Lou, un grigio balordo che si fa mantenere da una tardona, ha un’avventura con la giovane Sally di cui assume la protezione uccidendo due gangster che la perseguitano. Sapientemente ambientato nella cornice della famosa città termale decaduta, è un dramma gangster dove contano i personaggi più che l’azione. Dominato da un ottimo Lancaster, diretto con intelligenza da Malle in scene d’amore e violenza. Leone d’oro a Venezia ex aequo con Gloria di J. Cassavetes.
Il figlio di un circense eredita dal padre un circo e cerca di migliorare le cose. Non riuscendoci tenta la carta della televisione. Un film che coniuga la vita con la politica in un gioco non destinato a un vasto pubblico. Vinse il Leone d’oro alla Mostra di Venezia.
Un coltivatore di cocomeri si scontra con la mafia che s’è assunta il controllo del reclutamento dei braccianti locali. Lo sbattono in galera sotto falsa accusa. Lui scappa, coinvolgendo nella fuga un famoso gangster. Finisce che deve vedersela con tutti in una volta: mafiosi e gangster. Ma lui è un duro, pluridecorato in Vietnam
Lei ha trascorso tutte le sue vite precedenti impalando vampiri. Lui è Donald Sutherland che, con un impermeabile di bogartiana memoria, fa il suo istruttore. Il vampiro è l’ormai perso alla causa Rutger Hauer che si butta via in B-movie come questo. Ennesima rivisitazione del genere con la figlia di Natalie Wood in una particina.
Jean de Carrouges e Jacques Le Gris sono eterni rivali. Scudieri normanni con alterne fortune, affrontano la vita come il campo di battaglia. Jean de Carrouges crede nella spada e nell’onore, Jacques Le Gris nell’astuzia e nella fedeltà a chi fa i suoi interessi. Se il primo è abile sul campo, il secondo è scaltro a corte dove si guadagna la simpatia e la protezione di Pierre d’Alençon, conte e cugino del re Carlo VI. Ma più della competizione per i feudi può la bellezza di Marguerite de Thibouville. Sposa con dote di de Carrouges, Marguerite diventa l’ossessione di Le Gris, che approfitta dell’assenza del rivale per rivelarle tutta la meschinità dei suoi sentimenti.
C’era bisogno di un Babbo Natale veramente bastardo, da chiamare mocciosi i bambini che siedono simpaticamente sulle sue ginocchia esprimendo desideri di regali festosi? La risposta è si. Il film prodotto dai Coen Brothers fa ridere cinicamente, con le sue volgarità gratuite e il suo tasso alcolico da coma etilico. Willie è il Santa Claus in questione, accompagnato da un simpatico nanetto di colore vestito da folletto. Entrambi trascorrono l’anno in attesa del mese di dicembre, in cui vestendosi da festa, assoldati dal department store del caso, divertono a modo loro i bambini che accorrono a frotte, per poi svuotare, la notte della vigilia, la cassaforte con il malloppo. Nell’anno in corso, Willie è sempre ubriaco, e il suo ruolo da Babbo che cammina a zig-zag, illuminato solamente da un bambino timido e grassottello che lo perseguita, insospettisce il gestore del negozio (un imbolsito John Ritter, pace all’anima sua) e il responsabile della sicurezza. Il colpo questa volta non è così semplice. Caustico e irriverente nei dialoghi, con un Billy Bob Thornton perfetto, alcolista come nella vita, Babbo bastardo, o meglio Bad Santa, non sarà ricordato come il film dell’anno, ma è un perfetto antagonista dei film buonisti in sala a Natale. Non vi preoccupate, la dolcezza è garantita dal ragazzino monoespressivo che con i suoi rotolini di grasso, riesce perfino a conquistare un uomo che desidererebbe un figlio a forma di bottiglia di Bourbon.
Edit 16/4/2024 sostituita versione 576p con 1080p.
L’unico film da vedere a Natale, altro che una poltrona per due..:-)
A Ravenna, ridotta a deserto industriale, una giovane borghese nevrotica, moglie di un ingegnere, cerca vanamente un equilibrio. 9° film di Antonioni, e il suo primo a colori, in funzione soggettiva (fotografia di Carlo Di Palma, Nastro d’argento) come espressione di una realtà dissociata e con ambizione di trasformarlo esso stesso in racconto come “mito della sostanziale e angosciosa bellezza autonoma delle cose”. Come nei 3 precedenti film con Monica Vitti, la donna è l’antenna più sensibile di una nevrosi comune nel contesto della società dei consumi e della natura inquinata. Leone d’oro a Venezia.
Un film di Andrei Tarkovsky. Con Nikolaj Grinko, Kolia Buriliaev, Valentin Zubkov Titolo originale Ivanovo detstvo. Guerra, Ratings: Kids+16, b/n durata 95 min. – URSS 1962. MYMONETRO L’infanzia di Ivan valutazione media: 3,50 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Ivan è un ragazzino che ha visto i genitori uccisi dai tedeschi. La guerra gli porta via l’infanzia. Decide di battersi anche lui contro i nazisti, attraversando ogni notte un fiume e tornando alle linee russe con preziose informazioni.
Napoli, primi Anni Sessanta. Crolla un palazzo a causa di un cantiere limitrofo di proprietà di un certo Nottola, speculatore edilizio appoggiato dalla maggioranza che guida l’amministrazione della città. Viene aperta una commissione d’inchiesta dalla quale emerge che le pratiche per la concessione sono state corrette dal punto di vista formale. Nottola è però diventato ‘scomodo’ e non è possibile garantirgli il posto da assessore che egli pretende in seguito alle ormai imminenti elezioni. Ci sono film, anche di valore, che con il passare degli anni perdono la presa che ebbero al momento della loro uscita e restano lì a farsi ammirare come un prezioso utensile del passato di cui riconosciamo la perfezione ma che può solo restare chiuso in una teca. Altri invece (e il film di Rosi è fra questi) che invece conservano una loro inattaccabile attualità. Verrebbe da dire: purtroppo. Purtroppo perché quei problemi, quel malcostume, quel modo di intendere l’amministrazione della cosa pubblica perdurano. È sicuramente anche questo uno dei motivi della tenuta di Le mani sulla città ma quello che lo distacca dalla cronaca politica è lo stile narrativo. Rosi non fa un ‘film di denuncia’, va oltre. Sceglie un taglio da “cinema verité” quando riprende le sedute del Consiglio comunale offrendoci dei totali di un’aula in cui ci si prepara a una lotta di tutti contro tutti. Da questo magma fa emergere delle figure che sono rappresentative di posizioni e di interessi diversi che finiscono con il ruotare attorno a Nottola (interpretato da un Rod Steiger che domina l’inquadratura). Sarebbe facile definire ‘profetico’ un film in cui si agitano ‘mani pulite’ o in cui il conflitto di interessi diviene tanto palese quanto socialmente metabolizzato. Le mani sulla città è qualcosa di più e di diverso. È un film che va alle radici di uno dei cancri che hanno corroso e continuano a corrodere la nostra società e ne mette spietatamente in luce le metastasi. Divenendo un paradigma (anche se non del tutto compreso, al di là delle polemiche sul suo contenuto, al momento dell’uscita). Tanto che anche il cinema successivo gli ha reso omaggio in più occasioni. Due esempi per tutti. La voga da fermo di Nanni Moretti, protagonista de La seconda volta di Mimmo Calopresti, che richiama l’entrata in scena di Maglione e il politico non vedente in Baarìa che, dinanzi a un plastico di un nuovo complesso edilizio, mette, letteralmente, ‘le mani sulla città’.
Il detective Welles, uomo integro la cui unica trasgressione consiste nel fumo clandestino di qualche normale sigaretta, riceve un incarico particolare. Deve scoprire se il film trovato nella cassaforte di un riccone deceduto da poco sia o meno uno snuff movie, cioè un film in cui le sevizie e gli omicidi non sono simulati ma veri. Da qui parte un’indagine che lo porterà a visitare un inferno reale difficilmente immaginabile. Cage calca i toni sin dall’inizio rendendo risibile un soggetto che, in altre mani, avrebbe potuto denunciare un fenomeno dolorosamente reale.
Tomas va in vacanza sulle Alpi francesi con la moglie Ebba, i 2 figli e una coppia di amici. Durante un pranzo sulla terrazza di un rifugio, una valanga sembra sul punto di travolgere tutti quanti. La gente fugge, Tomas con loro, mentre Ebba protegge i figli e si rifugia con loro sotto un tavolo. L’episodio scatena una crisi nella coppia. Partendo da un’idea forte – come reagiscono gli essere umani di fronte a una improvvisa situazione di pericolo? – Östlund – uno dei più interessanti talenti del cinema europeo – sviluppa un’analisi psicologica dei personaggi con una profondità e un’ironia rare e molto originali, senza perdere un colpo e senza annoiare mai, offrendo interessanti spunti di riflessione allo spettatore sulla natura umana, sui ruoli dell’uomo e della donna all’interno della famiglia e nella società. Premiato a Cannes a “Un Certain Regard”.
Quentin e Tracy, marito e moglie, prendono una vacanza in un castello solitario e mal gliene incoglie. Lì, infatti, due secoli prima, visse un nobile impazzito di dolore quando la sua amante fu fatta impiccare come adultera per le accuse di sua moglie. Ora il suo spirito si impossessa di Quentin, che naturalmente riversa ogni violenza addosso a Tracy.
È la storia di un uomo che vive tirando il riksciò per turisti danarosi. Forte e violento, ma di cuore gentile, si prende cura di una vedova e del suo figliolo adolescente. Per merito suo il ragazzo studierà e si farà strada nella vita.
Un picnic in riva al fiume; un gruppo di coetanei si riunisce vent’anni dopo un’eguale scampagnata. Kim Young-ho, di cui tutti avevano perso le tracce, si presenta in evidente stato confusionale e commette un plateale suicidio. Di qui, Peppermint Candy ricostruisce a ritroso la tragedia di un individuo sullo sfondo di vent’anni di Storia della Corea, dalle repressioni del movimento democratico ai tempi della dittatura sino al boom economico e alla crisi di metà anni Novanta. Un capolavoro imprescindibile.
1916: Oreste Jacovacci, romano, e Giovanni Busacca, milanese, sono due scansafatiche furbastri e vigliacchetti. Dopo aver cercato invano di imboscarsi si trovano arruolati e al fronte. Da quel momento vivono tutte le disgrazie di una guerra: il cibo pessimo, le marce forzate, il freddo, la paura, qualche piccola distrazione militare, persino un’avventura con una prostituta (la vive il “milanese” Gassman). In una cosa i due sono sempre in prima fila: nell’evitare le grane, piccole o grandi che siano. Riescono a farla franca tutte le volte, ma una notte si trovano per caso in una cascina che viene presa dai nemici. Cercano di scappare travestendosi da austriaci, vengono catturati e proprio in virtù del travestimento potrebbero essere fucilati. Il colonnello nemico promette che li salverà se riveleranno l’ubicazione di un certo ponte di barche sul Piave. I due conoscono l’informazione delicatissima e decidono, per salvarsi, di parlare. Ma il colonnello dice la frase sbagliata e provoca nei due un incredibile rigurgito di orgoglio. È Gassman il primo a reagire, con la famosa battuta, al colonnello: “… visto che parli così, mì a tì te disi propri un bel nient, faccia di merda…”. E muoiono da eroi, fucilati. Film importante ed esclusivo, irresistibile per quasi tutti gli aspetti: l’interpretazione di tutti gli attori, la ricerca iconografica, la verità degli episodi e l’attendibilità storica. La sceneggiatura di Age, Scarpelli e dello stesso Monicelli presenta spesso toni comici – Gassman assomiglia molto a quello dei Soliti ignoti – e privilegia la bravura di tutti i caratteristi, anche non attori, come il pugile Tiberio Mitri e il cantante Nicola Arigliano. L’artificio, certamente commerciale, di contrapporre a una situazione divertente una drammatica, si è tradotto, alla resa dei conti, in un arricchimento, anche rispetto ai toni dei grandi film italiani della stagione del neorealismo, capolavori sì, ma spesso cupi e monocordi. Gli anni de La Grande guerra erano davvero quelli d’oro. Il nostro cinema non sarebbe mai più stato a quell’altezza.
Una gioia per gli occhi, ma il resto? Due le intenzioni di Castellani: fare della trasposizione uno spettacolo il meno aulico possibile e rendere “italiani” personaggi, usi, costumi, ambiente, ancorandoli alla tradizione pittorica del Quattrocento (Uccello, Carpaccio, Pisanello, Botticelli, Ghirlandaio…), scegliendo gli esterni tra Venezia, Siena, Verona, Montagnana, Sommacampagna, Castelvecchio. Splendida fotografia di R. Krasker. Protagonisti giovani, ma poco scattanti: meglio i personaggi di contorno. Di grande dignità figurativa, ma un po’ algido. Né Shakespeare né Luigi Da Porto, come il regista avrebbe voluto. C’è anche Elio Vittorini come principe Bartolomeo. Sopravvalutato al suo tempo (Leone d’oro a Venezia nell’anno di Senso , L’intendente Sanshô , La strada , Fronte del porto ) e sottovalutato dopo.
Il film racconta del processo a Elsa Lundenstein che ha ucciso il vecchio amante affetto da un tumore alla gola iniettandogli una forte dose di morfina. Elsa ha cercato di sbarazzarsi di un uomo che le era divenuto odioso, o ha praticato, come lei stessa sostiene, l’eutanasia?
Film del realismo socialista, ma ben realizzato, tanto da guadagnarsi un Leone d’oro a Venezia. Le lotte degli operai slovacchi all’inizio del secolo contro i padroni cechi.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Un film di Henry Hathaway. Con Lucille Ball, Clifton Webb Titolo originale The Dark Corner. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 99′ min. – USA 1946. MYMONETRO Il grattacielo tragico valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Scontata una pena per una colpa non commessa, detective privato si trasferisce a New York e scopre una trama ai suoi danni. Dramma svelto, efficace ed eccitante con una Ball insolita. Hathaway era nel suo periodo realistico.
Gli Oakland Athletics sono una buona squadra di baseball che però non può competere con i budget stratosferici di squadre come ad esempio i New York Yankees. Quando al termine di una buona stagione il general manager Billy Beane si vede portar via i suoi tre migliori giocatori,la loro sostituzione diventa impossibile, soprattutto con i pochissimi soldi a disposizione. A questo punto però Beane incontra Peter Brand, giovane laureato in economia che gli dimostra come si possa costruire una squadra vincente basandosi sulle statistiche invece che sui nomi altisonanti. Beane abbraccia la filosofia del ragazzo e rifonda la squadra con nomi sconosciuti o apparenti scarti, lasciando basiti tutti i collaboratori degli Oakland Athletics, compreso l’allenatore Art Howe. All’inizio le cose non sembrano funzionare, ma pian piano il “sistema” messo in piedi da Beane Brand comincia a dare frutti insperati…
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