigley, nella parte di Trash, la ragazza punk che allieta i suoi compagni durante una “festicciola” al fatidico cimitero. Originariamente progettato in 3D per la regia di Tobe Hopper.
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