Lo studioso statunitense Michael Padovich vuole dimostrare che Shakespeare fosse in realtà un ebreo spagnolo. Si reca quindi, in compagnia della bella moglie Hélène, nel convento francescano di Arrábida per svolgere le sue ricerche nell’antica biblioteca. Ma l’atmosfera cupa e ambigua del luogo influisce sulla coppia.
La vita quotidiana dei bambini nelle vie di Oporto. Due di loro si contendono le simpatie di una ragazzina il cui grande sogno è una bambola vista nella vetrina di un negozio. 1° lungometraggio narrativo di Oliveira. C’è chi lo iscrive nel cinema neorealista, ma forse, nonostante le apparenze, è una storia di adulti trasposta nel mondo dell’infanzia. Grande sensibilità senza sentimentalismi. Il titolo è un grido infantile di richiamo.
Nella casa del vecchio Gebo si ritrovano diversi amici per discutere del mondo, un banchetto di quiete che potrebbe durare all’infinito. Il ritorno inatteso di João, figlio di Gebo che ha smarrito la retta via, sconvolge gli equilibri interni alla famiglia e provocherà serie conseguenze. Il fenomeno inspiegabile che risponde al nome di Manoel De Oliveira ha da tempo smesso di sorprenderci; è diventata quasi un’abitudine attendere un suo nuovo film e toccare con mano come l’ultracentenario regista stacchi ancora il gruppo per sensibilità, levità e spirito di osservazione. Cogliendo in pieno lo zeitgeist di un’epoca mesta come quella del 2012, De Oliveira va dritto al cuore della questione: il denaro, la sua mancanza e il suo effetto sull’uomo. La crisi, quella con la “c” maiuscola, al centro dell’obiettivo, ma è nella peculiarità del tragitto percorso che si trova la firma del maestro, immune a ogni forma di contraffazione.
Nel 2007, alla soglia dei 100 anni, Oliveira ritorna, anche di persona, sul mare, per rievocare le imprese di Cristoforo Colon (e non Colombo) di cui si ricostruisce la possibile origine lusitana, non italiana né spagnola come comunemente si crede. Un angelo-fantasma, bardato dei colori verde e rosso della nazione portoghese, accompagna i viaggi di Manuel Luciano da Silvia e Silvia Jorge – attori poi sostituiti da Oliveira stesso e sua moglie Maria Isabel -, che tra gli anni ’40 e oggi ripercorrono luoghi come Lisbona, che vide partire le caravelle di Colombo/Colon; la Cuba in Alentejo, possibile luogo di nascita del navigatore; la New York che da sempre accoglie gli emigranti europei; la piazza newyorchese che ospita il Memoriale delle Scoperte. Il film è una “amorosa” lezione di storia per i portoghesi, l’auspicio appassionato del recupero di una memoria collettiva, allargata almeno agli stessi americani dimentichi di eventi, fatti, epoche che sono all’origine della loro storia.
Parigi, fine del ‘900. Reduce da una delusione amorosa, Mademoiselle des Chartres accetta di sposare senza amore un medico affermato. Quando s’innamora di un acclamato cantante pop che la ricambia, riesce a controllare comportamento e azioni, ma non la forza del sentimento. Per lealtà confessa il suo tormento al marito che ne muore di dolore. Invece di assecondare finalmente, come potrebbe, il suo amore, abbandona il suo mondo e se ne va in Africa con una missione umanitaria. Dal romanzo La principessa di Clèves (1678) di Marie-Madeleine Pioche de La Vergne, contessa di La Fayette, considerato il primo romanzo psicologico moderno, il 91enne Oliveira ha tratto – rischiosamente, ma con impeccabile rigore – un film di passioni violente e fatali, in bilico tra tenerezza e crudeltà, una storia non esente da influenze gianseniste e da echi del teatro tragico del ‘600 (Corneille, Racine), contrapponendola alla società di oggi, così permissiva verso l’amore e il sesso. In un film concentrato sull’intimità, la scommessa di Oliveira consiste nel proporre un personaggio mirabilmente inattuale nella sua etica e, insieme, di farne la critica attraverso la figura dell’amica suora. Tenuta, come e più che gli altri attori, su un registro di recitazione atonale e vestita da Cerruti, la figlia di Mastroianni e C. Deneuve si è doppiata nell’edizione italiana con un attraente accento francese. Premio della Giuria a Cannes. Dallo stesso romanzo deriva La principessa di Clèves (1961).
Scritto dal documentarista napoletano Di Costanzo con Mariangela Barbanente e Maurizio Braucci, è un film a 2 personaggi e, nonostante la fotografia di Luca Bigazzi, a basso costo. L’azione si svolge in un labirintico edificio abbandonato, calato nel buio, che diventa uno spazio misterioso e surreale con apparizioni di un gufo, un usignolo, cardellini, una nidiata di cuccioli attaccati a una cagna, un giardino fatato, una barca nella melma, il fantasma di una bambina suicida. Lì si incontrano Veronica e Salvatore. Lei è una 15enne scontrosa e caparbia, lui un 17enne che i coetanei pensano un po’ scemo. È stato incaricato da una piccola banda di camorristi – nei cui confronti Veronica ha commesso uno sgarro – di tenerla rinchiusa nell’edificio, di impedire che scappi. Il sequestro, però, diventa un esodo. Di Costanzo riesce a raccontare un film dove non accade nulla, con un linguaggio e uno stile insolito, antiretorico, persino sorprendente, ritmato dal montaggio jazzistico di Carlotta Cristiani.
Dal romanzo (1962) di Giorgio Bassani: Ferrara, anni ’30, la dolce vita di Micòl e altri giovani borghesi della comunità ebraica si trasforma in tragedia con le leggi razziali fasciste e lo scoppio della guerra. Film illustrativo di cartapesta e di una ruffianeria sentimentale che sfiora il cinismo. Franoso nella costruzione drammatica, è imperdonabilmente approssimativo nello svolgimento temporale, inetto nella rievocazione dell’epoca, zeppo di incongruenze e svarioni. Persino la scelta e direzione degli attori sono al di sotto del decoro consueto a De Sica. Oscar 1971 per il miglior film straniero.
Nel 1958 in una città tedesca il 15enne Michael Berg è iniziato ai piaceri del sesso dalla 30enne Hanna Schmitz, bigliettaia di tram. Negli intervalli del loro focoso rapporto, su richiesta di lei, lui le legge a voce alta Omero, Orazio, Twain, Cechov. Un giorno Hanna scompare senza preavviso. 8 anni dopo Michael, studente di legge, assiste al processo di 5 guardiane delle SS che lasciarono bruciare vive 300 ebree rinchiuse in una chiesa. Una delle imputate è Hanna. Dal romanzo autobiografico Der Vorleser (1995 – in italiano A voce alta ) di Bernhard Schlink, tradotto in 40 lingue, adattato dal drammaturgo David Hare (inglese come Daldry, la Winslet, Fiennes, il produttore Minghella, i direttori della fotografia Chris Menges e Roger Deakins), è uscito un film che comincia e termina nel 1995 con l’azione in cinque tappe dal 1958 al 1988. Secondo Daldry sono stati realizzati 252 film sulla Shoah. Bene nella parte la Winslet poi irrigidita nel trucco che la invecchia, meritatamente premiata con l’Oscar. Ottimo Kross, monocorde Fiennes. Girato in Germania con troupe tedesca. Dedicato alla memoria dei produttori Anthony Minghella e Sidney Pollack, morti nella primavera del 2008 senza aver visto il film finito.
Quella di Monte Sole (BO) è la più grave delle stragi fatte dalle truppe tedesche dopo l’8-9-1943: 771 civili (216 bambini) massacrati dalle SS tra il 22-9 e il 5-10-1944 per aver aiutato i partigiani della Brigata Stella Rossa. Al centro del 2° film – prodotto e diretto dal bolognese Diritti dopo Il vento fa il suo giro – c’è la bambina Martina che fa da filtro alla vicenda storica. Da quando le è morto in braccio un fratellino, ha smesso di parlare. Tiene un diario. Nel dicembre 1943, la sua mamma rimane ancora incinta: quando il fratellino nasce in settembre, Martina s’impegna a salvarlo: è lui l’uomo che verrà. È un’altra storia di una comunità montana, ma in tempi tragici. L’assillo del realismo spinge Diritti a far parlare le 2 attrici professioniste e gli altri interpreti nel dialetto bolognese di allora. Un film sulla Resistenza così non si era mai visto: senza eroi né eroismi, senza una divisione netta tra “buoni” e “cattivi”, con un impianto antropologico che diventa epico: la guerra raccontata dal basso, dalle sue vittime. Non mancano gli spunti fantastici, un’ombra di fiabesco in una favola tragica. Il puntiglio di verità retrospettiva permea la mobilissima fotografia di Roberto Cimatti e i costumi “invisibili” di Lia Francesca Morandini. Come in Olmi, il senso del sacro è profondamente legato alla cultura contadina e al rapporto con la Natura, ma con una netta dimensione femminile. Scritto con Giovanni Galavotti, Tania Pedroni. Prodotto da Aranciafilm/Rai Cinema. 3 David di Donatello: miglior film, produttore e fonico in presa diretta. Distribuito da Mikado. 200 giorni in cartellone al Mexico di Milano.
L’architetto Vanzi è detenuto in attesa di giudizio. Durante la prigionia ha modo di verificare sulla propria pelle tutte le brutture del carcere: la mafia comanda anche lì. Vanzi si ripromette di lottare, appena ottenuta la libertà, per denunciare il crimine ma, una volta fuori dal carcere, la tranquillità e la comodità della sua vita ritrovata gli fanno dimenticare i buoni propositi.
Un avvocato mette in guardia un cliente raccontandogli la storia di due coniugi che, all’inizio, sembrano i più felici di questo mondo, ma finiscono con l’odiarsi e desiderare la morte dell’altro. Danny De Vito, che ha sempre raggiunto appena la sufficienza come attore, dimostra con questo film che si può fare di una commedia un capolavoro, Allendocet. Già il titolo originale occhieggia ironicamente alla guerra delle due rose e di conflitto sanguinario si tratta veramente. Fino al termine della prima parte si crede di essere nel bel mezzo di una commedia hollywoodiana, anche se le carte in tavola sono già un po’ mischiate, ma ci si accorge ben presto che i due si odiano davvero e il finale non è per nulla consolatorio. Le migliori interpretazioni della carriera di Douglas e della Turner. Non adatto a chi crede nella famiglia e al lieto fine.
Durante la campagna di Russia, quattro militari di diversa estrazione sociale e provenienza geografica esprimono le loro considerazioni sull’assurdità della guerra. I sovietici, teoricamente “i nemici”, aiutano i soldati italiani dimostratisi “invasori” soltanto sulle mappe militari.
Una troupe di spericolati documentaristi d’assalto – composta dal regista Alan, dalla sua fidanzata assistente Shanda e dai cameramen Mark e Jack, oltre che dalla guida locale Felipe – si addentra nella foresta amazzonica alla ricerca di immagini esclusive sulle misteriose tribù, forse cannibali, che vivono nei suoi meandri. Dopo due mesi senza avere notizie della troupe, la produzione finanzia una spedizione di recupero e soccorso guidata dall’antropologo professor Monroe.
A Liegi il 13enne Cyril Catoul vive, insofferente, in un centro di accoglienza per l’infanzia dove l’ha lasciato il padre cuoco Guy che vuole rifarsi una vita senza di lui. Cocciuto e violento, Cyril non si arrende ai fatti: vuole vivere col padre. Senza un motivo preciso, la parrucchiera Samantha gli si affeziona e lo tiene con sé nei weekend. È lei a cambiare la vita a questo ragazzino abbandonato che in bicicletta rincorre l’amore senza saperlo. È il film più semplice e luminoso dei fratelli Dardenne che preferiscono i comportamenti alla psicologia: il più tenero, quasi una favola con i “cattivi” che fanno perdere le illusioni al ragazzino e Samantha come fata benefica. È un conciso film sui sentimenti senza una briciola di sentimentalismo. Nato nel dicembre 1996, Doret è un gamin au vélo indimenticabile. La belga De France si è messa, con grazia leggera e solare, “a disposizione” del piccolo eroe fuggitivo. È una donna di classe. Distribuito da Lucky Red.
Un film di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Con Jérémie Renier, Arta Dobroshi, Fabrizio Rongione, Alban Ukaj, Morgan Marinne. Titolo originale Le silence de Lorna. Drammatico, durata 105 min. – Belgio, Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania 2008. – Lucky Red uscita venerdì 19settembre 2008. MYMONETRO Il matrimonio di Lorna valutazione media: 3,50 su 50 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Lorna è una giovane immigrata albanese a Liegi. Per ottenere la cittadinanza si è messa nelle mani del malavitoso Fabio. Costui le ha procurato un matrimonio con Claudy (un tossicodipendente) e Lorna ha ottenuto ciò che desiderava. Ora vorrebbe poter aprire un bar con il suo fidanzato Sokol che fa il pendolare da una frontiera all’altra. Per ottenere la somma necessaria deve però portare a compimento il piano di Fabio. Deve cioè poter ottenere un rapido divorzio per poter così sposarsi nuovamente. Questa volta con un mafioso russo che ha, a sua volta, bisogno della cittadinanza belga. Le procedure rischiano però di essere troppo lente e allora Fabio mette in atto la soluzione che già aveva in mente: elimina Claudy con un’overdose. Lorna mantiene il silenzio ma c’è qualcosa di nuovo nella sua vita. Qualcosa è cambiato anche nel cinema dei Dardenne. Noti agli appassionati (e vincitori di ben due Palme d’oro con Rosetta e L’enfant) per il rigore di un cinema da sempre attento a scavare nelle cause del dolore delle persone più vulnerabili, i due fratelli vantano caratteristiche stilistiche ben definite. La camera a mano, la scelta del super 16 mm, l’assenza di qualsiasi commento musicale hanno sempre costituito gli elementi identificativi del loro cinema unitariamente a uno stile teso a non aggiungere al film un’inquadratura in più del necessario. In questa occasione la forma (camera molto meno mobile e scelta del formato 35 mm) sembra avere avuto il suo influsso anche sul contenuto. Lo sguardo che i due fratelli belgi proiettano sul grave problema dell’immigrazione, legalizzata attraverso percorsi illegali, si lascia andare con maggiore disponibilità a un’indagine sui sentimenti venata da un accenno di patetismo. Lorna ha un volto dolcissimo ma è entrata in un’arena in cui dominano i lupi. Se vuole realizzare i propri sogni non può e non deve affezionarsi in alcun modo a Claudy con il quale è costretta a convivere per rispondere ad eventuali controlli delle autorità belghe. Ma Lorna non è un lupo. È una giovane donna che finisce col provare una pietà che sconfina nell’amore per quel relitto umano che le chiede costantemente aiuto per uscire dal tunnel in cui si è infilato. La scoperta di questo sentimento precede di poco l’eliminazione fisica del ragazzo. Il quale muore ma continua a viverle ‘dentro’ al punto da farla sentire in attesa di una nuova vita. Come sempre i Dardenne offrono nel finale ai loro protagonisti una luce (per quanto fioca) di speranza. È quanto accade anche a Lorna, protagonista dell’inizio di un nuovo corso del loro cinema.
Una piccola azienda che realizza pannelli solari offre un bonus di 1000 euro agli impiegati che voteranno per il licenziamento di Sandra, anello debole della catena produttiva per trascorsi di depressione. Lei combatte, appoggiata dal marito, e contatta uno per uno i colleghi per portarli dalla sua parte. Il tema del lavoro è spesso presente nei film dei registi che qui raccontano una storia di potere subdolo che delega decisioni ingiuste alle vittime stesse, di guerra tra poveri, ma anche di solidarietà, realistica, priva di facile buonismo (alcuni degli interpellati cambiano idea, altri si irrigidiscono ancora di più contro di lei). E al centro c’è un personaggio di donna fragile, insicura, facile alle lacrime, che nel suo percorso di ricerca della solidarietà cresce facendo crescere gli altri e ne esce rafforzata senza alcun cedimento alla retorica. La Cotillard esagera in mobilità facciale, ma è perdonabile.
Bruno, vent’anni, e Sonia, diciotto. Dalla loro relazione nasce un bambino, Jimmy, che Bruno riconosce. Ma Bruno vive di furti che compie con la collaborazione di un ragazzino. Bruno crede di amare Sonia ma è privo di sentimenti paterni. Approfittando di un’ora in cui Jimmy è affidato a lui, va a venderlo. Questa storia è nata, affermano i Dardenne, un giorno durante le riprese de Il figlio: “Al mattino, al pomeriggio, la sera, abbiamo visto passare e ripassare una ragazza che spingeva una carrozzina con un neonato dentro. Non sembrava avere una meta. Si limitava a camminare spingendo la carrozzina. Abbiamo spesso ripensato a questa ragazza, alla carrozzina, al suo bambino addormentato e a colui che non c’era: il padre del bambino. L’assente che sarebbe diventato importante nella nostra storia. Una storia d’amore che è anche la storia di un padre”. I Dardenne tornano, con il loro stile inconfondibile (questa volta più frenato nell’uso della camera a mano) a raccontare degli “ultimi” della società con un occhio di riguardo per i più giovani. Qui gli “enfant” del titolo sono molti: dal neonato, al ragazzino che ruba con Bruno a Bruno stesso. Ognuno con la propria inadeguatezza al mondo e, Bruno in particolare, con un’amoralità che sfocia nella scena finale in una sorta di catarsi che lascia, come sempre nel cinema dei due fratelli belgi, un margine alla speranza. È un cinema morale e necessario, il loro, che non lascia spazio alla retorica o alla facile commozione ma pone degli interrogativi ai quali non è possibile sfuggire.
Provincia di Liegi. Il quindicenne Igor aiuta il padre Roger il quale ‘importa’ immigrati clandestini che destina poi ai cantieri. Un giorno arrivano dal Burkina Faso Assita e Seydou, moglie e figlio appena nato di Hamidou il quale è caduto in un cantiere ed è deceduto perché Roger si è rifiutato di portarlo in ospedale, temendo gli ispettori dell’immigrazione. Prima di morire l’uomo ha chiesto ad Igor di badare a sua moglie e a suo figlio. Ora il ragazzo vuole mantenere la promessa. È un film percorso dagli spostamenti di Igor questo primo ingresso nel mondo del cinema di finzione (dopo un importante percorso da documentaristi) dei fratelli Dardenne. Quel suo andare dalla casa al cantiere e da questo all’officina in cui fa il garzone fino al locale con tanto di karaoke in cui sembra poter ritrovare una sintonia con suo padre è indicativo di una ricerca di un baricentro. In assenza di una figura materna e circondato da un universo di solitudini anche Igor è profondamente solo. Finisce così con il trovare in Assita non tanto l’extracomunitaria da assistere in un pamphlet paraumanitario quanto una madre e soprattutto una solitudine a cui tendere la mano. Con un rischio fondamentale: perdere il padre a cui è inevitabile opporsi per mantenere una promessa che al contempo implica fino all’ultimo una omissione. Igor non dice ad Assita che Hamidou è morto perché teme di perderla ma non può rimanere in silenzio per sempre. In un mondo che sembra ormai anestetizzato nei confronti della sofferenza altrui Igor reagisce e i Dardenne ne seguono la crescita interiore senza lasciarsi mai tentare dal cercare di suscitare nello spettatore una commozione forzata. Il loro è uno stile al contempo partecipe e controllato che viene sostenuto dalle interpretazioni di Olivier Gourmet (destinato a divenire il loro attore feticcio per il quale, magari anche breve, ma c’è sempre un ruolo) e di Jéremie Renier che tornerà ancora con il suo fisico esile e con sua nervosa dinamicità ad abitare il loro cinema. Un cinema che sa come stare dalla parte degli ultimi senza falsi pietismi e senza occultarne le contraddizioni. Un cinema quindi non ‘umanitario’ ma, fin dall’esordio, semplicemente umano.
Quando uscì, Frankenstein fu accolto con favore dalla critica, ma il pubblico lo dimenticò rapidamente, finché negli anni Sessanta, pur risultando perduto, tornò a far notizia in quanto costituiva la prima versione cinematografica del romanzo di Mary Shelley. Nel 1980 aveva raggiunto una notorietà tale da essere incluso – unico titolo risalente all’epoca dei nickelodeon – nella lista dei film “più ricercati” dell’American Film Institute.In realtà una copia nitrato di Frankenstein esisteva nella collezione di Alois F. Dettlaff, che aveva iniziato a raccogliere pellicole infiammabili sin dal 1928. Egli aveva acquisito il film di Dawley da un ambulante del circuito regionale negli anni Cinquanta. Per trent’anni archivi e privati vari tentarono di raggiungere con lui un accordo per ottenere l’accesso al film (che negli anni Settanta egli stesso aveva trasferito su acetato 35mm). Pur avendo organizzato qualche proiezione locale e permesso la distribuzione di brevi estratti e di copie video protette, Dettlaff non rese il film disponibile su più vasta scala se non nel 2002, quando lo pubblicò privatamente su DVD. Se il trucco di Charles Ogle sembra ispirato ai vari allestimenti teatrali ottocenteschi di questo soggetto, l’adattamento di Dawley si rifà a E.T.A. Hoffmann e al Dr. Jekyll and Mr. Hyde portato sulle scene da Richard Mansfield.Il mostro è presentato come un classico doppelgänger, che riflette “il male nella mente di Frankenstein”, ossessionando il suo creatore. Gli effetti speciali impiegati nella scena della creazione sono indubbiamente notevoli, ma le immagini riflesse nello specchio che si vedono nel finale e che anticipano le varie versioni di Der Student von Prag (Lo studente di Praga), sono forse ancor più significative. – Richard Koszarski
Un film a cartoni animati particolarmente originale e pieno di fantasia. I cattivi Biechi Blu, che odiano la bellezza, i fiori e la musica, attaccano Pepelandia, un paese felice, e pietrificano i suoi abitanti. Solo un marinaio riesce a salvarsi imbarcandosi su un sottomarino giallo sul quale fa salire i quattro Beatles che, dopo una serie di avventure, grazie alla loro musica, riporteranno la vita a Pepelandia.
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