Les maîtres fous è un film di genere Documentario, Corto del 1955 diretto da Jean Rouch con Jean Rouch. Durata: 36 min. Paese di produzione: Francia.
La documentazione dei rituali Hauka, movimento religioso cresciuto soprattutto nell’Africa Occidentale, presso i popoli Songhai, durante il dominio coloniale francese, diventa occasione per raccontare la storia da un punto di vista differente.
Unseen Cinema – set di sette DVD con 155 film per una durata complessiva di 1200 minuti (20 ore) – ci fa conoscere le opere finora ignorate di cineasti americani che hanno lavorato negli Stati Uniti e all’estero dall’invenzione del cinema alla seconda guerra mondiale e ci propone un diverso e spesso controverso approccio al cinema sperimentale, visto come il risultato sia collettivo sia individuale dell’attività – ad ogni livello della produzione cinematografica – di artisti d’avanguardia, registi professionisti, cineasti amatoriali. Molti di questi film non sono mai stati disponibili dopo la loro realizzazione, altri non sono mai stati proiettati in pubblico, quasi nessuno si poteva vedere così bene come adesso. Sessanta fra i maggiori archivi cinematografici mondiali hanno collaborato con l’Anthology Film Archives per restituire al pubblico moderno un periodo a lungo trascurato della storia del cinema. Per ulteriori informazioni, si veda il sito www.unseen-cinema.com.
Rabbits (Conigli) è una serie di sette cortometraggi della durata media di circa 6 minuti ciascuno. È stata scritta, diretta e montata da David Lynch nel 2002.
Rabbits narra la storia di 3 conigli antropomorfi (Suzie, Jack e Jane) interpretati da Naomi Watts, Scott Coffey e Laura Elena Harring (che nel terzo episodio è sostituita da Rebekah Del Rio).[1] Sono questi quattro attori già visti anche in Mulholland Drive (2001). Con Rabbits, Lynch si prende gioco del genere televisivo delle sitcom, il pubblico ride e applaude a comando nei momenti meno opportuni e i conigli antropomorfi conversano disordinatamente. Lynch però vi introduce i temi dell’alienazione e dei rapporti relazionali, che sono il nucleo di questa rappresentazione metafisica della realtà.
Nella camera di un hotel un uomo gioca simbolicamente con sé stesso, con gli oggetti e le forme evanescenti che lo circondano fino a formulare quel che è radicato nel suo subconscio, l’identità uomo-donna. Basato su un testo dello stesso Bene, può essere considerato come il manifesto della sua poetica. Il nucleo centrale è l’ossessiva presenza della madre come unica immagine femminile, desiderio di un’identificazione, bisogno di un ritorno all’essere che dà la vita, per ricostituire un’identità originaria, ricomporre la propria esistenza dimezzata (gusto del trasformismo, necessità del travestimento, bisogno del narcisismo). Scrittura barocca, recupero del floreale, ricorso al melodramma e all’enfasi recitativa, usati in modo dissacrante e ironico. Fotografia: Giulio Albonico. Musiche: Vittorio Gelmetti, Giuseppe Verdi.
Bertrand Mandico Francia, Belgio, Germania, 2012 16 minuti
“L’animazione è l’illusione della vita” Ironicamente, è affidandosi a questa massima di Walt Disney che il surrealista francese Bertrand Mandico ci introduce nel suo esuberante universo effuso di macabro lirismo (e di conseguenza, non proprio adatto alle famiglie), mettendo in scena un film che sembra accostare il mito di Frankenstein, alle scenografie più suggestive del cinema di Tarkovskij, e la cui dualità tra distruzione e creazione; morte e vita, ha l’intento di rappresentare/promuovere, la possibilità di riform(ul)azione in un mondo quantomai in difficoltà(o carente d’inventive nell’ambito più prettamente artistico).
Il film è la trasposizione di un sogno: per quasi tutta la durata vediamo con gli occhi del protagonista, mentre in alcune scene lo vediamo di schiena. Egli si viene a trovare in diversi ambienti e situazioni, e sentiamo la sua voce che commenta e riflette su ciò che accade.
Inizialmente ci si trova in un ambiente invernale, poi in una chiesa dove avviene un battesimo, in seguito su una nave. Poi il protagonista incontra in un bar un uomo che gli racconta una sua esperienza e gli parla del suo modo di vedere la vita. Infine ci si ritrova in un edificio vuoto e buio ai cui muri sono appesi dei quadri: osservandoli, il nostro uomo fa riflessioni sull’arte, sulla vita, e sul passare del tempo.
Un uomo (Aleksandr Sokurov) inizia a sognare e si ritrova in un mondo sconosciuto, attraversato dagli spiriti dei morti. Questi raccontano la propria vita ed espongono la propria idea di felicità. Tra le tante elegie che Sokurov ha diretto, questa è una delle più potenti e maestose, tanto dal versante narrativo quando da quello stilistico. Il regista mette in scena un mediometraggio di grande spessore umanista, attraversato da immagini che diventano memoria individuale, sogni che si mescolano a ricordi (anche del passato dell’autore), ombre che si perdono nella luce. C’è un non luogo al centro di Elegia orientale, uno spazio che ne contiene tanti altri, dove la nebbia svela pian piano ciò che si nasconde al suo interno. Pura pittura in movimento, come se ne vede sempre più di rado. A suo modo imprescindibile nella carriera del regista di Madre e figlio (1997) e Arca russa (2002).
Un film di Albert Lamorisse. Con Pascal Lamorisse, Georges Sellier, Vladimir Popov, Paul Perey, René Marion, Sabine Lamorisse, Michel Pezin, David Séchan Titolo originale Le ballon rouge. Fantastico, durata 35 min. – Francia 1956.
Il piccolo protagonista trova un palloncino rosso del quale diventa grande amico. Alcuni suoi compagni, però, glielo rubano e lo forano. Il palloncino perde la vita, ma altri palloncini vengono da tutte le parti a consolare il bimbo e a trasportarlo, appeso ai loro fili, in cielo. Palma d’Oro a Cannes per il cortometraggio.
Lo sguardo di una donna incinta sul variopinto mondo di rue Mouffetard, “la Mouffe” come la chiamano i parigini e situata nel Quartiere Latino della Ville Lumière.
Made by identical twins who possess a single, and singular, vision, the stop-motion animation of the Quay brothers deserves the “astonishing” tag attached to the title of a new collection of their short films. Though born in Pennsylvania, Timothy and Stephen Quay are best known for the quintessentially European films they created in England. Inspired by Czech surrealist animator Jan Svankmajer, the brothers wear their influences on their sleeves in one of their earliest films, The Cabinet Of Jan Svankmajer, but from there they didn’t take long to refine their style. Street Of Crocodiles (1987) is an early Quay masterpiece, creating a nightmarish dystopia using actors made from found objects, wonderfully evocative miniature sets, and graceful camera techniques. (Consider the implications of performing a tracking shot with stop-motion animation and you have a sense of the craft that goes into the Quays’ work.) When these films work, as in an inexplicably moving video for the His Name Is Alive song “Are We Still Married?” (starring a melancholy, high-strung toy bunny), they work on an almost dreamlike level; trying to figure out a literal interpretation is not only difficult but distracting.
Divertente e allucinato corto di un maestro della miscellanea fra divertimento e visionarietà. Visivamente perfetto (e ricordiamo che Svankmajer è comunque alle prime armi, siamo nella decade iniziale della sua opera) il film rivela la passione del regista per gli animali e le marionette, lasciando all’Uomo solo un paio di anonime mani.
A man plays the Bach piece of the title on the organ, accompanied by images of stone walls with cracks and holes that grow and shrink, intercut with images of doors and wire-meshed windows.
Un uomo costruisce se stesso partendo dall’argilla – diventando Dio e creazione nello stesso tempo – e colloca le diverse parti del corpo in una stanza piccolissima. Ma più diventano numerose le parti create, più l’uomo diventa grande e -di conseguenza – la stanza diventa più piccola e soffocante.
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