In seguito alla Battaglia di Sekigahara, Takezo e il suo amico e compagno d’armi Matahachi si ritrovano feriti e in fuga, essendosi arruolati nella fazione perdente. I due trovano rifugio presso la vedova Oko e sua figlia Akemi, le quali vivono depredando soldati caduti in battaglia. Ben presto si fanno vivi dei banditi per chiedere la consegna del bottino alle donne, ma interviene Takezo che li mette in fuga. Entrambe le donne, impressionate dal coraggio dell’uomo, tentano di sedurlo.
Una trasposizione del mito di Orfeo ed Euridice nelle favelas di Rio de Janeiro durante il celebre carnevale. Un film pervaso da una frenetica e triste gioia di vivere con la Dawn che delinea una Euridice casta, sensuale e incantevole. Tratto dal dramma Orpheu da conceição (1956) di Vinicius De Moraes, sceneggiato da Jacques Viot, è un cocktail di folclore, esotismo e mito (e un po’ di turismo) che deve molto del suo facile fascino alle musiche di Antonio Carlos Jobim e Luis Bonfa. Palma d’oro a Cannes e un Oscar come miglior film straniero. Dopo questo terno al lotto Camus rientrò nell’andazzo di un modesto artigianato.
Gli Arpel vivono in una villa ultramoderna, dotata di tutti i conforti elettromagnetici. Il loro figlio Gérard di nove anni preferisce ai genitori M. Hulot, lo zio materno, scapolo spensierato che abita in un quartiere popolare. 3° lungometraggio di Tati e 1° a colori, è fondato sulla contrapposizione di due mondi in cui l’autore riesce a conciliare il comico di osservazione con il burlesque attraverso una serie di invenzioni buffe che, pur sfiorando il surreale, hanno le radici in una plausibile quotidianità. “Per Tati soltanto il poeta e il bambino, grazie alla loro spontaneità, possono salvare la nostra società dalla disumanizzazione che nasce dalla standardizzazione” (G. Bellinger). Bisogna riconoscere che, anticipatore degli ecologisti, Tati diceva con garbo cose che non erano molto comuni alla fine degli anni ’50. Oscar per il miglior film straniero.
Kyoto, periodo Heian. Un boscaiolo, un monaco e un vagabondo si interrogano su una vicenda, l’assassinio di un samurai e lo stupro di sua moglie per mano del bandito Tajômaru, che li ha coinvolti come testimoni. Mentre si susseguono le dichiarazioni dei protagonisti davanti a un tribunale sulla loro versione dei fatti, la verità anziché emergere sembra vieppiù allontanarsi.
Una spedizione di cui fanno parte due promessi sposi parte per il Rio delle Amazzoni dov’è stata segnalata la presenza di un misterioso animale preistorico. Il mostro anfibio è catturato, ma fugge. Molti morti. Piccolo film culto per i fan del genere. Ebbe tanto successo che ne generò altri due: La vendetta del mostro (1955) e Terrore sul mondo (1956). Spavento e horror in giuste dosi con risvolti di simpatia per la creatura e sottintesi erotici. Magnifiche riprese subacquee. Trucchi ottimi per quell’epoca. Girato in 3D.
Jerry Mulligan, finita la guerra, è rimasto a Parigi per dipingere. Vive in un localino dove il letto e il tavolino rientrano nel soffitto e nella parete e va a esporre i quadri, che nessuno compra, a Montparnasse. Viene abbordato da una ricca, attempata americana che gli compra un quadro. Ma poi conosce la giovane e graziosa commessa della quale si innamora, senza sapere che la ragazza sta per sposare il suo amico Paul. Un altro personaggio è il musicista-genio (Levant), che suona tutti gli strumenti dell’orchestra. Alla fine tutto va a posto. L’amore trionfa. Sulla base di questa trama quasi banale, “alla musical”, Minnelli regista e Kelly ballerino-cantante-attore-coreografo, costruiscono non solo un capolavoro del cinema, ma un’opera composita che figura benissimo nell’arte del Novecento. Naturalmente è determinante la musica di George Gershwin che compose forse la sua più importante sinfonia, fatta apposta per far brillare le prerogative del cinema. Tutte le canzoni (cantate oltre che da Kelly anche dallo “chansonnier” Paul Guétary, idolo parigino) sono classici indimenticabili. La Metro, nella realizzazione di questi film, era molto rigorosa e generosa, assumeva i più bravi consulenti da ogni parte del mondo. I balletti di Kelly sono studiati in scenografie che si richiamano ai grandi quadri impressionisti (Renoir e Monet soprattutto) e a Toulouse-Lautrec. Il numero centrale viene considerato un capolavoro anche dai grandi coreografi del balletto classico, come Béjard. Naturalmente la tendenza di Minnelli, in quasi tutti i suoi film, era una certa concessione al kitch, che nel musical quasi non andrebbe considerato “caduta”, ma valore aggiunto. Il film è uno dei più premiati nella storia degli Oscar, ben sei. Va detto che il musical è l’unica forma d’arte tutta e solo americana. Molto spesso Hollywood ha attribuito Oscar a film musicali (Gigi, My Fair Lady, Tutti insieme appassionatamente, Oliver!, West Side Story). L’anno dopo lo stesso gruppo produttivo (solo il regista Donen sostituì Minnelli) realizzò Cantando sotto la pioggia che… rimase senza Oscar pur essendo per certi versi più intelligente e con maggiore vedibilità a posteriori. Questa “tardiva” stagione del musical prodotta da Arthur Freed (Sette spose per sette fratelli, Spettacolo di varietà, Baciami Kate! e altri) rappresenta una punta qualitativa altissima del cinema, che poteva contare ancora sulle belle ingenuità indispensabili, sostenute da una tecnica ormai perfezionata.
1868: la guerra civile è finita da tre anni ed Ethan (Wayne) torna a casa. Viene accolto dalla famiglia del fratello. Qualche giorno dopo, con un gruppo di coloni partecipa a una battuta contro una banda di indiani. Nel frattempo la famiglia di suo fratello viene trucidata, tranne una nipotina di pochi anni che viene rapita dagli indiani. Insieme al giovane Martin (J. H.) Ethan comincia la ricerca, che durerà dieci anni. Alla fine trova la ragazza che è diventata un’indiana. Ethan è sul punto di ucciderla, ma all’ultimo momento si ravvede e la porta a casa. Il film è considerato un capolavoro persino dalla grande critica ufficiale, che ha sempre ritenuto il western un genere minore e troppo popolare. Nella più recente classifica stilata da critici di tutto il mondo Sentieri selvaggi è addirittura al quarto posto. In realtà Ford aveva realizzato altri capolavori, più puliti e rigorosi, come Ombre rosse e Sfida infernale, ma Sentieri selvaggi presenta un versante “intellettuale” e spurgato del mito che lo fa preferire (da “quella” critica appunto) ai precedenti titoli, più ingenui e allineati a una morale più rassicurante e “bonariamente” manichea. Si tratta comunque di un grande film che dibatte i grandi temi fordiani e ne aggiunge altri. Wayne non era mai stato così negativo e isterico: l’attore si piacque tanto che diede a suo figlio, nato in quei giorni, il nome di Ethan. Wayne e il giovane compagno percorrono territori e stagioni, nel deserto, nella neve, fra gli indiani, i banditi, i piccoli e grandi paesi, guidati da una notizia, da un sentito dire. Ciclicamente tornano a casa, sempre più stanchi e delusi, ma ripartono e continuano a cercare la ragazza. Faticano a oltranza per la propria identità e coerenza.
Un mite, silenzioso pensionato, ridotto a non essere più (economicamente) in grado di sopravvivere, rifiuta la tentazione del suicidio per non abbandonare il proprio cane. Uno dei capolavori del cinema neorealista, e il suo canto del cigno. Frutto maturo del sodalizio tra Zavattini e De Sica, sostenuto anche da ricerche, non tutte risolte, sul tempo e la durata (famosa la sequenza del risveglio della servetta), il film tocca una crudeltà lucida senza compromessi sentimentali, fuori dalla drammaturgia tradizionale. Non ha la “perfezione” di Ladri di biciclette, ma va al di là.
L’aereo che trasporta William Donovan, ricco uomo d’affari, si schianta nei pressi del laboratorio del dottor Cory. Trasportato in fin di vita nello studio del medico l’uomo è sottoposto ad un difficile intervento che tuttavia non dà i risultati sperati. Cory che insieme alla moglie Jan e al dottor Schratt ha già sperimentato la possibilità di mantenere in vita cervelli trapiantati di scimmie, decide di sottoporre Donovan ad un analogo trapianto per prolungarne la vita cerebrale. In gran segreto il cervello del milionario viene asportato e conservato in una speciale apparecchiatura. Le strumentazioni rivelano ben presto che il cervello risponde al trattamento e che è in grado di riprendere la propria attività. Inebriato dal successo Cory non esita di entrare in contatto telepatico con quello che resta di Donovan ed apprende così lati oscuri di una personalità priva di qualsiasi scrupolo, violenta e vendicativa. Rispetto ad altre pellicole horror e di fantamedicina degli anni ’50, Donovan’s Brain prospetta un uso assai spregiudicato della scienza: anche se il dottor Cory si ritiene uno studioso animato da alti ideali – a suo dire, i trapianti effettuati sulle scimmie dovrebbero contribuire al bene dell’umanità -, l’impiego che egli fa del proprio sapere viene di fatto piegato ed asservito alle spietate ragioni del potere economico. Felix Feist mette in scena una buona trasposizione del romanzo di Siodmak avvalendosi di attori ben calati nelle parti. Lew Ayres torna – dopo il dottor Kildare e certamente con intenti meno leciti – ad indossare il camice bianco del medico e al suo fianco è il bravo caratterista Gene Evans, attore sobrio spesso poco considerato. Nel ruolo di Jan figura Nancy Davis, futura moglie del presidente Ronald Reagan.Il film è un remake della Signora e il mostro.
Il primo film noir del cineasta Jean-Pierre Melville, basato su un soggetto di Auguste Le Breton. Robert Montagné, giocatore incallito e frequentatore assiduo di ritrovi malfamati, soprannominato “Bob il giocatore” proprio per la sua grande passione verso il gioco d’azzardo, trovatosi al verde, progetta con dei conoscenti una rapina al casinò di Deauville. Preso dal gioco, tuttavia, si dimentica profondamente dell’ora.
Michel, giovane intellettuale parigino, diventa borsaiolo per vizio, passione, orgoglio, gusto del rischio, ma si lascia toccare dall’amore di una ragazza madre. Bresson riprende l’espediente del diario di Il diario di un curato di campagna (1950) per fare un film ancor più ascetico, limpido e misterioso, spoglio eppur prezioso, freddo come un diamante, che lascia libero lo spettatore nell’interpretazione, anche del finale. L’azione è frazionata in piccoli blocchi racchiusi in sé stessi che creano un tempo narrativo speciale, aderente al protagonista e alla sua solitudine, ai confini con misticismo o follia. Straordinarie le sequenze sulla tecnica del borseggio. Musiche di J.-P. Lulli. Corse voce che i dialoghi fossero stati scritti o revisionati da J. Cocteau, ma nessuna prova ha confermato la leggenda. Non distribuito in Italia. Il titolo italiano è quello dell’edizione italiana passata in TV nel 1965.
Calcutta, anni ’30. Squattrinato e senza un lavoro fisso, con ambizioni letterarie ancora insoddisfatte, Apu (Chatterjee) si adatta a un matrimonio di convenienza, sposando la bella Aparna (Tagore), cugina del suo amico Pulu (Mukherjee), promessa sposa di un folle. Dopo qualche mese di felicità, Aparna va a partorire in casa di sua madre, ma muore di parto. Soltanto cinque anni dopo, si decide a far visita al piccolo Kajal (Chakravarty). 5° film di Ray, grande cineasta bengalese, chiude la cosiddetta “trilogia di Apu”, composta da Il lamento sul sentiero e Aparajito ( L’invitto ), tratta dal romanzo Aparajita di Bibhutibhusan Banerjee. In ciascuna delle tre tappe Apu ha perduto o abbandonato le persone più amate: la sua è una saga lirica del dolore e della frustrazione. Influenzato da Jean Renoir, ma anche dai sovietici Dov82 enko e Donskoj (e dalla narrativa russa che è il loro retroterra), Ray sta in bilico tra pessimismo e serenità con una rappresentazione della realtà che è contemplativa, ma attenta ai particolari, al paesaggio e soprattutto agli esseri umani con una maturità che rimanda ai film giapponesi di Ozu e di Mizoguchi.
La fine della seconda guerra mondiale segna la disfatta dell’esercito giapponese. Nella giungla delle Filippine un soldato, sfuggito a mille pericoli e mille insidie, cerca disperatamente di sopravvivere. Intorno a lui militari e civili muoiono di fame e di stenti. Il soldato trova aiuto presso alcuni contadini.
Nel Bengala, sulle rive del Gange, due ragazze inglesi s’innamorano di un ufficiale americano, mutilato di guerra, che, piuttosto di scegliere, se ne va. La vita continua. 1° film a colori (fotografia del fratello Claude) di Renoir e opera di transizione dal realismo sociale alla ricerca di narrazione “classica”. Ingiustamente rimproverato di essere un documentario lirico mancato e di mancata critica al colonialismo, è una favola esotica (il romanzo della scrittrice Rumer Godden da cui è tratto risulta poco più di un pretesto) sul rapporto tra uomo e natura nel quadro di un panteismo pagano intinto di misticismo orientale. Ampio e solenne, chiede allo spettatore adesione contemplativa più che coinvolgimento emotivo. Vi lavorò come assistente il futuro grande regista Satyajit Ray.
Un giovane (Tadeusz Lomnicki), prima dedito a piccoli furti, diviene, per influenza d’una ragazza (Urszula Modryzinska) membro attivo della Resistenza. La ragazza viene arrestata e giustiziata, il giovane continua a combattere. È questo il primo lungometraggio del giovane Wajda, un’opera romantica e affascinante, che rivela le contraddizioni della Resistenza polacca, ma che è soprattutto una bellissima storia d’amore. Il film fu osteggiato negli ambienti politici perché fresco e sincero, non privo di humour, vero, franco, e tutt’ altro che “eroico” nella visione di moda (ricalcata di solito per questo tipo di film sulla Giovane guardia sovietica). Noto anche, dal titolo francese, come Una ragazza ha parlato.
Da Parigi, François torna nel villaggio della sua infanzia per curare i postumi della tubercolosi. Appena arrivato, incontra un vecchio amico diventato panettiere e intravede Serge, minato dall’alcolismo forse per via dell’infelice matrimonio con Yvonne, che gli ha dato un figlio nato morto, ed è di nuovo incinta. Mentre stringe una relazione con la diciassettenne Marie, François cercherà di prendersi cura di Serge, mettendolo davanti alle sue responsabilità. Considerato il primo film della Nouvelle Vague, La beau Serge coniuga una sceneggiatura improntata al dramma sociale con i ricordi personali di Claude Chabrol che, dopo la militanza critica nei Cahiers du cinéma, poté esordire grazie ad un’eredità inaspettata avuta dalla moglie. È lo stesso regista a tornare, così come vediamo fare al protagonista, nel paese di Sardent (Creuse) in cui aveva trascorso l’infanzia durante i quattro anni dell’Occupazione, imparando a conoscere una realtà fatta di giovani amori e alcolismo sociale. L’attaccamento squisitamente affettivo, eppure svegliato dalla distanza critica di chi ha conosciuto anche la vita in città, è uno dei motivi di maggior interesse di un lavoro capace di dare veridicità ai luoghi mostrati, licenziando una topografia filmica del tutto affidabile in cui lo spettatore è, da subito, immerso. Nulla sembra essere cambiato nel villaggio, non il dottore incapace, non l’affittacamere impicciona, non i giochi in piazza dei bambini, eppure la mancanza di realizzazione ha segnato la vita dell’amico Serge, uno che “soffre più di tutti gli altri”, e una diffusa assenza di speranza non porta più fedeli a partecipare alle messe di un sacerdote comprensivo e disilluso: François, interno ed esterno al luogo, tenta nel miglior modo di rendersi utile, di attivarsi in favore del bene anche a rischio di minare la propria integrità emotiva e fisica, si pensi soltanto a quella sequenza finale che riecheggia Bresson. Vagamente ispirato all’amico Paul Gégauff, il personaggio di Serge rappresenta per Chabrol il simbolo del tempo perduto, in un’impressionante continuità tra diario personale e riscrittura drammatica che è cuore pulsante di un’opera imperfetta, ma sempre coinvolgente, illuminata da momenti magici, la nevicata, e argute notazioni antropologiche, la festa da ballo. Con un budget iniziale irrisorio, poi rimpolpato da un salvifico premio di qualità, La beau Serge venne presentato al Festival di Cannes fuori concorso, riscuotendo consenso di pubblico anche nella successiva distribuzione in sala: il successo inaspettato, spinse Chabrol a lanciarsi in fretta nella produzione di I cugini con la stessa troupe. Interpreti di entrambe le pellicole, Jean-Claude Brialy e Gérard Blain diventano, in breve, il volto del nuovo movimento, prima di Jean-Pierre Léaud e Jean-Paul Belmondo. Un esordio dolente e sincero.
Un vecchio medico parte in auto con la nuora, carica vari autostoppisti, va a trovare la vecchissima madre, arriva all’università di Lund dove si festeggia il suo giubileo, il 50° anniversario della sua attività professionale. Alle vicende del viaggio si alternano sogni, incubi, ricordi che si fanno parabola sulla morte nascosta dietro le apparenze della vita. “Non avevo capito che V. Sjöström si era preso il mio testo, l’aveva fatto suo e vi aveva immesso le sue esperienze… Si era impadronito della mia anima nella figura di mio padre e se ne era appropriato” (I. Bergman). È, forse, il più alto risultato di Bergman negli anni ’50. Orso d’oro al Festival di Berlino 1958 e molti altri premi. Il grande regista e attore Sjöström (1879-1960) morì 3 anni dopo le riprese.
Un film di Robert Bresson. Con Claude Laydu, Jean Danet, Jean Rivière, André Guibert, Antoine Balpêtre, Bernard Hubrenne, Gaston Séverin. Titolo originale Le journal d’un curé de campagne. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 110′ min. – Francia 1950. MYMONETRO Il diario di un curato di campagna valutazione media: 4,50 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un giovane parroco frequenta un castello il cui padrone, un conte, inganna la moglie con grande pena del figlio. Il prete si attira l’ostilità di entrambi. Malato di cancro, va a morire in casa di un prete spretato.Splendida, austera trasposizione del romanzo (1936) di Georges Bernanos. “Un’opera tutta fatta di verità interiore ha potuto per la prima volta passare sullo schermo senza la più piccola concessione” (Julien Green). Indimenticabile.
Un cacciatore di pelli amico dei pellirosse guarisce una ragazza indiana contesa dal capo tribù e da suo nipote. Lei, però, non ricambia e questa sua indifferenza esaspera soprattutto il più giovane corteggiatore.
Un reduce della seconda guerra mondiale, disoccupato, ruba delle pecore a un malvagio profittatore bellico per vendicarsi d’un furto che l’altro aveva compiuto ai suoi danni, ma il potente riesce a far condannare il poveretto. Non soddisfatto, il ricco insidia la fidanzata del carcerato che, evaso, cerca di vendicarsi. Il malvagio, sconvolto dalla paura, uccide la ragazza e perisce in un incidente. L’eroe si costituisce certo che un’altra donna, anch’essa vittima del profittatore, rimarrà ad aspettarlo.
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