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Un film di Chantal Akerman. Con Delphine SeyrigJan DecorteHenri StorckJacques Doniol-ValcrozeYves BicalDrammaticodurata 201 min. – Belgio 1975.

Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles [id., 1975]di Chantal Akerman è uno di quei film che obbliga lo spettatore, e ancor di più uno spettatore critico, a un’opera di riflessione che trascende la semplice analisi da un punto di vista formale e/o tematico, in direzione di un discorso che abbraccia la più antica e discussa questione sull’arte filmica, cioè “Che cos’è il cinema”. Un comune spettatore che si trovi davanti ai quasi 200 minuti di Jeanne Dielman [da questo momento in poi, per facilitare la lettura, si userà il nome abbreviato, ndr] potrebbe essere portato, infatti, a chiedersi quale sia l’intento dietro un’opera che per tutta la sua durata si “limita” (ma vedremo che è tutt’altro che un limitarsi) a mostrare la ripetitiva routine quotidiana di una donna occupata nei suoi piccoli impegni giornalieri, la preparazione dei pasti, la spesa, eccetera. Anche l’atto di prostituirsi, cioè l’azione che maggiormente esula dalle normali operazioni di una casalinga qualunque, è invero mostrato come uno dei tanti impegni della donna, inserito nella sua routine tra la preparazione delle patate e la pulizia del bagno. Con l’aggiunta che la Akerman sceglie, in un’opera che, come vedremo, ha un suo presupposto giustappunto nella rielaborazione dell’idea di visione, di elidere proprio quell’azione, l’atto sessuale, che suscita maggiore curiosità sullo spettatore-voyeur, a fronte invece di lunghissime sequenze con in campo una qualunque delle altre occupazioni della donna. Financo il tragico e potente gesto finale, che pur costituisce l’unico momento di vera progressione narrativa dell’opera, lungi dall’essere caricato di tensione drammatica, risultando infine la logica e fredda conseguenza degli eventi precedenti e, in conclusione, un atto più di disperazione che di speranza.

Tralasciando momentaneamente, dunque, la componente relativa alla critica sociale legata alla causa femminista (che pur verrà considerata nell’ultima parte del saggio), volontà di questa analisi è prima di tutto, a distanza di più di quarant’anni dalla sua uscita, di contestualizzare l’opera nella cornice più generale inerente al modo di pensare, e in questo caso ripensare, il cinema da un punto di vista ontologico. Emerge il quadro di un film giustamente da considerarsi di importanza capitale per l’evoluzione di una particolare tendenza cinematografica, oggi più che mai prolifica grazie al lavoro di Béla Tarr, Bartas, Tsai Ming-liang, Lav Diaz, ecc. Per comprenderne le ragioni è necessario procedere a una riflessione che tocca più livelli di indagine, a partire da quel quesito che da sempre anima gli studi teorici; ovvero, ancora una volta c’è da chiedersi, prima di tutto, cosa sia il cinema o, ancor meglio, cosa sia un’immagine cinematografica.

L’enigma della visibilità

La riflessione ontologica sull’immagine cinematografica accompagna l’arte filmica da ormai un secolo; riassumere in poche righe un dibattito così ricco richiederebbe dunque un’opera di semplificazione che non renderebbe giustizia a una questione di così grande interesse. Al riguardo esistono naturalmente le opere di quegli autori protagonisti del dibattito (Ėjzenštejn, Bazin, Morin, Arnheim, Kracauer, solo per citare i “padri” della materia), e una visione di insieme del tema è reperibile in un qualunque manuale di Teoria del cinema. Qui si provvederà a dare dei riferimenti generali che possano guidare il lettore a orientarsi nella lettura di Jeanne Dielman che si intende proporre.

Scrivono Bertetto e Alovisio: «Nell’etimologia della parola già si profilano le ambiguità che hanno animato il plurisecolare dibattito sullo statuto e sulla funzione delle immagini. [..] L’immagine è stata infatti concepita sia come una riproduzione della realtà che si offre alla vista (l’eikon dei Greci), sia come il risultato di una formalizzazione: non semplicemente riproduzione del sensibile, quindi, ma prodotto, costruzione formale. […] Dunque, da un lato imita la cosa; dall’altro segnala la distanza dall’oggetto che (ri)produce. Rappresentazione/costruzione, res/forma, assenza/presenza: su queste tensioni si articola quella complessa polarità tra imitazione ed espressione che informa il dibattito filosofico sull’immagine.»1

Si tende, dunque, a distinguere generalmente due grandi correnti teoriche nel dibattitto sull’immagine, quella che ne individua l’essenza nella sua dimensione realistica (Bazin su tutti), e quella che invece ne evidenzia il legame con l’immaginario (Morin). Va premesso però che il presupposto sostanziale per la comprensione ontologica del cinema è che esso si fonda, prima di tutto, sull’atto di mettere in una qualche forma di relazione una macchina da presa, cioè l’occhio, e un oggetto, una realtà. È nella riflessione sulla visione, perciò, che si sviluppa, un primo livello di analisi della problematica ontologica. In questo orizzonte di particolare interesse è la speculazione estetica di Maurice Merleau-Ponty, da inserirsi all’interno del quadro più vasto del pensiero fenomenologico entro cui si muove il filosofo francese; l’attenzione che egli pone, difatti, alle relazioni tra il corpo proprio e le strutture del mondo sensibile lo portano a confrontarsi col discorso specificatamente relativo allo sguardo. Egli scrive: «la pittura non celebra mai altro enigma che quello della visibilità»2, lì dove è possibile, naturalmente, ampliare il campo dalla pittura a tutte le arti visive. L’arte, d’altronde, è intesa da Merleau-Ponty come un mezzo per re-imparare a vedere il mondo. Se si accetta come condizione preliminare, perciò, che l’essenza del mezzo cinematografico vada ricercata prima di tutto nell’idea di sguardo, nell’enigma della visibilità, (ancor prima che nell’idea di narrazione, ad esempio), una prima enfasi sulla portata ontologica di un film come Jeanne Dielman si può ammettere sulla base dell’idea generale che sta alla base delle scelte visive e narrative di Chantal Akerman, cioè la volontà rielaborazione delle modalità concrete di porre in relazione l’occhio della macchina da presa, e di conseguenza quello dello spettatore, e la materia filmica.

Quale sia, o debba essere, la natura di questa relazione tra l’immagine e il mondo (realistica, immaginaria, allegorica, ecc.), costituisce dunque, sul piano concettuale, un secondo momento dialettico, che può infine estendersi alla teoria del montaggio, alla narratologia e ancora a tanti altri orizzonti teorici e filosofici a cui, in questa occasione, non è possibile neanche fare cenno. Il caso di Jeanne Dielman, evidentemente, impegna a confrontarsi più approfonditamente con la riflessione concernente il realismo e la natura realistica dell’immagine; sarà necessario, dunque, prendere in esame la questione da una prospettiva sia teorica che storiografica. Si è già detto, difatti, che il taglio del film ha avuto negli anni successivi una notevole diffusione, soprattutto nelle cinematografie emergenti (si parla a proposito di cinema contemplativo o di slow cinema). Altrettanto interessante è, però, ricercare se e dove vi si possano trovare degli antesignani, nonché contestualizzare l’operazione portata avanti dalla Akerman nell’ambito dell’evoluzione estetica e linguistica del cinema.

Oggi siamo maggiormente abituati all’estremismo delle scelte estetico/narrative di Jeanne Dielman. La sua cifra è diventata una vera e propria tendenza cinematografica che può contare su alcuni degli autori più interessanti della contemporaneità. Sopra il confronto tra una scena del film di Chantal Akerman e una del capolavoro di Tarr Il cavallo di Torino [A torinói ló, 2011].

Oltre il realismo classico: il tempo del film e il tempo della vita

Se infatti immediata può apparire l’associazione tra l’impostazione della regista belga e la grande famiglia della scuola del realismo, bisogna subito premettere che il termine fa riferimento a una varietà di indirizzi tutt’altro che omogenei sia nell’impianto teorico che nella dimensione pratica, cioè propriamente nella relazione instaurata tra l’occhio e l’oggetto che riproduce. È difficile pensare, difatti, di poter equiparareun’opera come Jeanne Dielmansia alle tendenze documentaristiche come il cine-occhio di Vertov e il cinéma vérité, sia al sistema dell’invisibilità classico. Il film non è un documentario(a differenza, ad esempio, dell’ultimo lavoro della Akerman, il bellissimoNo Home Movie, che pur presenta delle similitudini con il film del 1975), ma è a tutti gli effetti un film di finzione, con una sceneggiatura, degli attori e soprattutto un set, laddove l’ambiente reale è un elemento essenziale del cinema verità (si pensi, ad esempio, ai film di Pedro Costa). Il suo reale, in breve, risulta pertanto mediato dalla finzione cinematografica. Nondimeno, il film non è neanche una rappresentazione realistica di una storia piegata alle esigenze del dispositivo e dell’impianto narrativo. Non si ricerca quella che Rudolph Arnheim chiamava “illusione parziale”3, giacché l’uso ridotto dell’ellissi, e il rifiuto del montaggio ritmico in favore del piano sequenza, sono elementi che di fatto muovono verso un superamento del realismo inteso come semplice ri-presentazione fedele alla realtà, in direzione di un cinema a servizio della realtà, a servizio della vita, cioè non piegato alle dinamiche di manipolazione della dimensione temporale in nome delle logiche narrative classiche.

In No Home Movie [id., 2015], la Akerman porta il discorso iniziato quarant’anni prima in Jeanne Dielman al passo successivo. Ancora una volta una donna, sua madre, ripresa nella sua vita quotidiana, riproponendo alcuni momenti che non possono non ricordare il film del 1975. Questa volta, però, il rapporto con la realtà è totalmente privo di mediazioni.

In Jeanne Dielman, la vita, nella sua cruda, vuota e semplice quotidianità irrompe, infatti, sullo schermo senza quel filtro che generalmente interpretano la scrittura e il montaggio. La camera indugia sugli eventi, è statica (ricordando il cinema di Ozu), l’utilizzo dell’ellissi è minimo, in favore dell’idea che debba essere il dispositivo a adattarsi agli eventi e non viceversa. Le lunghe sequenze che compongono il film, in genere interrotte da pochissimi stacchi di montaggio, estremizzano l’idea di un cinema che valorizzi quelli che normalmente vengono considerati tempi morti. Anche i dialoghi sono scarni, i rapporti sociali della donna sono freddi, compresa quella col figlio, con cui le conversazioni sono ridotte al minimo; alcun tipo di relazione umana sembra invece esistere con i suoi clienti. È un’operazione, questa, in cui le scelte stilistiche si legano indissolubilmente alle necessità di caratterizzare, anche visivamente, entro certi tracciati la più ampia riflessione di carattere sociale che governa il film. Ma al di là di questo aspetto, che sarà analizzato successivamente, è evidente il carattere estremo delle scelte della Akerman, che, pur all’interno di un’idea generale sulla natura realistica dell’immagine cinematografica, porta avanti un discorso di rielaborazione del linguaggio che, in quegli anni, non è esclusiva della sola Akerman, ma che ha in Jeanne Dielman un caso quantomeno tra i più interessanti, per la capacità della regista di sperimentare, pur rimanendo nell’alveo del cinema narrativo.

Ricercando le radici teoriche di tali scelte nel dibattito sul realismo, possiamo notare come sia in Zavattini che in André Bazin fosse già presente una spinta in direzione di una sovrapposizione tra cinema e realtà. «Bisogna che lo spazio tra vita e spettacolo diventi nulla»4 scrive il massimo teorico del neorealismo italiano; e ancora «Dunque deve essere direttamente la vita ad affacciarsi sullo schermo. […] Il film valorizzerà dimensioni quali l’ordinario, il normale […] nessun fatto verrà considerato come semplice premessa di un altro fatto, a sua volta presto abbandonato. Si “resterà” sulla scena, perché essa ha in sé una densità illimitata»5. Particolarmente in quest’ultimo spunto è già presente in nuce lo spirito di Jeanne Dielman, e l’idea cioè di una totale coincidenza del tempo della storia col tempo del reale. Qui la riflessione sul realismo incontra la narratologia e, in particolare, il dibattito sulla temporalità cinematografica, in cui forte si fa l’influenza di Herni Bergson e della sua idea del tempo della coscienza6 in opposizione al tempo concepito come matematicamente calcolabile. Per primo Bazin7, in riferimento a Bergson, definisce il film “immagine della durata”, cioè «riproduzione del reale nel suo divenire perpetuo e nella sua insopprimibile novità»8. Il riferimento a Bergson è ancor maggiore nella riflessione di Deleuze nei suoi due volumi sul cinema, che rappresentano indubbiamente un momento fondamentale nell’evoluzione del discorso ontologico, soprattutto per il lavoro di classificazione delle tipologie di immagini racchiuse nelle due grandi categorie dell’immagine-movimento e dell’immagine-tempo. La rilettura della storia del cinema sulla scorta di questa classificazione tassonomica permette, infatti, di rivedere la sua evoluzione in base al graduale passaggio dagli schemi senso-motori del cinema fondato sull’azione, al loro progressivo allentamento in favore dell’immagine-tempo (più precisamente delle immagini ottico-sonore pure, delle immagini-ricordo, delle immagini-cristallo, ecc.), cioè quella tipologia di immagine in cui le parole di Zavattini sulla densità illimitata della scena si concretizzano. Già Bazin, anticipando di qualche anno Deleuze nel tentativo di rileggere la storia del cinema sulla base di criteri estetici, pensava che il neorealismo avesse inventato una nuova tipologia di immagine, l’immagine-fatto, e che il passaggio dal montaggio delle rappresentazioni al piano-sequenza faceva sì che il reale del neorealismo fosse un “reale mirato”, ambiguo, fluido, errante (e lo stesso Zavattini aveva parlato del neorealismo come di arte dell’incontro, sulla base della natura errante dei suoi protagonisti). L’immagine-tempo, per Deleuze è caratterizzata proprio dall’ambiguità e dalla ellitticità, i personaggi vagano senza meta, sono incapaci di reagire, da attanti si trasformano in veggenti. Proliferano dunque i tempi morti e il silenzio, protagonista diviene il tempo stesso, il divenire. Si tratta di caratteristiche, vedremo, che è possibile rintracciare anche nel film di Chantal Akerman.

Se si vogliono ricercare, dunque, le radici storiche di quel movimento del cinema verso una totale coincidenza non solo visiva ma anche temporale col reale, che è infine il carattere precipuo di Jeanne Dielman, bisogna guardare, come ci insegna Deleuze, alla modernità cinematografica, cioè quella tendenza che si costituisce a partire proprio dal neorealismo, per proseguire poi in quel cinema, che il filosofo francese assimila quest’ultimo, che comprende, tra gli altri, i film post-neorealisti di Rossellini, la trilogia dell’incomunicabilità di Antonioni, il cinema di Ozu, la Nouvelle Vauge, Tarkovskij, ecc. È in particolare nel capolavoro di Vittorio De Sica Umberto D. (sceneggiato proprio da Zavattini), che si può rintracciare un preciso episodio in cui le«situazioni senso-motorie dell’immagine-azione del vecchio realism9 (ivi compreso il primo neorealismo) lasciavano definitivamente spazio alla dimensione esclusivamente e drammaticamente umana; scena non a caso citata da Deleuze come esempio di immagine ottico-sonora pura. È quella con protagonista la cameriera Maria, che appena sveglia entra in cucina e svolge delle piccole azioni quotidiane e insignificanti, come la preparazione del caffè o l’allontanamento dal lavello di alcune formiche, finché il suo sguardo non cade malinconicamente sulla sua pancia gravida (ancora un incontro, dunque, ma senza una reazione che non sia puramente emotiva). Mai come in quel momento, la vacuità del tempo morto, o più precisamente del tempo reale, era entrata così prepotentemente sullo schermo.

Un frame della scena di Umberto D. in questione. La giovane cameriera incinta è ripresa nelle sue azioni quotidiane, sovvertendo le regole classiche sulla narrazione e sull’ellissi dei tempi morti.

In Jeanne Dielman non ritroviamo altro che le stesse dinamiche, estese però a tutta (o quasi) la durata dell’opera. Il film, da questo punto di vista, va indubbiamente collocato nello stesso indirizzo cinematografico, con un afflato e una volontà di sperimentazione che è però del tutto innovativa. Se apparentemente può sembrare azzardato definirlo un film “errante”, in realtà la nostra protagonista ha nel ritmo che guida le sue azioni sempre identiche a sé stesse, un movimento armonico non dissimile da quello descritto da Deleuze e che caratterizza tutta la modernità. Anche l’idea di incontro è qui portata su un livello più metaforico, lì dove Jeanne nel suo vagare nel labirinto della sua meccanica monotonia, non incontra altro che la miseria della sua condizione. Le azioni della donna, inoltre, non agiscono sulla storia, non producono alcun cambiamento, ella assiste da veggente alla sua vita apparentemente senza speranza, proprio come la cameriera di Umberto D o Ingrid Bregman in Stromboli. La rottura di questo schema nel finale, delle cui conseguenze non siamo edotti, ma che possiamo immaginare non produca un miglioramento nella qualità della vita, se da un lato trasforma la donna da veggente ad attante, dall’altro amplifica il senso di disperazione che caratterizza tutto il film. Ciò, naturalmente, è correlato alla dimensione sociale e politica del film; aspetto che, come già anticipato, ha però un legame diretto con la componente estetica fin qui trattata

Non si sa quanto effettivamente la regista belga sia stata influenzata dal cinema di Ozu. Come è possibile notare da questi confronti, tanti punti in comune si evidenziano sia nella composizione formale dell’immagine, orientata verso una certa simmetria, sia nel posizionamento e nella fissità della macchina da presa.

Estetica è politica

La relazione tra la dimensione estetica e quella politica di un film è un altro tema che ha a lungo caratterizzato gli studi sul cinema; in questo contesto, ci interessa evidenziare il legame profondo esistente tra le scelte visive e la natura indubbiamente sociopolitica del film, per portare a termine il discorso analitico su Jeanne Dielman.

Bisogna ricordare che Chantal Akerman, negli anni immediatamente precedenti la produzione del film del 1975, ha vissuto per un periodo a New York, dove si è avvicinata agli autori del New American Cinema Group, quali Mekas, Barkhage, Snow e Warhol. L’autrice ha dunque una formazione cinematografica improntata alla sperimentazione e influenzata dal clima culturale e rivoluzionario (seppur in senso più artistico che politico) che caratterizzava quegli anni. In particolare, la Akerman, in parallelo al lavoro che nello stesso periodo porta avanti soprattutto Laura Mulvey (massima esponente anche della Feminist Film Theory), diviene ben presto tra gli esponenti di spicco di quello che viene generalmente definito Cinema Femminista. Non si sottovaluti, d’altronde, il clima di generale rivoluzione del linguaggio filmico che ha caratterizzato tutto il nuovo cinema degli anni Sessanta e Settanta. È in questo contesto di sollecitazione alla rottura con l’estetica e la narrazione classica che si inserisce Jeanne Dielman, la cui operazione di riflessione sulle idee di sguardo, rappresentazione, realismo, compiuta attraverso la rielaborazione del linguaggio cinematografico, possiede una dimensione politica interdipendente alla tematica trattata dal film. Che l’aspetto non prettamente contenutistico potesse avere anch’essa una funzione politica e ideologica è difatti un’idea che in quegli anni caratterizza tutto il cinema politico; basti ricordare l’abiura di Godard nei confronti della sua precedente produzione artistica in seguito alla conversione alla causa maoista e la conseguente formazione del Gruppo Dziga Vertov. Un cinema politico, infatti, si pensava richiedesse necessariamente la rottura con ogni aspetto dell’impianto classico, dall’estetica, all’utilizzo del montaggio, alla tipologia di narrazione. Le radici di questa idea, in realtà, si possono ritrovare già nel dibattito ontologico legato al realismo; per Bazin, la capacità dell’immagine cinematografica di ricalcare la realtà si convertiva infine in unapartecipazione al mondo, che non era, nell’idea del fondatore dei Cahiers, da leggere necessariamente in chiave politica, ma che dava la misura di quanto, naturalmente, l’idea di una sovrapposizione tra realtà e immagine cinematografica poteva aprirsi in quella direzione (e difatti il neorealismo è, a suo modo, un cinema politico o, perlomeno, sociale).

Nella scena che precede l’impulso omicida di Jeanne, la donna, a seguito dell’amplesso, è letteralmente schiacciata dall’uomo. Un’evidente metafora della condizione psicologica della donna, che difatti da lì a poco tenterà un disperato gesto di liberazione.

Il contributo fondamentale in questa direzione viene proprio dai Cahiers du Cinéma fondati da Bazin, ma diversi anni dopo la sua morte. È il 1969 e a dirigere la rivista è Jean-Louis Camolli, particolarmente impegnato nella critica ideologica del cinema. Cinéma, idéologie, critique10, a cura dello stesso Comolli e di Jean Narboni, propone sette gruppi entro cui catalogare i film, in base alla loro relazione con l’ideologia dominante. Criterio per definire tale relazione è, oltre l’aspetto meramente contenutistico, il rapporto con la realtà e la sua rappresentazione. Senza dilungarsi troppo nella descrizione delle varie categorie, si deve evidenziare come le due dimensioni, quella legata al significato, e quella legata al significante, alle modalità di rappresentazione, non abbiano per i due autori la stessa rilevanza. Si condannano, infatti, come film legati all’ideologia quelli che pur presentando un contenuto politico, ne utilizzino poi il linguaggio e l’immaginario (valendo sia per i film di finzione che per il cinema diretto). Al contrario, vengono valutati impermeabili e in contrasto all’ideologia dominante non solo quelle opere che al chiaro contenuto politico affiancano una rottura totale col sistema rappresentativo classico, ma anche quelle apolitiche, purché presentino questo secondo aspetto. Ciò a dimostrare, come si diceva prima in riferimento a Godard, del valore intrinsecamente politico assegnato all’aspetto prettamente visivo.

È in questa chiave, al di là delle considerazioni di Comolli che oggi, nell’era post-ideologica (o dell’ideologia unica) possono apparire esagerate, che si vuole leggere Jeanne Dielman. Non per un interesse di esegesi politica, e difatti non seguirà una disquisizione approfondita della evidente matrice femminista del film, su cui, a distanza di così tanti anni, c’è poco da aggiungere. Ma perché in un’analisi che pone la sua attenzione sulla natura innovativa del film, e sulla matrice ontologica della sua riflessione sullo sguardo, la dimensione anche rivoluzionaria (qui in senso strettamente politico) del suo impianto visivo è un elemento che non può essere tralasciato. Quanto detto fin qui sulle modalità di relazione in cui la Akerman pone la macchina da presa e il reale, è difatti strutturale al discorso sociale e politico del film, non solo per il semplice carattere di rottura, che può essere tipico di una qualsiasi sperimentazione, ma poiché la potenza del messaggio voluto dalla regista funziona nella misura in cui è mostrato in questa specifica modalità. Impostare allora un discorso sullo statuto dell’immagine, sul suo rapporto col reale, sulla sua durata, eccetera, diviene anzitutto urgenza di utilizzare le infinite possibilità del mezzo cinematografico per, citando Bazin, una vera partecipazione al mondo.

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